Cristo accusatore? Siamo nell’anno della misericordia, eppure…

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…eppure anche quest’anno verrà proclamato, per due volte, il versetto enigmatico di Apocalisse 3,19. La prima volta, nella Liturgia delle Ore, come lettura biblica dell’Ufficio del giovedì della II settimana di Pasqua, mentre la seconda sarà nella messa del martedì della XXXIII settimana, il 15 novembre, vicinissimi dunque alla conclusione del Giubileo straordinario della Misericordia.

Ecco il testo, secondo la tradizione italiana ufficiale: «Io, tutti quelli che amo, li rimprovero e li educo. Sii dunque zelante e convertiti». [Nella versione del Salterio, non ancora aggiornata, si legge: «Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo. Mostrati dunque zelante e ravvediti»].

Lasciamo la parola ad un giovane biblista (1), che propone una diversa e interessante traduzione, in una lettura di questo testo in dialogo con Gv 15,1-11. Si tratta di allargare gli orizzonti, in una lettura in continuità con l’Antico Testamento e con i Vangeli: la parola di accusa, talvolta anche dura, introduce la possibilità del riaccadere della relazione originaria, qualora essa sia stata tradita. «C’è bisogno di questa parola che, denunciando e accusando, faccia prendere coscienza del peccato perché il riconoscimento della propria colpa è l’elemento imprescindibile per il ristabilimento della giustizia all’interno dei rapporti tra uomo e Dio e tra uomo e uomo. Ma tale riconoscimento, nella Bibbia, non trova il suo momento di origine in una operazione di introspezione, di autoanalisi; è un avvenimento di rivelazione».

Con il v. 19 siamo nuovamente condotti ai principi operativi enunciati in Gv 15,1-1, perché Cristo afferma: Io tutti quelli che amo (φιλῶ) li accuso (ἐλέγχω) e li castigo/educo (παιδεύω). Bisogna riconoscere che non è consueto tradurre con “accusare” il verbo ἐλέγχω in questo contesto (ma anche altrove nella Bibbia), dove si ritiene invece più accettabile dire che il Cristo “rimprovera” o “riprende” quelli che ama. Ma il rimprovero non è forse un atto di accusa? Il fatto che a livello di traduzione non si espliciti mai tale dimensione accusatoria, chiaramente implicata in ogni atto del genere, è indicativo. […] … il problema a nostro parere si colloca a monte della stessa ricerca lessicografica che ha condotto ad assegnare un determinato significato ad un particolare lemma (ἐλέγχω) e alla sua struttura fonosimbolica. E’ il filtro rappresentato dal nostro stesso uso linguistico del verbo “accusare” che impedisce una corretta resa di tutta una serie di termini che nella Scrittura meriterebbero più precise analisi semantiche. La percezione comune infatti, attribuendo prevalentemente l’atto dell’accusa all’ambito giudiziario (forense) tende in modo inconsapevole a conferire anche alle altre applicazioni linguistiche (metaforiche) del verbo la stessa connotazione di base, facendo dell’accostamento tra il concetto di amore e quello di accusa uno sgradevole ossimoro, non convincente a livello semantico. […] Ora, nell’ermeneutica di tanti testi biblici, il fraintendimento è proprio questo: ritenere il discorso accusatorio estraneo alla dinamica dell’amore e non riconoscere invece che ogni rimprovero, secondo la procedura del rÎb biblico (e la sua utilizzazione profetica), di fatto é un’accusa, nata da un vincolo a un tempo affettivo e giuridico, finalizzata al ristabilimento di una comunione ferita, rivolta con speranza al partner con cui si è legati in nome di un’alleanza riconosciuta e difesa dal diritto. […] Parole troppo dure dunque, o fuori luogo, quello del Cristo? Niente affatto, se si pensa al potere purificatore della sua parola, che intende liberare il tralcio da ogni elemento dannoso per la sua fecondità (cf. Gv 15,13). L’amore infatti è esplicitamente dichiarato (φιλέω) e offerto come chiave per comprendere il senso profondo di tutto il discorso (di accusa e minaccia), e degli stessi interventi storici “correttivi”. […] E non ci sembra un caso allora che proprio e solo alla fine del settenario compaia strategicamente tale affermazione del Cristo. Essa obbliga infatti il lettore-credente, casomai avesse frainteso le espressioni uscite dalla bocca del Figlio di Dio o le sue azioni (o “permissioni”) sperimentate nella dimensione intrastorica, a ripercorrere tutta la serie dei messaggi rivolti alle chiese, come rivolti all’unica Chiesa amata da sempre e per sempre. “Quelli che amo…”, ecco dunque la chiave ermeneutica che permette di rileggere tutte le parole del Cristo sotto l’ottica dell’amore appassionato, che cerca e desidera sopra ogni cosa il bene dell’amato nella verità relazionale dell’alleanza. (2)

