Il senso della liturgia. Dalla verità del fondamento la libertà per provocazioni ancora attuali: questo è Ratzinger, annata 1966 (2)

Riportiamo di seguito la seconda parte delle considerazioni sul rinnovamento liturgico, offerte da J. Ratzinger al convegno dei cattolici tedeschi a Bamberga, per il Katholikentag del 1966. [cf. i post precedenti: https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/06/12/la-situazione-del-rinnovamento-liturgico-un-soprendente-j-ratzinger-annata-1966/; https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/06/11/il-sacro-nella-liturgia-da-auge-alcuni-punti-chiarificatori-con-un-sorprendente-ratzinger/%5D
Il pensiero di Ratzinger ha un fondamento teologico e spirituale certissimo, e con la libertà della verità può poi permettersi delle provocazioni che non hanno perso per nulla la loro attualità. Nonostante siano datate, le riflessioni rimangono attuali: si colgono intuizioni e preoccupazioni che saranno anche quelle del Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e del Successore di Pietro. Ma il suo anelito per un equilibrio che mitighi il rischio di un nuovo ritualismo, per una tolleranza che scongiuri la furia iconoclasta e, finalmente, per una riconciliazione fra le diverse sensibilità pare ancora incompiuto. E non sembra che ciò sia da imputare solamente ai fautori della riforma liturgica. Anzi, se in questo ambito non mancano coloro che guardano con rispetto e considerazione il tesoro della tradizione, non pare che simili aperture verso i nuovi rituali si registrino fra i cultori della liturgia tridentina.
Lasciando però da parte le nostre considerazioni, volentieri ridiamo la parola a J. Ratzinger:

