Una “certa” penitenza. Dalla grammatica alla teologia, partendo da una traduzione per assonanze

Quasi in procinto di lasciarli, passando agli inni delle Ore della Settimana Santa, una piccola osservazione sulla traduzione degli inni di Vespri e Lodi proposti per la Quaresima. Senza soffermarci su di un’analisi puntuale, che obbligherebbe, ancora una volta, a biasimare il traduttore, vorremmo piuttosto dare conto di un’interessante operazione, che risulta da una familiarità di recitazione e di preghiera: in questo caso, a chi ha curato la versione italiana dell’innario, potremmo riconoscere delle importanti attenuanti e comunque comprenderne le intenzioni. Vediamo.

La terza strofa dell’inno dei vespri recita: Grande è il nostro peccato, ma più grande è il tuo amore; cancella i nostri debiti a gloria del tuo nome. Come si può vedere facilmente, dai due testi facoltativi che sono lodevolmente conservati nel Salterio, si tratta della traduzione dell’inno Audi, benigne Conditor, che a chi volesse pregare l’inno latino è suggerito per l’ufficio domenicale. Anche per chi non fosse pratico di latino, è abbastanza intuitivo l’accostamento fra traduzione e testo originale almeno per gli incipit delle prime due strofe: Accogli, o Dio pietoso [Audi, benigne Conditor] – Tu che scruti e conosci [Scrutator alme cordium]. Per la terza strofa ci può essere una vicinanza concettuale, ma risulta più difficile accostare i testi: Grande è il nostro peccato [Multum quidem peccavimus, più letteralmente Certo, senza dubbio, abbiamo molto peccato].

Il testo italiano, poi, nel secondo stico della strofa, introduce una sorta di parallelismo progressivo: grande è il nostro peccato, ma più grande è il tuo amore. Anche nell’originale i due stichi erano strettamente connessi tramite l’avversativa sed, tuttavia il legame non era giocato sulla grandezza (già importante, quella del peccato dell’uomo; ben maggiore, quella del perdono di Dio), bensì sulla diversa qualità dell’azione: il peccare dell’uomo di fronte al perdonare di Dio: multum quidem peccavimus, sed parce confitentibus [certo, senza dubbio, abbiamo peccato, ma tu perdona a coloro che  lo confessano(1)].

Come mai il traduttore ha compiuto questa scelta?

Non possiamo esserne sicuri, eppure riteniamo che abbia voluto, consapevolmente o meno, conservare qualcosa di un altro inno, che non ha trovato spazio nell’innario italiano. Si tratta del Iam, Christe, sol iustitiae, proposto – per quanti vogliano pregare l’inno latino – nell’ufficio feriale delle Lodi (2). Nella terza strofa ritroviamo una costruzione simile: Quiddamque paenitentiae / da terre, quo fit demptio / maiore tuo munere/ culparum quamvis grandium [Concedici di sostenere una qualche penitenza / di modo che vengano cancellate / per il tuo maggiore dono / le colpe, per quanto grandi]. Le colpe dell’uomo sono grandi, ma più grande (maggiore) è il dono di Dio, nel rimetterle. O, più compiutamente: è indispensabile che l’uomo si metta in penitenza, ma non è certo quella a meritare il perdono. Ci è ancora più necessaria la grazia più grande del perdono divino, efficace nonostante le colpe da rimettere non siano affatto insignificanti, ma reali e, appunto, «grandi».

Sembra dunque che sia questo il testo da cui il traduttore avrebbe attinto le parole e i concetti che ha usato per tradurre la strofa del suo inno. Probabilmente ne aveva l’eco nella mente e nel cuore, quando si è trovato di fronte a quel: «multum quidem peccavimus...».

Volendo proseguire nella questione, un altro dettaglio che potrebbe aver facilitato la commistione è la vicinanza fra il «quidem» del primo inno e il «quiddamque» dell’altro, sebbene abbiano significati diversi. La prima congiunzione intende rafforzare e asseverare un’affermazione, mentre il pronome quidam sottolinea l’indeterminazione.