Accusa e perdono, misericordia e verità, giustizia e amore… binomi da approfondire, che nella lettura sapiente della Scrittura trovano sorprendenti intrecci e soluzioni. Su cui si dovrà tornare…


(1) Avevamo già presentato l’autore e altri due suoi colleghi, in un post dedicato al loro studio (qui); si tratta di S.M. Sessa, e delle sue intuizioni a partire dalla singolare procedura giuridica biblica che gli esegeti (forse non tutti!) conoscono con il nome di rîb.

(2) S. M. Sessa, «”E i suoi occhi come fiamma di fuoco”. Dal masal de “la vite i tralci” (Gv 15,1-11) al settenario di Ap 2-3. Il páthos del rîb come rilettura unificante», in M. Cucca – B. Rossi – S.M. Sessa, “Quelli che amo io li accuso”. Il rîb come chiave di lettura unitaria della Scrittura. Alcuni esempi, Assisi 2012, 259-262.

Rapporti non completamente risolti: non contro ma oltre. Una via per la continuità nella riforma.

Massima è l’importanza della Sacra Scrittura nella celebrazione liturgica. Da essa infatti vengono tratte le letture da spiegare nell’omelia e i salmi da cantare, del suo afflato e del suo spirito sono permeate le preci, le orazioni e gli inni liturgici, e da essa prendono significato le azioni e i segni. Perciò, per favorire la riforma, il progresso e l’adattamento della sacra liturgia, è necessario che venga promossa quella soave e viva conoscenza della Sacra Scrittura, che è attestata dalla venerabile tradizione dei riti sia orientali sia occidentali (Sacrosanctum Concilium 24)

«Nessuno oggi oserebbe pensare – come ci è stato insegnato – che i rapporti tra Bibbia e Liturgia siano completamente risolti con SC 24. Oggi, andando oltre e non contro SC 24, è stato evidenziato e mostrato che il rapporto tra Bibbia e Liturgia si trova non solo per la loro presenza reciproca (la Bibbia nella Liturgia, la Liturgia nella Bibbia), ma primariamente perché hanno l’origine identica e simultanea: il fatto salvifico della Pasqua ebraica, così come è narrato da Es 12, lo dimostra. Sempre andando oltre e non contro SC 24 è stato evidenziato che la presenza della Bibbia nella Liturgia incomincia ben prima delle letture, i salmi, l’afflato che permea l’eucologia, i carmi liturgici, le azioni e i simboli. La presenza della Bibbia nella Liturgia si ha già nelle “strutture bibliche” che organizzano i riti stessi sia a livello di rito in genere sia di eucologia in specie: la berît, l’alleanza che scandisce ogni celebrazione in momento della Parola e momento del segno; la todàh o preghiera di richiesta di perdono, la berakàh o benedizione, il rîb o processo bilaterale con il perdono del colpevole che si riconosce tale, ecc. Chi avrebbe mai detto, poi, che il sacramento della Penitenza ha avuto anche nel Medio-Evo una liturgia della Parola, non proclamata ma “rappresentata” ritualmente e, quindi, molto più ampia e coinvolgente di quanto lo sia oggi nell’Ordo Penitentiae?», R. De Zan, «Tra Memoria e Profezia: il dinamismo di una tradizione», in Ecclesia orans 29 (2012) 154.