Diremo perciò: la liturgia non ha il senso di riempirci, in un clima di tremore e di presentimenti, con la sensazione del santo, ma di confrontarci con la spada tagliente della parola di Dio; non ha il senso di darci una cornice di bellezza solenne per un silenzioso rientrare in noi stessi e meditare, ma ci vuole includere nel noi dei figli di Dio e perciò anche nella kenosi di Dio, il quale è sceso nell’ordinario, al punto che Paolo dovette dire della comunità di Corinti: “Infatti, considerate tra voi, o fratelli, quelli che egli ha chiamato: non molti sono i sapienti secondo l’estimazione terrena; non molti i potenti, non molti i nobili” (1 Cor 1,26). E nella stessa lettera, rivolgendosi agli estatici glossolali, che amavano parlare nel linguaggio del mistero, Paolo afferma severamente: “Ma nell’adunanza dei fedeli preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri, che diecimila in virtù del dono delle lingue” (1 Cor 14,19). Richiamandosi a questi testi, si tradusse a Roma nel quarto secolo la liturgia greca, divenuta incomprensibile, nella lingua latina, riportandola cioè a livello di lingua del popolo. Il noto storico della liturgia, Th. Klauser, afferma in proposito: “Nella fredda Roma del quarto secolo non si era più coscienti che gli strani suoni, emessi spesso a Corinto dai carismatici in qualità di liturghi, erano espressioni del loro stato estatico. Se Paolo obietta contro il ‘parlare in lingue’ dei liturghi carismatici, deve aver inteso, secondo l’opinione dei liturghi romani di questo tempo, il loro parlare in una lingua straniera incomprensibile. Probabilmente Paolo non avrebbe avuto nulla da eccepire ad una tale interpretazione delle sue dichiarazioni. Che si trattasse di parlare in lingue o di lingua straniera – era comunque qualcosa che non rientrava nella sua idea di liturgia. Se la riforma liturgica del concilio appare cosi non soltanto legittima, ma addirittura necessaria, ciò non significa certo ancora che si debba giungere alla stessa conclusione per tutte le sue realizzazioni pratiche. Quando si vede quanto sia più spedito il rinnovamento liturgico in Paesi che non possono guardare nel passato alla gloriosa preistoria di un lungo movimento liturgico, si può certo supporre a buon diritto che nella doppia radice del movimento liturgico, da cui è nato il frutto del concilio, c’è qualcosa dei problemi che oggi ci danno da fare. Il movimento liturgico è da noi, da’un lato, un frutto del movimento giovanile, e, da un altro lato (strettamente congiunto), un frutto di rinnovamento teologico. Ma dai due lati emergono alcuni elementi unilaterali. Dal lato teologico si registra un certo arcaismo, il cui scopo consiste nel liberare la forma classica della liturgia romana dall’enorme vegetazione medievale e carolingia. Quale criterio di rinnovamento liturgico, non si prende allora tanto la domanda: come dev’essere?, ma: com’era allora? Va detto pero a questo proposito: per quanto l’allora ci dia aiuti indispensabili per venire a capo dell’oggi, esso non è pero semplicemente il criterio, che si possa porre a base di una riforma. E certo un dato prezioso il sapere come abbia fatto Gregorio Magno, ma non è una ragione costringente per cui oggi si debba fare lo stesso. Con questo arcaismo invece ci si è chiusa per molti versi la strada al senso del legittimo, presente anche in sviluppi posteriori, e si è dogmatizzato il gusto di un’epoca, che è certo degno di rispetto, ma tanto poco esclusivo quanto ogni altro gusto.
A volte si può naturalmente in questo modo provocare il contrario, e ciò conduce all’altra radice del movimento liturgico. Chi si ricorda della tenace severità con cui fino a pochi anni fa fu dogmatizzato il corale come l’unica forma legittima di musica da chiesa, dell’indignazione con cui si proibì ogni orchestra nel santuario (in fondo, e prodotto dell’epoca barocca, ed è già una sufficiente squalifica che qualcosa sia carolingio invece che romano!), e chi osserva ora l’ingresso nella casa di Dio di tutt’altre orchestre d’improvviso entusiasmo jazzistico, farà fatica a prendere con uguale serietà ed impegno tutto ciò che gli viene proposto di volta in volta e con la più grande pretesa come espressione di movimento liturgico. Il puro arcaismo non serve e la pura modernizzazione serve ancora meno.
