Una buona visita in libreria. Prima della Pasqua.

Ci fa davvero piacere segnalare una recente pubblicazione, in cui la competenza di provati esegeti si confronta con il dato della liturgia, mostrando la ricchezza dell’approccio sintetico fra Bibbia e Liturgia. Si tratta di un lavoro che, in grado molto, moltissimo, inferiore, andiamo facendo in certo modo anche nelle povere pagine di questo piccolo blog.

D’altronde riconosciamo in uno dei «pensatori» di questo volume, un nostro maestro, docente al Pontificio Istituto Liturgico, e da qualche tempo professore anche presso il Dipartimento di Teologia Biblica della Pontificia Università Gregoriana.

La pubblicazione in questione raccoglie le conferenze presentate in una giornata di studi di quella Istituzione Accademica. Il titolo, dell’una e dell’altra, è assai intrigante: La Bibbia si apre a Pasqua. Il lezionario della Veglia Pasquale: storia, esegesi, liturgia.

On line, è disponibile l’introduzione e l’indice (2). Si tratta, senza dubbio, di uno strumento utilissimo, proprio nell’avvicinarsi della Santa Notte di Pasqua. Se non altro per la novità dell’approccio. Non manca forse qualche forzatura e non tutti i contributi paiono dello stesso valore, ma crediamo che valga la pena incoraggiare questa iniziativa.

9788821597602g

Avevamo da poco pubblicato il nostro ultimo post (1), in cui echeggiava l’eucologia della veglia pasquale, che ci è capitato di leggere le note di un biblista intorno alle prime letture della celebrazione della Parola della notte. Confessiamo che non si credeva ai nostri occhi:

Il sabato e oltre

La prima lettura della Veglia non solo introduce quelli che saranno i simboli materiali della Veglia (la luce, l’acqua); insieme alla loro dinamica (il sorgere, la separazione) fornisce al lezionario di Pasqua anche la sua scansione temporale. L’evento pasquale in effetti si iscrive nella scia della settimana creatrice, conclusa con il sabato (Gen 2,2-3), e porta l’opera divina più avanti: «Passato il sabato […] Di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato» (Mc 1,2); «Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino» (Lc 24,1). Il nuovo inizio si avverte in particolare nel Vangelo secondo Giovanni che fa uso del numero cardinale per qualificare il giorno della risurrezione – «Nel giorno uno dopo il sabato (tê de mia ton sabbátón)» (Gv 201,) – e così riecheggia il giorno iniziale della creazione in Gen 1,5: «giorno uno (yôm ’ehad)».  […] Alla fine dell’arco delle letture, la risurrezione è un evento che si misura a partire dal mistero della creazione – in ambedue i misteri si dichiara l’onnipotenza divina in una manifestazione di luce. L’orazione che fa da eco a Gen 1 esprime questa corrispondenza sotto la forma di un «tanto più»: «Se fu grande all’inizio la creazione del mondo, ben più grande, nella pienezza dei tempi, fu l’opera della nostra redenzione».

J. P. Sonnet, «Le letture della Genesi. La creazione (Gen 1,1-2,2) e la legatura di Isacco (Gen 22,1-18)», in J.-P. Sonnet (ed.), La Bibbia si apre a Pasqua. Il lezionario della Veglia pasquale: storia, esegesi e liturgia, Roma – Cinisello Balsamo (MI) 2016, 71-72.


(1) La_Bibbia_si_apre_a_Pasqua._Il_lezionari-2

(2) Qui.

Rapporti non completamente risolti: non contro ma oltre. Una via per la continuità nella riforma.

Massima è l’importanza della Sacra Scrittura nella celebrazione liturgica. Da essa infatti vengono tratte le letture da spiegare nell’omelia e i salmi da cantare, del suo afflato e del suo spirito sono permeate le preci, le orazioni e gli inni liturgici, e da essa prendono significato le azioni e i segni. Perciò, per favorire la riforma, il progresso e l’adattamento della sacra liturgia, è necessario che venga promossa quella soave e viva conoscenza della Sacra Scrittura, che è attestata dalla venerabile tradizione dei riti sia orientali sia occidentali (Sacrosanctum Concilium 24)