Amore e/o accusa? Dalla Bibbia nuova luce sul perdono, e sulla sua celebrazione sacramentale.

Si è mostrato in molti esempi quanto importante sia per la liturgia una lettura integrale della Sacra Scrittura, una sua interpretazione secondo il tutto – una lettura cattolica, potremmo dire -, capace di spaziare dall’Uno all’Altro Testamento, aperta alle realtà naturali e alle intuizioni dei Padri.

In questo breve post si vorrebbe presentare un contributo assai interessante di alcuni giovani biblisiti, discepoli del prof. Bovati (Pontificio Istituto Biblico), che mostra la fecondità di un’intuizione globale, pur nell’analisi minuziosa di aspetti particolari. La chiave ermeneutica proposta è un procedimento giuridico bilaterale, una struttura che emerge da parecchie pagine della Sacra Scrittura, dagli esegeti denominata rîb. Nella nostra ricerca sul sacramento della Penitenza abbiamo scoperto sorprendenti relazioni fra questa struttura biblica e le indicazioni del rituale odierno (cf. https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/09/24/la-parola-della-riconciliazione-3/ ).

Avendo trovato, in formato pdf, un estratto dell’interessante libro, lo riproponiamo qui, assai volentieri.

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La Parola della Riconciliazione (3).

Ecco il terzo e ultimo post della serie.