Chi ritiene che la celebrazione liturgica si compia soprattutto per Dio, guarderà necessariamente con sospetto il ruolo che l’espressione ‘dar forma’ ha assunto nel frattempo in certe cerchie liturgiche. Chi potrebbe immaginarsi che gli apostoli abbiano fatto prove di funzione liturgica, per poter stabilire quale forma potesse essere più efficace da un punto di vista liturgico e missionario? Si ha non di rado la sensazione che l’attenzione di queste persone che danno forma alla liturgia sia appunto più rivolta alla forma liturgica, che non a colui, al quale si indirizza. Si captano allora gli intenti e si è delusi. Un po’ meno di perfezionismo sarebbe un po’ più di culto di Dio. E chi potrebbe negare che ci troviamo così a dar vita ad un nuovo ritualismo di forme ricche di inventiva, che ritornano a coprire e a nascondere la realtà quasi più dei riti tradizionali, spesso non più avvertiti come tali? Chi potrebbe poi negare l’esistenza di esagerazioni ed unilateralità, che sono scandalose e non appropriate? E’ proprio realmente necessario che ogni messa sia celebrata versus populum? E’ poi tanto importante poter guardare in faccia il sacerdote, o non è anche spesso salutare pensare che anch’egli è un cristiano con gli altri ed ha ogni buon motivo per rivolgersi a Dio insieme a loro e per dire con loro ‘Padre nostro’? Il tabernacolo è stato allontanato dagli altari maggiori, e ci sono ragioni a giustificazione della cosa; ma si può essere colti da un senso di disagio, quando si vede che al suo posto c’è ora il seggio presidenziale del sacerdote e si delinea così nella liturgia un clericalismo, che può essere più serio di quello del passato. Quello sviluppo liturgico, che eliminò la sede centrale del sacerdote e fece dello stesso tabernacolo del Signore il presidente della liturgia, non aveva forse anche il suo buon significato, che noi oggi solo lentamente cominciamo a comprendere di nuovo? L’eliminazione della sede sacerdotale e l’edificazione del tabernacolo non è stato anche segno della crescente consapevolezza che il tempio cristiano e polarizzato intorno a Cristo e che la liturgia cristiana conosce un solo presidente, e cioè lui? Con questo non si vogliono contestare gli argomenti, che hanno messo in luce con buone ragioni bibliche la preminenza della celebrazione liturgica attiva rispetto all’adorazione; va però segnalato un pericolo della nostra forma, un pericolo che mi sembra evidente.
Inoltre, è giusto ed è anzi necessario che si invochi oggi radicalmente semplicità, un appello che vuol accantonare ogni splendore estetico per esperimentare in modo nuovo la forza originaria della parola e della realtà, che qui ci viene incontro. La chiesa deve ritornare continuamente alla semplicità delle origini, per esperire e comunicare dietro tutte le forme la realtà autentica. Ma al tempo stesso non si deve dimenticare che andare alla cena del Signore significa per sua natura compiere una festa, e che la festa richiede anche una bellezza solenne: il praeclarus calix si spinge fino all’ora dell’ultima cena, e se l’intera liturgia si preoccupa di essere praeclarus calix, nel quale diviene visibile ed udibile lo splendore dell’eterno, allora non deve temere nessun purismo ed arcaismo. Forse una tale bellezza può essere più servizio disinteressato che non la fantasia di forme, che si compiace di idee liturgiche sempre nuove.
Ed infine, la lingua della liturgia dev’essere comprensibile: ed è conclusione indubitabilmente vera, una legge fondamentale della liturgia. Ma quando la chiesa se ne partì dal suo ambiente semitico materno, prese con sé un paio di parole, che da allora appartengono a tutti i cristiani: l’amen, l’alleluia, l’hosanna e, prima ancora, il Marana tha. Quando Roma abbandonò la lingua greca, fece lo stesso: si mantenne il Kyrie eleison, l’hagios o theos, e nella messa papale solenne si continuò a leggere (come si legge ancora oggi) il vangelo in latino e in greco. Non deve far soffrire un poco, se ci viene tolto il Kyrie, il tenue filo, che nei secoli della divisione ci ha legati con le chiese dell’oriente? Ed inoltre, se riteniamo giusta la decisione di Roma di passare dalla lingua greca a quella latina non potremo però dimenticare che questa decisione contribuì a costituire l’inizio della separazione tra Oriente ed Occidente, la quale fu ampiamente un problema di lingua e di liturgia. La lingua ha un peso molto più grande di quanto abitualmente pensiamo. Ciò vuol dire che nell’ora in cui la chiesa entra del suo cammino attraverso la storia, la traduzione della liturgia è qualcosa di necessario, ma non deve degenerare in furia iconoclasta. Esiste una legge della continuità che non si può impunemente trasgredire.La somma di tutto questo significa che la riforma liturgica richiede un alto grado di tolleranza all’interno della chiesa, una tolleranza che rappresenta il nome sobrio ed obiettivo per l’amore cristiano in questo settore. E che si noti qui spesso una relativa deficienza, è esattamente la crisi vera del rinnovamento liturgico tra di noi. Il sopportarsi a vicenda, di cui parla Paolo; la longanimità dell’amore, di cui parla Agostino – essa solo può costituire lo spazio, in cui la celebrazione liturgica riesce a maturare in un vero rinnovamento. Poiché la liturgia più antica della cristianità è l’amore.