Quiddamque paenitentiae: una certa qualcosa di penitenza, una certa qualcosa come penitenza: la preghiera dell’inno chiede la grazia di accogliere, sopportandola, una qualche forma di penitenza. Il contesto sembra suggerircene l’attribuzione di un valore minimo, così da intendere il senso come «concedici di fare un poco di penitenza».  Dovendo rimanere più fedeli al significato e all’uso particolare del pronome – «a indicare indeterminatezza qualitativa, di persone e di cose, […] di cui non viene dato né il nome né una più precisa determinazione, o perché non sono altrimenti note o perché non si vogliono più precisamente determinare» – sembrerebbe che la sfumatura ci porti, senza negare del tutto l’altro senso, a quell’indeterminatezza, che tuttavia consente a ciascuno di vivere, nel segreto, il suo personalissimo esercizio penitenziale come se fosse l’unico e il necessario. Oltre alle forme tradizionali e alle prassi generali e comuni, non vi è una penitenza sempre e comunque valida per tutti, ma ognuno dovrà compierne taluna, la sua. Il Padre che vede nel segreto saprà cogliere in quel piccolo e peculiare gesto penitenziale quanto basta per rendere efficace e attuale la dinamica sovrabbondante del suo perdono più grande.

Mentre un certo moralismo pelagiano appesantisce e scoraggia quanti si trovano a fare i conti con la propria debolezza, anche a fronte di un sincero affrontamento quaresimale, la liturgia consola e dona nuove energie a coloro che, al di là di pii ed esagerati propositi, vogliano veramente aprirsi al dono di questo santo tempo penitenziale, ormai prossimo alla stretta finale. Basta poco!


(1) Ci sia consentita questa veloce traduzione di confitentibus. Sappiamo bene che il termine sarebbe assai più ricco a complesso, ma non vogliamo attardarci su di esso.

(2) Su questo Inno avevamo già annotato qualcosa qui e qui.

Inizia la Quaresima, ma sembra già sia Pasqua

No, non si sta alludendo alla mitezza delle temperature invernali che, almeno in alcune parti d’Italia, ci fanno respirare anticipatamente un aria di primavera.

E’ la stessa liturgia che ci permette di vivere l’inizio della Quaresima in modo sorprendente, con una tensione che ci obbliga a considerare lo spirito e gli atti penitenziali nel loro giusto orizzonte.

Si tratta certamente di iniziare un austero cammino (1), mossi tuttavia da un annuncio che è gioioso già da subito: viene il giorno di Pasqua.

La versione italiana del Salterio opera una scelta, fornendo una traduzione di solo uno dei due inni latini proposti alle Lodi: chi infatti conoscesse il latino, potrà fare distinzione fra l’ufficio feriale e quello domenicale. Il testo che in italiano è sacrificato è l’inno Iam, Christe, sol iustitiae (2). In questo post vogliamo pertanto evidenziare alcuni elementi di questa ricchezza perduta.

La penultima strofa recita:

Dies venit, dies tua,

per quam reflorent omnia;

laetemur in hac ut tuae

per hanc reducti gratiae.

[Viene il giorno, il tuo giorno, in cui tutto rifiorisce; rallegriamoci in esso, per esso siamo stati riportati alla grazia]

Non è difficilissimo rintracciare alcuni passi della Scrittura che possono aver ispirato la redazione del testo, o comunque fare collegamenti con citazioni bibliche. Viene in mente il versetto 24 del Salmo 117: Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci in esso ed esultiamo [haec est dies quam fecit Dominus exultemus et laetemur in ea]. Questo passo rinvia ad un altro inno, assai più celebre, che la liturgia propone per l’Ufficio delle Letture nel tempo di Pasqua: Ecco il gran giorno di Dio, splendente di santa luce… [Hic est dies verus Dei, sancto serenus lumine…]. Un pochino più complicato è risalire al salmo 27 (28),7, che citiamo secondo la Vulgata latina, perché nella traduzione italiana si perde molto del dato tradizionale che la liturgia invece ha conservato (3): Dominus adiutor meus et protector meus in ipso speravit cor meum et adiutus sum et refloruit caro mea et ex voluntate mea confitebor ei [Il Signore è mia forza e mio scudo, in lui ha confidato il mio cuore. Mi ha dato aiuto: esualta il mio cuore, con il mio canto voglio rendergli grazie]. La lezione latina del salmo facilita evidentemente il passaggio fra quel rifiorisce la mia carne e la resurrezione di Cristo (4).