E’ stato unanimemente riconosciuto il progresso teologico-liturgico segnato dalla editio altera delle Premesse al Lezionario dell’eucaristia; da lì, adesso, si vorrebbero cogliere alcune suggestioni, che possano aprire la strada ad una soddisfacente declinazione del rapporto fra Parola di Dio e sacramento della penitenza.
Fra vari commentatori che offrono interpretazioni di quell’importante documento, una pista interessante la offre De Zan, il quale, articolando il nesso fra parola e sacramento, trova nella Scrittura stessa schemi e strutture che ne aiutano la comprensione(1). La struttura biblica dell’Alleanza, ad esempio, presenta un’interessante, e significativa, duplice scansione celebrativa (proclamazione del testo dell’alleanza e liturgia del sacrificio di comunione) e anche se non è l’unica struttura teologica a cui si può attingere, risulta importantissima per cogliere, nella sua ricchezza, il legame Parola-Sacramento. La nozione di alleanza potrebbe apportare alla celebrazione del sacramento della penitenza un interessante arricchimento di prospettive; di fatto però non si è ancora investigato in modo approfondito su questo versante. L’«alleanza» tuttavia non è la sola struttura biblica presente nelle celebrazioni della liturgia cristiana.
Non si può ora affrontare queste tematiche con presunzione di completezza e di scientificità e questa incursione nel campo delle scienza biblica è lecita, da una prospettiva liturgica, in obbedienza alla Costituzione liturgica, che al numero 24 afferma che il significato delle azioni e dei gesti della liturgia è illuminato dalla Scrittura. È quantomeno opportuno indagare se anche la struttura stessa del programma rituale della celebrazione della penitenza non possa ricevere nuova luce dal portato biblico? Si ricorda come il simbolismo biblico della cacciata di Adamo dal Paradiso sia stato il quadro di riferimento simbolico-stutturale della celebrazione di ingresso in penitenza: a riguardo della nuova ritualità della penitenza, in cui la Parola di Dio ritrova dignità e ruolo così particolare, l’odierna scienza biblica ha qualche elemento da offrire, per una migliore comprensione della celebrazione stessa? Con queste domande, con queste attese umili e allo stesso tempo audaci, ci si affaccerà nel campo dei biblisti.
In effetti, negli ultimi anni(2), proprio da alcuni esperti in Sacra Scrittura sono venute suggestioni assai intriganti per lo studio in esame. Ci si riferisce al cosiddetto «rîb», una sorta di processo bilaterale, testimoniato in vari passi biblici, in cui la parte lesa non percorre la classica via giudiziale per il riconoscimento del torto subito, per la condanna del colpevole e per un adeguato risarcimento, ma si appella direttamente alla controparte, facendosi accusatore di colui che avrebbe commesso l’ingiustizia (l’accusato); il fine di questa procedura è che il colpevole riconosca la sua colpa e cessi di fare il male, accogliendo il perdono offertogli dalla parte lesa, mettendo in atto, poi, comportamenti che porteranno alla piena riconciliazione e al rinnovato legame tra i due. Qualora questa procedura fallisca, la parte che si ritiene offesa adirà in giudizio davanti al giudice, che provvederà al ristabilimento della giustizia con altre modalità, legate allo schema tradizionale del giudizio trilaterale. In tale procedimento, una parte assai fondamentale l’aveva la parola di accusa che la parte lesa pronunciava davanti al colpevole. È molto interessante notare che questa parola sia mossa non da un semplice desiderio di vendetta o di umiliazione del colpevole ma, paradossalmente, l’accusa sia formulata proprio a partire da un previo e implicito perdono offerto dalla parte lesa, perché chi ha commesso l’ingiustizia possa più facilmente prendere coscienza del male compiuto e se ne ravveda. La dimensione della parola ha dunque un posto assai rilevante, e anche se l’ingiustizia è un fatto, un dato visibile e puntuale, storico, «il suo superamento inizia con confronto di natura verbale (la controversia), confronto che culmina con la confessione della colpa da parte del reo»(3). Se può accadere che non sempre la «lite» bilaterale raggiunga il suo scopo, qualora l’accusato rifiuti la parola di rimprovero, protestando la sua innocenza – nel qual caso si passerà poi al «giudizio» più classico, davanti a un giudice terzo che comunque emetterà una parola di condanna definitiva e non revocabile -, pieno compimento del «rîb», invece, è il riconoscimento della colpa commessa da parte dell’accusato, che confessa il suo peccato e si apre al ravvedimento, chiedendo il perdono e mutando atteggiamento. Ultimamente quindi si raggiunge il recupero delle relazioni fra i due soggetti della controversia, in una profonda riconciliazione, fondata sull’interiore cambiamento – una vera «conversione» – del reo. Questo procedimento giuridico, di cui si può vedere un’esemplificazione preclara nella vicenda del peccato e nella confessione di Davide secondo la narrazione di 2Sam 12, fu applicato dal profetismo post-esilico al rapporto tra Dio e il popolo: «Dio accusa il popolo per mezzo del profeta, il popolo riconosce la sua colpa, Dio perdona». Si intravede, perciò, l’importanza di questa parola previa alla confessione del peccato, parola di accusa che può manifestarsi in vari modi ma la cui finalità «non è di vincere l’altro, ma di convincerlo»: non si tratta solo di notificare all’altra parte il suo reato, ma di «eliminare le resistenze che sono frutto di passioni o di un’ideologia distorta» ; per questo «vengono applicate tutte le risorse dell’ironia, della dialettica, della retorica appassionata per indurre l’avversario ad accettare la verità che si fa luce nelle parole dell’accusa». La dimensione di rivelazione del male commesso, e della conseguente accoglienza della rivelazione, esplicitata nella conversione e nella confessione, preserva il «rîb» da un ingenuo buonismo: non si tratta di scusare tutto, ma di voler rivelare il male per ciò che è, fermandone la potenza distruttiva, aprendosi al perdono e alla nuova relazionalità.