“La situazione del rinnovamento liturgico”: un sorprendente J. Ratzinger, annata 1966.

Come avevamo preannunciato, siamo ora in grado di mostrare il testo della conferenza dell’allora professore J. Ratzinger all’annuale convegno della Chiesa tedesca, nell’edizione del 1966, a Bamberga.
Offriamo in questo post e, per non appesantire oltremodo la lettura, nel successivo, una delle sezioni del contributo che, più ampiamente, aveva come tematica generale e titolo “Il Cattolicesimo dopo il Concilio”. Interessa qui in particolare la prima sezione: “1. La situazione del rinnovamento liturgico”. I lavori della riforma liturgica stavano entrando nella fase di studio dei concreti e più dettagliati ambiti della vita sacramentale e di preghiera della Chiesa, ma alcune grandi direttrici erano già chiarite, come la questione della lingua e di una maggiore partecipazione dei fedeli nelle celebrazioni. Per questo le considerazioni di Ratzinger, anche se generiche, risultano ancora oggi ficcanti. Per quanto si sia voluto ridurre il pensiero del futuro prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede e, poi, Sommo Pontefice, in categorie schematiche e in valutazioni spesso viziate dal pregiudizio, l’argomentazione di Ratzinger sorprende sempre. Che si concordi o meno con le sue ragioni, non si può negare la profondità del suo pensiero, ogniqualvolta ci si liberi da considerazioni estranee all’argomentare stesso.
Anche in questo caso, la ricchezza e l’apertura della visione ci pare senza dubbio degna di essere considerata attentamente.