Dies.., dies tua…reflorent…laetemur: come non intravedere la Pasqua!? E come non capire che solamente con questa luminosa tensione è possibile vivere una feconda penitenza quaresimale, che non sia vuoto e sterile virtuosismo ascetico scrupolosamente concentrato sulle nostre piccole opere!? Il nostro inno lo dice nella strofa che precede immediamente la nostra: concedici almeno un pò di penitenza, il resto sarà un tuo dono (5)

Non c’è Quaresima senza Pasqua, dunque! E questo dovrebbe essere chiaro fin dall’inizio del cammino dei quaranta giorni.

In altri termini, con una diversa profondità esistenziale, possiamo citare alcune parole di J. Ratzinger: «Siamo qui in presenza di una reciprocità dalla quale tutto dipende: senza saperci accolti dallo sguardo del Redentore – che non cancella a parole le nostre colpe, ma se ne fa carico e le patisce – non si può sopportare la verità della propria colpa e ci si rifugia subito nella prima non-verità – il dissolvimento della propria colpa – dalla quale conseguono tutte le altre menzogne, e da ultimo una generale incapacità a riconoscere il vero. E viceversa: senza il coraggio di essere fino in fondo veri con se stessi, non è possibile conoscere il Salvatore e avere fede in Lui. Per questo motivo, i Padri hanno descritto l’atto fondamentale della conversione anche come “confessione”, e ciò in una duplice accezione: ammissione della propria colpa come “agire nella verità” in senso esistenziale; e testimonianza resa a Gesù Cristo redenroe. Ne consegue che l’atto della conversione implica una obbligatorietà che vincola la nostra libertà, e cioè un legame; e di qui anche l’esigenza di permanere nella verità, che si esprime nell’attaccamento all’insegnamento degli Apostoli e nell’appartenenza alla realtà sacramentale della Chiesa. Con l’esortazione al cambiamento, dunque non si intende richiamare ad un impegno spasmodico per raggiungere standard elevati di realizzazione o di coerenza morale, bensì a permanere in un’apertura e in una vigile sensibilità per il vero e ad aderire a Colui che non solo ci rende “sopportabile” la verità, ma anche la rende per noi feconda e salvifica»: Conversione, penitenza e rinnovamento, in Id., Cantate al Signore una canto nuovo, Milano 1995, 178-179.


(1) Protesi alla gioia pasquale, / sulle orme di Cristo Signore, / seguiamo l’austero cammino / della santa Quresima: così il salterio italiano rende l’originale: Ex more docti mystico / servemus abstinentiam, / deno dierum circulo / ducto quater notissimo; non si vede traccia, almeno di qui, di austerità!

(2) Avevamo già trattato di parte di questo testo qui.

(3) Cf., ad es., qui.

(4) Cf., ad es., il commento di Sant’Agostino: «Il Signore è mio aiuto e mio protettore. Il Signore mi aiuta nel subire tante sofferenze, e con l’immortalità mi protegge nel risorgere. In lui ha sperato il mio cuore, e sono stato soccorso. E rifiorì la mia carne, cioè è risorta la mia carne. E con la mia volontà confesserò a lui. Ne consegue che, già vinto il timore della morte, non costretti dal timore sotto la legge, ma per libera volontà con la legge, lo confesseranno coloro che credono in me; e in essi anch’io confesserò, poiché sono in loro»: cf. il commento all’intero salmo.

(5) Quiddamque paenitentiae / da ferre, quo fit demptio, / maiore tuo munere, / culparum quamvis grandium. Anche su questa strofa si potrebbe dire qualcosa di interessante, ma ora siamo costretti a rimandare la questione ad un futuro prossimo. Per tornare al passato, ci permettiamo, invece, di segnalare un nostro vecchio post sul mercoledì delle ceneri: qui.

Dall’impenitenza al cuore penitente: prodigi della liturgia!