Negli ultimi anni il «rîb» è stato accostato alla ritualità della penitenza cristiana, così come oggi è vissuta – o dovrebbe essere vissuta -, secondo il Rituale di Paolo VI. Il biblista L. Alonso Schökel, partendo dallo studio unitario dei salmi 50-51 – come due atti di una liturgia penitenziale -, ipotizza una trasposizione assai interessante dello schema giuridico della controversia bilaterale alla liturgia della riconciliazione cristiana(4). Questa suggestione, tuttavia, non sembra trovare particolare spazio fra i teologi dogmatici. Le intuizioni di Alonso Schökel sono riprese, invece, da un liturgista che sa di Bibbia: R. De Zan, già allievo dello Schökel, più volte presenta la proposta di considerare la celebrazione della penitenza alla luce delle considerazioni dei biblisti. «Lo schema del rîb soggiace al programma rituale del sacramento»: questa e analoghe affermazioni del De Zan sono, in verità, offerte in contesti più ampi, in contributi e studi che non vertono direttamente sulla penitenza: tali proposizioni, perciò, non sono poi compiutamente argomentate e discusse.
Anche qui non si potrà difendere e approfondire ulteriormente questo dato. Tuttavia, al termine del presente studio si può intravedere come l’accostamento di queste varie risultanze appaia assai interessante, per la convergenza di elementi provenienti da diversi ambiti. I dati apportati dal versante della storia liturgica (una qualche forma della Parola di Dio sempre presente nella celebrazione), i dati provenienti dallo studio della riforma post-conciliare (proclamazione della Parola di Dio per ogni celebrazione) e, infine, i dati dell’odierna scienza biblica (la parola nel «rîb») sembrano infatti confluire in una medesima direzione. Senza pretendere di offrire, ora, una dimostrazione dell’effettiva validità della intuizione appena proposta, si presenta comunque una prima valutazione assai positiva dell’opportunità, e della bontà, di una declinazione del rituale della penitenza alla luce della struttura biblica del rîb.
Ci sono vari elementi della liturgia della riconciliazione, nelle varie modulazioni che ha conosciuto la storia della celebrazione di questo sacramento, che potrebbero inquadrarsi bene ed essere riconsiderati con nuova profondità(5): con questa interpretazione «risparmiamo difficoltà inutili e i dati si inquadrano tranquillamente».
Si è visto, ad esempio, quanto importante fosse, nella prassi penitenziale antica, la parola del Vescovo, che all’inizio e durante il cammino penitenziale dei penitenti, correggeva le cadute e incitava alla conversione sincera, ammonendo allo stesso tempo tutta la comunità: la «correptio» dei pastori era una componente essenziale del processo penitenziale, sia nelle celebrazioni pubbliche, sia nella dimensione privata, nella quale avveniva la «confessione» e la verifica dei progressi nel cammino di conversione. Si ricordino, le parole delle Costituzioni Apostoliche, oppure alcuni passaggi omiletici di sant’Agostino.
Anche l’aspetto giudiziale, tanto ribadito dalla manualistica post-tridentina, riceverebbe una nuova interpretazione, arricchito di alcune sfumature diverse (6). Allo stesso modo, la ministerialità dei sacerdoti confessori potrebbe essere accresciuta e valorizzata da una dimensione profetica, che insieme alla dimensione cultuale-rituale, caratterizza il sacerdozio neotestamentario.
Meno accentuato sarebbe l’aspetto «ecclesiale» del sacramento; la moderna rivalutazione della «reconciliatio cum ecclesia», tanto in auge in questi anni, non risulterebbe una dimensione così sottolineata nella rilettura con questo schema interpretativo, anche se nello schema giuridico del «rîb» hanno un ruolo importante anche i testimoni, che accompagnano la parola dell’accusa.
Al di là di queste considerazioni, la struttura biblica della controversia bilaterale permetterebbe di considerare in modo organico e articolato, ma soprattutto pienamente integrato nella celebrazione, il ruolo della Parola di Dio nel sacramento della penitenza. Si provi a rileggere quanto afferma OP a riguardo della Scrittura, dopo aver recepito questa suggestione dal mondo biblico. Risulta davvero interessante come le moderne conquiste delle scienze esegetiche si integrino con gli approfondimenti svolti sui principi della riforma liturgica. Con questa interpretazione, che vede nell’evento riconciliazione anche una dimensione verbale, si può comprendere come nella celebrazione che lo attualizza, Parola e segno costituiscano un unico atto di culto, e si attribuisce alla Parola un’efficacia che, pur non essendo quella del sacramento in senso stretto, non è comunque limitata all’ambito didattico. Naturalmente non si vuole sconfinare in ambito dogmatico, affrontando la questione dell’efficacia della Parola di Dio nell’ordine della grazia: si può solamente indicare una possibile pista per la riflessione futura. Una tale riflessione, comunque, dovrà essere affrontata, se non si vuol lasciare cadere – come è in parte successo – la ricchezza di OP a proposito di questo tema. In effetti, qualcosa si sta muovendo e se già c’è stato un progresso dalla prima alla seconda edizione dei Praenotanda del Lezionario della Messa, i Praenotanda del nuovo Rituale degli Esorcismi riportano una frase interessante, che apre prospettive per uno sviluppo ulteriore: alla proclamazione liturgica della Parola di Dio viene riconosciuto il valore di «segno» con una efficacia in ordine alla guarigione:

«…segue la proclamazione del Vangelo, segno della presenza di Cristo, il quale, mediante la proclamazione della sua parola nella Chiesa, viene incontro alle sofferenze degli uomini» (RE 24).

Che tipo di efficacia assume la proclamazione della Parola nel rito della penitenza? La questione qui non può che riproporsi, dopo il cammino di approfondimento dal versante liturgico e l’accoglienza delle suggestioni provenienti dal versante biblico. Si può solamente presentare, lasciando al mondo della scienza teologico-liturgica il portato di quest’analisi, perché si possa sempre più approfondire e, soprattutto, vivere l’esperienza risanante della Parola, una spada penetrante davanti alla quale niente è nascosto (cf. Eb 4,12-13), ma che è pur sempre «parola di riconciliazione» (2Cor 5,19): la trafittura del cuore, allora, porterà alla vera conversione (cf. At 2,47), e la celebrazione del sacramento della riconciliazione sarà autenticamente il luogo del pentimento e della rinnovata ripresa della vita battesimale. Senza il mordente e l’efficacia di tale Parola, si rischiano confessioni autoreferenziali, nelle quali si compie, invece, un’altra parola biblica: il peccatore «si illude con se stesso, davanti ai suoi occhi, nel non trovare la sua colpa e odiarla» [Sal 36 (35)]: si potranno avere fedeli confessati, ma forse non convertiti. Occorre di nuovo ricominciare dal Vangelo, dall’annunzio kerygmatico della Parola di Dio: «sacramentum paenitentiae ab auditione Verbi initium sumat oportet» (OP 24):

«Il Vangelo conserva una grande forza di interpellare l’uomo che facilmente diventa requisitoria e querela: ci pone davanti agli occhi ciò che dovremmo essere e non siamo e magari, nemmeno ci accorgiamo di non esserlo: “Che farò quando ti accuserò? Che ti farò? Tu ora non vedi: farò in modo che tu ti veda…Te lo getterò in faccia. Perché desideri nasconderti a te stesso? Sei alle tue spalle e non ti vedi: farò sì che tu ti veda. Ciò che ti getti alle spalle, te lo getterò in faccia” (Agostino). Il Vangelo però, nello stesso tempo in cui accusa, offre anche il perdono e la forza di convertirsi. Per questo gli antichi dicevano: per evangelica dicta deleantur tua delicta. Non è un atto magico, ma un processo penitenziale»(7).

Con fiducia, allora, e con più consapevolezza, si può riproporre una celebrazione della penitenza che prenda l’avvio dalla proclamazione della parola di Dio, come già Ambrogio aveva intuito, vedendo nella Parola rivolta ad Adamo, nascosto nel giardino, il segno dell’inizio del cammino di ritorno a Dio dopo il peccato:

«Ma consideriamo che cosa dice: Adamo, dove sei? Ancora vi è una possibilità di salvezza in coloro che ascoltano la parola di Dio […] Inoltre il fatto stesso di chiamare è indizio che chi chiama sta per salvare, poiché il Signore appunto chiama coloro di cui ha misericordia (hoc ipsum quod vocat indicium sanaturi est, quia Dominus quos miseratur et vocat)»(8).