«Nessuno oggi oserebbe pensare – come ci è stato insegnato – che i rapporti tra Bibbia e Liturgia siano completamente risolti con SC 24. Oggi, andando oltre e non contro SC 24, è stato evidenziato e mostrato che il rapporto tra Bibbia e Liturgia si trova non solo per la loro presenza reciproca (la Bibbia nella Liturgia, la Liturgia nella Bibbia), ma primariamente perché hanno l’origine identica e simultanea: il fatto salvifico della Pasqua ebraica, così come è narrato da Es 12, lo dimostra. Sempre andando oltre e non contro SC 24 è stato evidenziato che la presenza della Bibbia nella Liturgia incomincia ben prima delle letture, i salmi, l’afflato che permea l’eucologia, i carmi liturgici, le azioni e i simboli. La presenza della Bibbia nella Liturgia si ha già nelle “strutture bibliche” che organizzano i riti stessi sia a livello di rito in genere sia di eucologia in specie: la berît, l’alleanza che scandisce ogni celebrazione in momento della Parola e momento del segno; la todàh o preghiera di richiesta di perdono, la berakàh o benedizione, il rîb o processo bilaterale con il perdono del colpevole che si riconosce tale, ecc. Chi avrebbe mai detto, poi, che il sacramento della Penitenza ha avuto anche nel Medio-Evo una liturgia della Parola, non proclamata ma “rappresentata” ritualmente e, quindi, molto più ampia e coinvolgente di quanto lo sia oggi nell’Ordo Penitentiae?», R. De Zan, «Tra Memoria e Profezia: il dinamismo di una tradizione», in Ecclesia orans 29 (2012) 154.

Dall’impenitenza al cuore penitente: prodigi della liturgia!

Anche per il tempo quaresimale, il pregare e il “ruminare” l’innodia della Liturgia delle Ore ci rende sensibili a sfumature curiose e a dettagli pur minimi. Anche da queste piccole cose, tuttavia, può risaltare la vivacità della tradizione eucologica della Chiesa, la quale prende dalla Sacra Scrittura le parole per la preghiera, ridicendole tavolta in modo letterale, in altri e più frequenti passaggi con allusioni più libere, talora addirittura rovesciandole! Ci pare questo il caso dell’inno Iam, Christe sol iustitiae, mantenuto come testo latino facoltativo per le Lodi nei giorni feriali (1). Evidenziamo solamente la seconda strofa, offrendo una nostra traduzione italiana:

Dans tempus acceptabile, et paenitens cor tribue, convertat ut benignitas quos longa suffert pietas [Tu che ci offri un tempo favorevole concedici anche un cuore penitente, affinché la bontà converta quelli che la lunga misericordia sopporta] (2).

Vi sono qui allusioni a diversi passaggi della Scrittura: il primo e più chiaro riferimento è senza dubbio 2 Cor 6,2 (ecce nunc tempus acceptabile); meno evidente risulta il riferimento a 1 Cor 13,7, dove nell’inno alla carità si dice che essa “tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” [il latino della Vulgata: omnia suffert omnia credit omnia sperat omnia sustinet]: interessante come la riformulazione liturgica esprime in categorie temporali e spaziali – longa pietas -,  il senso dell’testo paolino “ogni cosa, tutto” (3).
Ancora più sorprendente il terzo riferimento: da Rm 2,5-6 l’inno prende alcune parole, ma usandole in senso rovesciato. Vediamo:

O disprezzi la ricchezza della sua bontà, della sua clemenza e della sua magnanimità, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu, però, con il tuo cuore duro e ostinato, accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio (Rm 2, 5-6) [an divitias bonitatis eius et patientiae et longanimitatis contemnis ignorans quoniam benignitas Dei ad paenitentiam te adducit, secundum duritiam autem tuam et inpaenitens cor thesaurizas tibi iram in die irae et revelationis iusti iudicii Dei]

Ciò che Paolo scrive per ammonire chi presume di poter giudicare gli altri, non accorgendosi di quanto la stessa paziente misericordia divina sia di fatto un invito serio e pressante alla conversione, diventa nell’inno il fondamento della preghiera: la bontà di Dio infine converta quanti fanno esperienza della sua prolungata e grande misericordia, così che nel tempo favorevole della conversione si riesca ad evitare la collera nel giorno del giudizio. La constatazione dell’indurimento insensibile – inpenitens cor – di quanti giudicano in modo temerario, e che Paolo stigmatizza, diventa qui una preghiera perché il cuore sia invece penitente!