 1. La situazione del rinnovamento liturgico
Il risultato del concilio di maggiore evidenza è il rinnovamento liturgico. Ma proprio questo rinnovamento liturgico, tanto desiderato ed accolto con tanta gioia, è divenuto per molti versi il segno di contraddizione. Certo: chi si occupa seriamente della realtà della liturgia cristiana, non può dubitare che è avvenuto qui qualcosa di grande e di importante. Respingerà perciò come superficiali ed inadeguate le due obiezioni, che ritornano di continuo contro i due elementi fondamentali del rinnovamento liturgico. Contro l’uso della lingua volgare viene obiettato che sarebbe adeguato al mistero un certo nascondimento in un linguaggio suo proprio, come avviene in tutte le religioni, nelle quali il santo si nasconde così continuamente sotto il velo del mistero; inoltre, proprio questa lingua, come l’unica lingua di tutta la chiesa, è il legame che unisce i continenti e ci rende consapevoli attraverso tutta la terra di essere membri visibilmente dell’unità cattolica, trasformando questa stessa unità nella esperienza diretta del linguaggio comune: una lingua che è anche il filo, che ci riallaccia all’indietro con la preghiera cristiana di tutti i tempi e ci intesse nella moltitudine sconfinata di coloro che prima di noi e con noi hanno lodato e lodano Dio nello stesso modo con un’unica voce. La seconda obiezione si rivolge contro la preminenza assunta dalla comunità, ricordando il sacro silenzio, come più adeguato al mistero che non il tanto parlare; il silenzio, in cui Dio può parlare con più incisività e che permette al singolo di incontrare realmente il suo Signore, mentre la continua regolamentazione di una messa comunitaria con canti e preghiere, stare in piedi, sedersi ed inginocchiarsi, non lascia più tempo per entrare in un tale incontro: la liturgia comincia ad esaurirsi in un affaccendarsi fine a se stesso, e l’esecuzione esterna prende il posto di ciò che è autentico, dell’incontro con il Signore. E, ai margini di riflessioni propriamente teologiche, si aggiunge poi un terzo aspetto: la regolamentazione della celebrazione liturgica comunitaria significa al tempo stesso una specie di attacco iconoclasta alla ricchezza artistica, in cui il passato diede alla lode di Dio nella messa forme di bellezza eterne, sostituite ora da declamazioni, la cui indecorosità estetica non è proporzionata alla grandezza di quanto viene celebrato, né serve all’uomo per trovarvi un accesso migliore, anzi, contribuisce a rendergli impossibile la strada.
Chiunque non sia legato ad un programma irrivedibile, ma sia disposto a ricercare come stiano realmente le cose, vedrà molto in fretta che nelle suddette obiezioni si mescolano argomenti di vario rango e che proprio in questo intreccio si esprime il dilemma della nostra situazione presente. Per prima cosa, non è difficile mostrare che l’argomento del mistero non ha peso, che anzi, tanto quanto il richiamo al silenzio di una pietà individuale che non vuol essere disturbata dalla comunità, si fonda su un fondamentale misconoscimento di ciò che è realmente per sua essenza la celebrazione liturgica cristiana. Volerla misurare con le categorie della storia delle religioni e pretendere di ritrovare e documentare qui in modo analogo i sentimenti relativi, significa esattamente ignorarne la sua realtà vera e propria. La celebrazione liturgica cristiana è per sua essenza annuncio del lieto messaggio di Dio alla comunità presente, l’accettazione di risposta di questa comunità, il comune parlare della chiesa a Dio, un parlare che si intreccia appunto con l’annuncio: l’annuncio di ciò che Cristo ha fatto per noi nella sala dell’ultima cena è al tempo stesso lode di Dio, che attraverso Cristo ha voluto agire in questo modo nei nostri confronti; esso è memoria delle azioni salvifiche di Dio, attraverso la quale ci situiamo cosi nei fatti avvenuti, ma come memoria che celebriamo, come appello a Dio perché a compimento ciò che allora ebbe inizio: professione della fede e della speranza, ringraziamento ed invocazione, annuncio e preghiera insieme. Per questo la liturgia, semplicemente alla luce della struttura del suo linguaggio, è costruita sul rapporto reciproco di io e voi, che si va sciogliendo continuamente nel comune noi della chiesa intera, la quale si presenta attraverso Cristo di fronte al volto di Dio. In una liturgia cosi configurata, il linguaggio non ha il senso di voler nascondere, ma di rivelare, non il senso di un tacere nel silenzio della singola preghiera isolata, ma del convergere verso l’unico noi dei figli di Dio, i quali dicono insieme: Padre nostro. Fu quindi un passo di importanza decisiva il fatto che la riforma liturgica abbia di nuovo deritualizzato la parola e le abbia ridato il suo significato di parola. Comprendiamo solo oggi poco per volta quale vuoto di significato sia stato quel pregare del sacerdote prima del vangelo, l’invocazione che Dio gli mondi il cuore e le labbra così come aveva purificato le labbra del profeta Isaia con carboni ardenti, affinché sia in grado di annunciare degnamente ed in modo adeguato la parola di Dio, questo benché ben sapesse che avrebbe subito dopo bisbigliato la parola di Dio, come la stessa preghiera preliminare, e benché non pensasse affatto ad annunciare questa parola. O pensiamo al sacerdote che diceva Dominus vobiscum, ben sapendo che questo ‘voi’, al quale si rivolgeva il saluto, non esisteva per niente. La parola era stata svuotata in rito, e la riforma liturgica non ha fatto qui nient’altro che ridare valore ai diritti della parola e perciò anche ai diritti della celebrazione liturgica della chiesa ivi compresa. Se Friedrich Heer ha potuto dire recentemente che si dovrebbe conservare la liturgia latina e che il cattolico la dovrebbe trovare dovunque vada – fosse anche su Marte o sulla luna -, così come vuol trovare dovunque il suo Seneca e il suo Omero, allora questo significa allineare la liturgia nel museo del passato, soffocarla nella neutralizzazione estetica e presupporre a priori di non poterla oggi più intendere nel suo significato di accezione originaria. In questo senso, il fatto scandaloso della riforma liturgica consisterebbe nel suo essere così abbastanza ingenua, da intendere ancora la liturgia così come propriamente fu intesa: nel prenderla cioè seriamente per quello che è. Si potrà quindi concludere che nessuno dimostra oggi con altrettanta efficacia, quanto i suoi oppositori, la necessità e il buon diritto della riforma liturgica, poiché ciò che essi difendono e un malinteso della liturgia e ciò che essi dimostrano e perciò il fatto che la forma precedente di liturgia correva il pericolo di far passare il malinteso come la realtà autentica. Chi intuisce queste cose, dovrà al tempo stesso concedere che fa parte della riforma liturgica, fino ad un certo grado, lo scandalo e il malinteso, il disagio. Egli vedrà che non si può giudicare la riforma liturgica dall’aumento o meno di coloro che frequentano la chiesa, ma solo ed unicamente sulla base del suo rispondere alla natura fondamentale della celebrazione liturgica cristiana come tale.

J. Ratzinger, “Il cattolicesimo dopo il Concilio”, Conferenza al “Katholikentag” di Bamberga del 1966, in Id., Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche (Biblioteca di teologica contemporanea 7), Brescia 1992, 330-333.