Anche per il tempo quaresimale, il pregare e il “ruminare” l’innodia della Liturgia delle Ore ci rende sensibili a sfumature curiose e a dettagli pur minimi. Anche da queste piccole cose, tuttavia, può risaltare la vivacità della tradizione eucologica della Chiesa, la quale prende dalla Sacra Scrittura le parole per la preghiera, ridicendole tavolta in modo letterale, in altri e più frequenti passaggi con allusioni più libere, talora addirittura rovesciandole! Ci pare questo il caso dell’inno Iam, Christe sol iustitiae, mantenuto come testo latino facoltativo per le Lodi nei giorni feriali (1). Evidenziamo solamente la seconda strofa, offrendo una nostra traduzione italiana:

Dans tempus acceptabile, et paenitens cor tribue, convertat ut benignitas quos longa suffert pietas [Tu che ci offri un tempo favorevole concedici anche un cuore penitente, affinché la bontà converta quelli che la lunga misericordia sopporta] (2).

Vi sono qui allusioni a diversi passaggi della Scrittura: il primo e più chiaro riferimento è senza dubbio 2 Cor 6,2 (ecce nunc tempus acceptabile); meno evidente risulta il riferimento a 1 Cor 13,7, dove nell’inno alla carità si dice che essa “tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” [il latino della Vulgata: omnia suffert omnia credit omnia sperat omnia sustinet]: interessante come la riformulazione liturgica esprime in categorie temporali e spaziali – longa pietas -,  il senso dell’testo paolino “ogni cosa, tutto” (3).
Ancora più sorprendente il terzo riferimento: da Rm 2,5-6 l’inno prende alcune parole, ma usandole in senso rovesciato. Vediamo:

O disprezzi la ricchezza della sua bontà, della sua clemenza e della sua magnanimità, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu, però, con il tuo cuore duro e ostinato, accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio (Rm 2, 5-6) [an divitias bonitatis eius et patientiae et longanimitatis contemnis ignorans quoniam benignitas Dei ad paenitentiam te adducit, secundum duritiam autem tuam et inpaenitens cor thesaurizas tibi iram in die irae et revelationis iusti iudicii Dei]

Ciò che Paolo scrive per ammonire chi presume di poter giudicare gli altri, non accorgendosi di quanto la stessa paziente misericordia divina sia di fatto un invito serio e pressante alla conversione, diventa nell’inno il fondamento della preghiera: la bontà di Dio infine converta quanti fanno esperienza della sua prolungata e grande misericordia, così che nel tempo favorevole della conversione si riesca ad evitare la collera nel giorno del giudizio. La constatazione dell’indurimento insensibile – inpenitens cor – di quanti giudicano in modo temerario, e che Paolo stigmatizza, diventa qui una preghiera perché il cuore sia invece penitente!

Non si potrebbe capire come sia permesso alla liturgia godere di tale licenza se non si concepisse la Liturgia in profonda continuità teologica con la Sacra Scrittura. Ma di questo non possiamo occuparci ora: sia sufficiente il piccolo esempio offerto.

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(1) L’innario quaresimale della Liturgia delle Ore in italiano presenta alcune particolarità, che contiamo di poter approfondire. Non è facile reperire l’appropriata bibliografia per studiare meglio il lavoro di L. Gherardi, che curò la traduzione (!?) e le scelte della versione italiana degli Inni tipici: di fatto l’inno Iam Christe non è stato conservato.

(2) La versione ritoccata nel 1632 dalla riforma di Urbano VIII recitava: Dans tempus acceptabile,/ da lacrimarum rivulis/ lavare cordis victimam,/ quam laeta adurat caritas. Nell’ultimo stico era più facilmente riconoscibile il riferimento a 1 Cor 13. Qui si può trovare una versione inglese: http://www.preces-latinae.org/thesaurus/Hymni/IamChriste.html. Qui, invece, la melodia: http://liberhymnarius.org/index.php/Iam,_Christe,_sol. Nella sezione dei commenti (sotto) si può trovare una versione spagnola.

(3) Assai interessante questo attributo della pietas! Avevamo già approfondito la “velocità” della misericordia (cf.  https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2013/11/23/un-ladrone-impunito-una-fede-breve-e-veloce-misericordia-questo-e-il-regno-di-dio/), ma dovremo in altro momento approfondire questa “longitudem pietatis“!