Non si potrebbe capire come sia permesso alla liturgia godere di tale licenza se non si concepisse la Liturgia in profonda continuità teologica con la Sacra Scrittura. Ma di questo non possiamo occuparci ora: sia sufficiente il piccolo esempio offerto.

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(1) L’innario quaresimale della Liturgia delle Ore in italiano presenta alcune particolarità, che contiamo di poter approfondire. Non è facile reperire l’appropriata bibliografia per studiare meglio il lavoro di L. Gherardi, che curò la traduzione (!?) e le scelte della versione italiana degli Inni tipici: di fatto l’inno Iam Christe non è stato conservato.

(2) La versione ritoccata nel 1632 dalla riforma di Urbano VIII recitava: Dans tempus acceptabile,/ da lacrimarum rivulis/ lavare cordis victimam,/ quam laeta adurat caritas. Nell’ultimo stico era più facilmente riconoscibile il riferimento a 1 Cor 13. Qui si può trovare una versione inglese: http://www.preces-latinae.org/thesaurus/Hymni/IamChriste.html. Qui, invece, la melodia: http://liberhymnarius.org/index.php/Iam,_Christe,_sol. Nella sezione dei commenti (sotto) si può trovare una versione spagnola.

(3) Assai interessante questo attributo della pietas! Avevamo già approfondito la “velocità” della misericordia (cf.  https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2013/11/23/un-ladrone-impunito-una-fede-breve-e-veloce-misericordia-questo-e-il-regno-di-dio/), ma dovremo in altro momento approfondire questa “longitudem pietatis“!

Lodi del lunedì della IV settimana, Orazione dopo il Cantico

Soffermandosi un poco sull’orazione che era in previsione dopo la recitazione del Cantico veterotestamentario assegnato alle Lodi di oggi, lunedì della IV settimana, si scoprono alcune cose interessanti. Il testo che la liturgia delle Ore assume dal libro di Isaia (i versetti 10-16) è inserito nel contesto del capitolo 42 (primo canto del servo di Jahwe). La preghiera, sia nella prima versione sia in quella, la seconda, rivista da p. Braga su mandato della Congregazione per il Culto divino (cf. i precedenti post sull’argomento), pare contenere parecchi riferimenti a versetti di tale capitolo. Nella recitazione corale della liturgia delle Ore sono quindi utilizzati i versetti più lirici e adatti al tono della preghiera di lode, mentre gli altri elementi che accompagnano il cantico – titolo, versetto neotestamentario e orazione (1)- permettono di arricchire la recitazione con una meditazione più ampia, suggerendo collegamenti e aperture a tutta la Scrittura. Ad una prima lettura, infatti, l’insistenza della preghiera su temi quali la giustizia, la liberazione dagli errori, la formazione di un popolo nuovo non si comprendono facilmente se riferiti solamente al testo del cantico in se stesso. Ma è sufficiente allargare lo sguardo all’intero capitolo 42 per accorgersi di come l’orazione raccolga e riformuli in preghiera non solo i versetti del cantico (cf. l’espressione “la buona battaglia del vangelo” che rilegge le immagini ben più guerresche “il Signore avanza come un prode, come un guerriero eccita il suo ardore…. lancia urla di guerra”), ma anche altri dati contenuti nella profezia: cf., ad es., i versetti 6-7 “Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e ti ho stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre”. Il tema del canto nuovo, poi, permette di allargare la preghiera fino all’Apocalisse, con il canto nuovo dei redenti davanti all’Agnello, come pure alla seconda lettera di Pietro: “Dato che tutte queste cose dovranno finire in questo modo, quale deve essere la vostra vita nella santità della condotta e nelle preghiere, mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli in fiamme si dissolveranno e gli elementi incendiati fonderanno! Noi infatti, secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia” (2Pt 3,13).Quale ricchezza soggiace da questa mutua penetrazione fra Bibbia e Liturgia!

Vediamo i testi delle due versioni della preghiera e il testo biblico, con alcune sottolineature, che aiutano a cogliere gli elementi di cui sopra.

Omnium liberator Deus,
qui in Christo mortis victore
vim amoris tuis cunctis manifestati hominibus,
adiuva nos ut bonum certamen Evangelii certantes
fratres nostros ab errore et iniustitia
salvare possimus
ad populum de redemptis novo exitu efformadum,
qui duce Domino resurgente ad te venit.