Il sacro nella liturgia: da Augé alcuni punti chiarificatori; con un sorprendente Ratzinger..

Grazie ad un interessante articolo del prof. M. Augé, con il cui gentile consenso offriamo in nostra traduzione italiana un “assaggio” del quinto paragrafo, scopriamo un sorprendente testo di J. Ratzinger, che magari pubblicheremo poi.
Per ora, ecco l’inizio del testo di Augé, che con poche parole sintetizza una questione assai dibattuta ultimamente. Non si può nemmeno introdurre la tematica e le problematiche connesse: ma vale la pena comunque tenere alcuni punti fermi, anche perché non è infrequente leggere ed ascoltare, sul tema, parecchi rilievi esagerati e dettagli resi quasi assoluti.

M. Augé, “A cincuenta años de ‘Sacrosanctum Concilium’ con una mirada al futuro de la reforma liturgica”, Phase 320 (2014).

§ 5. Un futuro con mayor atención a la sacralidad propia de la liturgia

I momenti di silenzio e l’uso della lingua latina sono due elementi che, fra molti altri, talvolta vengono proposti come mezzi che possano offrire una percezione di maggiore sacralità nella celebrazione liturgica. E’ questo uno dei temi più dibattuti della riforma liturgica, sulla quale viene fatta pesare l’accusa di aver contribuito, con la sua opera di semplificazione e razionalizzazione dei riti, alla progressiva perdita del senso del sacro proprio della liturgia. Non è facile precisare cosa si intenda per sacralità, dato che un tratto caratteristico e costituivo dell’esperienza del sacro è per l’appunto l’ambiguità.
Nel dibattito intorno al senso del sacro, è stata enfatizzata la concezione rituale-misterica che esprime la forma straordinaria del rito romano. Di certo, questa forma possiede una ricca ritualità, tuttavia è una ritualità operata praticamente solo dal celebrante: segni di croce, inchini, genuflessioni, baci rituali, ecc. E’ pur vero che la forma ordinaria si presenta con una ritualità semplice, quasi elementare, della quale, però, è protagonista l’intera assemblea. D’altra parte, è evidente la lontananza del modello rituale tridentino rispetto alla cultura attuale e alla liturgia dei primi secoli, per cui si tratta di una ritualità che non tiene conto di due principi che sono alla base del rinnovamento conciliare: il ressourcement e l’adattamento alle “necessità del nostro tempo” (SC 1.4).
Quando nella liturgia si parla di senso del sacro, si parla del mistero che si celebra. In questo ambito occorre evitare due rischi: da una parte l’esoterismo, che degenera nella magia, cioè la tendenza a ritenere che quanto meno si comprende ciò che viene detto e fatto, tanto più si tocca l’ambito del mistero; dall’altra parte, la pretesa di creare una performance celebrativa perfettamente comprensibile e vicina alla sensibilità popolare. Il professor Joseph Ratzinger, nel suo intervento al Katholikentag celebrato a Bamberg nel luglio 1966, affermava: La liturgia non ha il senso di riempirci, in un clima di tremore e presentimenti, con la sensazione del santo, ma di confrontarci con la spada tagliente della parola di Dio (1).
Il senso del sacro non dipende dalla lingua in cui si celebra né dai riti più o meno sontuosi. Dipende dalla capacità di fare trasparente la presenza e l’azione di Cristo.

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(1) Nell’articolo il testo di Ratzinger è citato, tradotto in spagnolo, avendo come riferimento la versione francese apparsa su La Documentation catholique hors-série 1 (2005) 7. Il testo di quella conferenza è apparso in italiano nel volume che raccoglie vari saggi dell’allora teologo tedesco: J. Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche, Brescia 1992, 327-347. Piuttosto di proporre una traduzione, a questo punto frutto di passaggi in più lingue (tedesco, francese, spagnolo, italiano), abbiamo preferito riportare la traduzione direttamente dal tedesco all’italiano proposta dal volume suddetto, anche se non sembra del tutto vicina allo spagnolo dell’articolo di Augé.