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(1) «…si può notare che il continuum tra Bibbia e liturgia assume due aspetti diversi. Il primo riguarda la struttura profonda della celebrazione e la seconda consiste nella riformulazione della Scrittura nella celebrazione. 1. La struttura profonda della celebrazione. L’affermazione di SC 24 “dall’afflato [della Scrittura] e dal suo spirito sono permeate le preci”, dice molto di più di quanto possa apparire a una lettura di superficie. I testi, infatti, non sono fatti solo di espressioni, frasi e pericopi. Esiste anche una loro consequenzialità che rispetta determinate logiche o schemi strutturali. Al susseguirsi dei testi è sotteso un “modello” che ritorna, un “archetipo”, uno “schema”, un “esempio da imitare” che coagula e ordina sia le singoli pericopi dell’eucologia sia tutta la celebrazione. La struttura celebrativa e la strutturazione dei testi liturgici, infatti, derivano da certi schemi celebrativi ed eucologici di tipo biblico»: DE ZAN, «Bibbia e liturgia», 55.

(2) Nel 1986, con ristampa riveduta e corretta nel 1997, esce la tesi di dottorato presso il Pontificio Istituto Biblico di P. BOVATI, Ristabilire la giustizia. Procedure, vocabolario, orientamenti, Roma 1997. Lo studio raccoglie e rielabora le conoscenze riguardo alle procedure giuridiche e penali testimoniate dalla Scrittura. Cf. anche ID., «Il genere letterario del rîb: giudizio o lite? Il linguaggio giuridico del profeta Isaia», in ID., «Così parla il Signore». Studi sul profetismo biblico, ed. S. M. Sessa, Bologna 2008, 125-151. Cf. anche L. ALONSO SCHÖKEL – C. CARNITI, I Salmi, I, Roma 1992, 809-817.

(3) «Il rîb è di fatto un dialogo. Un dialogo che mette in questione uno dei due contendenti, ma che lo mette in questione proprio perché possa affermarsi come un autentico “soggetto”»: BOVATI, Ristabilire la giustizia, 60. Interessante che a simili conclusioni giunga la riflessione teologica del card. Ratzinger: «Senza la scossa morale per la propria colpa non si dà in effetti conversione alcuna. D’altra parte si deve “indurire il proprio cuore” – cioè rimuovere la cognizione realistica di se stessi e della propria colpa – se non c’è nessuno che può condividere la mia colpa, espiarla e perdonarla. Siamo qui in presenza di una reciprocità dalla quale tutto dipende: senza saperci accolti dallo sguardo del Redentore – che non cancella a parole le colpe, ma se ne fa carico e le patisce – non si può sopportare la verità della propria colpa e ci si rifugia subito nella prima non-verità»: RATZINGER, «Conversione», 178.

(4) ALONSO SCHÖKEL – CARNITI, I Salmi, 831-835; qualche anno prima l’intuizione era solo incipiente: cf. L. ALONSO SCHÖKEL, Trenta salmi: poesia e preghiera, Bologna 1982, 245-249.

(5) L’esigenza di «riequilibrare» istanze che nel corso della storia liturgica hanno ricevuto, ora l’una ora l’altra, accentuazioni sproporzionate, troverebbe in quest’interpretazione un’ipotesi feconda e capace di tenere insieme aspetti diversi: cf. Y. CONGAR, «Points d’appui doctrinaux pour une pastorale de la pénitence», LMD 104 (1970) 73-87, in particolare l’ultimo paragrafo «Tout un équilibre à restaurer», 85-87.

(6) «Quando il Concilio di Trento dice che il sacramento della penitenza «esse actum iudicialem» (DS 1709), non pretende di assumere la pratica forense del diritto romano come parte di una definizione conciliare; la dottrina antitetica condannata lo chiarisce sufficientemente. E quando il cap. 5 (DS 1679) dice che il sacerdote è «giudice», non vuol dire che egli sia una autorità superiore per dirimere le cause di Dio con i cristiani. Crediamo che applicare all’atto penitenziale il modello di un giudice fra e sopra due parti, susciti una serie di difficoltà per la cui soluzione è necessario applicare tante eccezioni e riserve, che si finisce per invalidare lo schema. Invece, applicando il modello biblico del rîb = giudizio bilaterale, risparmiamo difficoltà inutili e i dati si inquadrano tranquillamente»: ALONSO SCHÖKEL – CARNITI, I Salmi, 831.

(7) ALONSO SCHÖKEL, I Salmi, 832-833.

(8) AMBROGIO, Il paradiso terrestre, 14,70.