O Dio, liberatore di tutti, che in Cristo, vincitore della morte, hai manifestato a tutti gli uomini la forza del tuo amore, a noi che combattiamo la buona battaglia del Vangelo concedi il tuo aiuto, perché possiamo salvare i nostri fratelli dall’errore e dall’ingiustizia, per formare, fra i redenti in un nuovo esodo, un popolo che guidato dal Signore risorto venga a te.

Deus, liberator noster,
qui in Christo de morte victore
potentiam novitatis, quae a te procedit, manifestasti,
adesto nobis bonum Evangelii certamen certantibus,
ut, ad fratres nostros ab errore et iniustitia liberandos
et ad terram novam in tua iustitia efformandam
tecum fidenter operemur.

O Dio, nostro liberatore, che in Cristo vincitore della morte hai manifestato la potenza della novità che da te procede, assistici mentre combattiamo la buona battaglia del vangelo, perché insieme con te ci adoperiamo fiduciosamente per liberare i nostri fratelli dall’errore e dall’ingiustizia e per formare una terra nuova nella tua giustizia.

Isaia 42,1-25

Primo canto del servo
Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio.
Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni.
Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce,
non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta;
proclamerà il diritto con verità.
Non verrà meno e non si abbatterà, finché non avrà stabilito il diritto sulla terra,
e le isole attendono il suo insegnamento.

Così dice il Signore Dio, che crea i cieli e li dispiega,
distende la terra con ciò che vi nasce, dà il respiro alla gente che la abita
e l’alito a quanti camminano su di essa:
«Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano;
ti ho formato e ti ho stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni,
perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri,
dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre.
Io sono il Signore: questo è il mio nome; non cederò la mia gloria ad altri,
né il mio onore agli idoli.
I primi fatti, ecco, sono avvenuti e i nuovi io preannuncio;
prima che spuntino, ve li faccio sentire».

Inno di vittoria
Cantate al Signore un canto nuovo, lodatelo dall’estremità della terra;
voi che andate per mare e quanto esso contiene, isole e loro abitanti.
Esultino il deserto e le sue città, i villaggi dove abitano quelli di Kedar;
acclamino gli abitanti di Sela, dalla cima dei monti alzino grida.
Diano gloria al Signore e nelle isole narrino la sua lode.
Il Signore avanza come un prode, come un guerriero eccita il suo ardore;
urla e lancia il grido di guerra, si mostra valoroso contro i suoi nemici.
«Per molto tempo ho taciuto, ho fatto silenzio, mi sono contenuto;
ora griderò come una partoriente, gemerò e mi affannerò insieme.
Renderò aridi monti e colli, farò seccare tutta la loro erba;
trasformerò i fiumi in terraferma e prosciugherò le paludi.
Farò camminare i ciechi per vie che non conoscono, li guiderò per sentieri sconosciuti;
trasformerò davanti a loro le tenebre in luce, i luoghi aspri in pianura.
Tali cose io ho fatto e non cesserò di fare».
Retrocedono pieni di vergogna quanti sperano in un idolo,
quanti dicono alle statue: «Voi siete i nostri dèi».

Cecità e sordità d’Israele
Sordi, ascoltate, ciechi, volgete lo sguardo per vedere.
Chi è cieco, se non il mio servo?
Chi è sordo come il messaggero che io invio?
Chi è cieco come il mio privilegiato?
Chi è cieco come il servo del Signore?
Hai visto molte cose, ma senza farvi attenzione,
hai aperto gli orecchi, ma senza sentire.
Il Signore si compiacque, per amore della sua giustizia,
di dare una legge grande e gloriosa.
Eppure questo è un popolo saccheggiato e spogliato;
sono tutti presi con il laccio nelle caverne, sono rinchiusi in prigioni.
Sono divenuti preda e non c’era un liberatore,
saccheggio e non c’era chi dicesse: «Restituisci».
Chi fra voi porge l’orecchio a questo, vi fa attenzione e ascolta per il futuro?
Chi abbandonò Giacobbe al saccheggio, Israele ai predoni?
Non è stato forse il Signore contro cui peccò, non avendo voluto camminare per le sue vie
e non avendo osservato la sua legge?
Egli, perciò, ha riversato su di lui la sua ira ardente e la violenza della guerra,
che lo ha avvolto nelle sue fiamme senza che egli se ne accorgesse,
lo ha bruciato, senza che vi facesse attenzione.

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(1) “Inno al Signore vittorioso e salvatore. Essi cantavano un cantico nuovo davanti al trono di Dio (Ap 14,3)“. Come si sa, per i testi ufficiali delle orazioni dopo i salmi e dopo i cantici ancora si deve attendere il promesso quinto volume della Liturgia delle Ore.

Sacramenti della Bibbia e Sacramenti della Liturgia

E’ indubitabile che sui rapporti fra Bibbia e Liturgia la teologia liturgica ha compiuto notevoli progressi negli ultimi decenni. Tuttavia, come in tanti altri ambiti della vita, le conquiste di una generazione debbono essere custodite preziosamente, pena il rischio di smarrirle e dover ricominciare poi da capo. Così una ricorrenza non è solo occasione di gratitudine e di giusto ossequio, ma pare altresì utilissima per non perdere intuizioni decisive e fondamentali.
Il monaco e poi vescovo Mariano Magrassi fu uno dei più importanti divulgatori dei principi e delle ricchezze teologiche alla base del rinnovamento liturgico. L’ultimo numero della rivista Liturgia (CAL) ci offre la possibilità di apprezzare una volta di più la sua opera. Di quell’articolo riportiamo un brano, assai appropriato al contesto tematico del nostro blog:

La celebrazione attraverso la lettura biblica, l’ascolto dei racconti degli eventi salvifici, diventa memoriale, ossia la continuata azione del Verbo nelle anime, giacché il Cristo vive nella Chiesa mediante la fede e mediante i misteri:
“Nella liturgia il libro sacro continua ad essere la Parola creatrice di Dio. L’ha detto magnificamente un medioevale, Pascasio Radberto: ‘C’è anche qualcosa di sacramentale nelle divine scritture, ove lo Spirito Santo realizza un effetto interiore per mezzo dell’azione efficace della Parola’. Non è una Parola di ieri, ma Parola di oggi. Anche l’ergon avrà dunque col logos la sua attualità nella liturgia. Cesserebbe di essere la parola di Dio se non compisse per forza sua propria quello che annunzia. Dunque non racconta quello che è avvenuto una volta, ma annunzia quello che vuole ora operare. E’ nell’hodie liturgico che si traduce in realtà. Tutto questo lo esprime molto bene la Messa con la sua struttura: alla Parola succede l’azione, ed è la Parola stessa che la compie […]. I Padri hanno designato la dimensione tipologica della Scrittura col termine di mysterion o sacramentum, ad indicare quella realtà profonda (mistero di Cristo e della Chiesa) che gli eventi della storia sacra contenevano ed adombravano misteriosamente. Ora questi Sacramenti della Scrittura sono stati assunti e incorporati nei Sacramenti della Chiesa. Il simbolismo sacramentale è infatti un simbolismo biblico, fondato sui grandi temi tipologici. E qui si tratta di simboli efficaci: Sacramenta id efficiunt quod significant. Si intravede qui il vincolo che intercorre tra i Sacramenti della Bibbia e i Sacramenti della liturgia. E si intravede pure che è la liturgia che traduce in atto i ‘Sacramenti’ della Bibbia. Gli eventi salvifici della storia sacra, proclamati nella lettura e poi adombrati dal segno sacramentale, sono attuati e resi presenti eminentiori modo, in un modo che potremmo chiamare modus plenior, corrispondente al sensu plenior che la tipologia cha colto in quegli eventi. Il rito di oggi è l’avvenimento di allora che trova la sua perfetta e definitiva attuazione. Quello che prima era figura, ora è sacramento. E’ nella liturgia della Chiesa che la S. Scrittura trova ad un tempo il suo senso ultimo e il suo adempimento supremo. Si può ripetere in ogni adunanza liturgica quel che disse Gesù nella sinagoga di Nazaret: ‘Hodie impleta est haec Scriptura’ (Lc 4,21) […]. Allora i fatti biblici non sono semplice rievocazione, ma si rendono presenti come realtà che si compie […]. Attraverso l’esegesi tipologica della liturgia, la Bibbia ritrova la sua vitalità e la sua attualità. Cessa di essere una semplice storia del passato per diventare la mia storia: perché è un mistero vivente nella cui corrente dinamica sono immesso».
P. Zecchini, «Mariano Magrassi: una luce mistagogica. A dieci anni dalla morte», Liturgia (CAL) 47 (2014/3) 43-44. La citazione è tratta da M. Magrassi, Vivere la Parola, Noci 1979, 44-47.

La Parola della riconciliazione (2).

Continuiamo con la pubblicazione di alcuni stralci del nostro studio sulla Liturgia della Parola nel sacramento della Penitenza. Oggi il primo paragrafo delle conclusioni: il testo forse non è del tutto appropriato per la pubblicazione in un post di un blog, ma può essere comunque utile.

Ricordiamo che esso è in continuità con questi post precedenti:

https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/09/12/il-nuovo-rito-della-penitenza-paolo-vi-critico-dalla-carte-del-card-antonelli-unannotazione-da-approfondire/

https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/09/16/la-parola-della-riconciliazione-1/

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Per una pluralità di problematiche e motivi che non si possono ricordare qui, la riforma liturgica, così come si è andata concretizzando negli anni del post-Concilio, sembra oggi essere messa in questione. Fra i vari libri liturgici riformati, il nuovo Rituale della Penitenza pare quello meno recepito e la celebrazione di questo sacramento si distingue per le difficoltà che incontra. Piuttosto che rimanere rassegnati di fronte alla realtà o, al contrario, spingere per una prassi che forzi le direttive del Rituale, ci si può lasciar provocare da una riflessione di Benedetto XVI.
Di fronte alle innegabili problematiche nella piena e corretta recezione del Vaticano II, il Papa invitava gli studiosi a «rileggere» le indicazioni conciliari con una ermeneutica ampia, per coglierne le ricchezze ancora non pienamente sbocciate. Applicando questi suggerimenti generali al caso concreto della riforma della penitenza, piuttosto che studiare il Rituale da prospettive e suggestioni teologico-dogmatiche non del tutto aderenti ai testi, si è preferito allargare l’orizzonte ai documenti della storia liturgica antica: a quella antica, dalle prime attestazioni fino alla solenne ritualità dei Pontificali, e a quella recente, dalla riforma tridentina fino a quella seguita al Vaticano II. C’era poi un altro vasto campo di investigazione da esplorare: se davvero si è certi della bontà delle intuizioni conciliari, non si può omettere l’approfondimento di tutto il lavoro che ha preceduto e ha seguito l’evento che più ha segnato la vita della Chiesa negli ultimi cinquant’anni. La ricerca svolta con la prospettiva dell’ermeneutica della continuità auspicata da Benedetto XVI, che suggeriva una verifica approfondita, ha sorprendentemente confermato la ricchezza di quanto il Concilio aveva intuito e stabilito, offrendo il portato della storia della liturgia. Nell’esortazione apostolica Sacramentum caritatis, il Papa ribadiva un concetto analogo, nello specifico riguardante il sacramento dell’Eucaristia, ma che si può applicare validamente anche alla riforma del rito della penitenza:

«Le difficoltà ed anche taluni abusi rilevati, è stato affermato, non possono oscurare la bontà e la validità del rinnovamento liturgico, che contiene ancora ricchezze non pienamente esplorate. Si tratta in concreto di leggere i cambiamenti voluti dal Concilio all’interno dell’unità che caratterizza lo sviluppo storico del rito stesso, senza introdurre artificiose rotture» (SCar 3).

Il confronto con le fonti, sebbene talvolta incerte, o non comunque esplicite e chiare, rappresenta sempre un momento importante. Per cui, anche se nel caso dei riti della penitenza gli storici della liturgia generalmente hanno messo in maggior rilievo altri elementi rispetto a quelli che interessavano qui, i testi e i commenti studiati hanno permesso di affermare che quanto auspica OP 24 sia un dato presente nel corso della storia del sacramento. Non si tratta perciò di un fattore di discontinuità, nonostante ciò non appaia del tutto evidente, per la complessità della questione: il confronto fra il Rituale di Paolo VI e quello tridentino, a questo proposito, risulta abbastanza impattante e dà l’impressione di una netta cesura L’incursione nella storia liturgica di questo particolare elemento liturgico ha comunque mostrato come i periti del coetus XXIIIbis non abbiano inventato nulla né abbiano agito in base alla loro creatività.
Il secondo capitolo della ricerca è servito quindi a cogliere le strutture e intuire le dinamiche dello sviluppo delle forme celebrative del sacramento, che con diversa intensità e consapevolezza, è stato amministrato con la presenza di una qualche parola della Scrittura, o comunque ad essa ispirata, che ha accompagnato il gesto sacramentale. Nel corso dei secoli tale presenza ha assunto varie configurazioni: dal parallelismo con la catechesi catecumenale – i battezzati penitenti erano associati in certo qual modo ai catecumeni – e dalla correptio episcopale alla simbologia drammatica dei Pontificali, elaborata a partire da pagine bibliche, richiamate dai gesti talvolta quasi mimetici e da antifone; dalle parole ispirate della preghiera della salmodia alle catechesi morali dei confessori. La storia della penitenza conosce una svolta, nella riforma liturgica seguita al Vaticano II, a partire da una situazione in cui il Rituale tridentino e il diritto ecclesiale non sembravano pienamente adeguati alle istanze dei tempi moderni: le esigenze di rinnovamento ampiamente avvertite nel momento liturgico preconciliare si possono, in modo generalizzato, considerare verificate anche nello specifico caso del sacramento della penitenza. Sembra, perciò, particolarmente equilibrato e fondato l’autorevole commento di Vagaggini sul significato e la portata di quanto il Vaticano II afferma sulla necessità che nella Liturgia la Parola di Dio recuperi finalmente il posto che le spetta: senza rotture drastiche o giudizi totalmente negativi sul passato, il monaco camaldolese illustra il delinearsi dell’aspettativa che la liturgia e anche l’intera teologia fossero più direttamente e intensamente «kerigmatiche», portatrici dell’annunzio della parola di Dio, per risvegliare ed alimentare la fede(1). Tale esigenza sarà formulata nella preoccupazione della SC, che prospetta celebrazioni liturgiche con un equilibrio migliore tra sacramentalizzazione ed evangelizzazione, rispetto a quello conosciuto e praticato dalla Chiesa preconciliare:

«Se lo scopo della riforma liturgica doveva essere la partecipazione più plenaria e vitale possibile alle realtà della storia-sacra-mistero-di-Cristo, proclamate nella Scrittura, ma sempre presenti ed operanti in modo particolare nelle celebrazioni liturgiche: e se ciò doveva farsi con una maggiore accentuazione…: la conseguenza logica non poteva essere solo l’instaurazione della lingua viva del popolo invece del latino nella liturgia medesima, ma anche una più abbondante, varia e meglio scelta lettura della Scrittura stessa nella liturgia» (2).

Di rivoluzione, ma in senso solamente positivo, di nuovo senza distruzione o demonizzazione del passato, parla anche un altro eminente liturgista, fra l’altro professore di storia della penitenza, a riguardo della predisposizione per ogni celebrazione sacramentale di un «lezionario» biblico specifico:

«le nouveau Lectionnaire de la messe et des sacrements…constitue une véritable révolution dans le bon sens du terme, une révolution qui apporte non pas la destruction, mais positivement une richesse dont on n’a pas encore suffisamment sondé les profondeurs» (3).

Lo studio della documentazione relativa alla preparazione, redazione e approvazione della Costituzione liturgica del Vaticano II svolto nel capitolo III, ha permesso, grazie anche alla lettura di testi difficilmente reperibili, di intuire e cogliere il lento e graduale processo che ha riportato la Scrittura al posto che le spetta nella celebrazione cristiana. Nella Costituzione conciliare non è affermato esplicitamente che il sacramento della Penitenza avrebbe dovuto avere un Lezionario, tuttavia il fatto che nel nuovo Rituale siano presenti indicazioni di letture – fra l’altro il lezionario della penitenza è il più ricco fra quelli di tutti i rituali – discende in modo lineare e consequenziale da quanto SC intendeva (4). La ricostruzione analitica dei vari passaggi dell’iter redazionale di SC, sia a livello generale sia nello specifico dei numeri del testo che interessavano qui, consente una serena rilettura dei principi di riforma presenti nel nuovo Rituale, che appaiono in tal modo saldamente e coerentemente fondati nel grande alveo del magistero conciliare; principi che dovranno essere di nuovo approfonditi e compresi «ut fideles maneamus alto proposito liturgicae renovationis quam Concilium voluit Oecumenicum Vaticanum II, cunctam praeclaram magnamque Ecclesiae producens traditionem» (SCar 43). Solamente dopo aver ben approfondito i dati della «traditio» della storia liturgica e quelli della particolare «traditio» che è la documentazione relativa ai lavori dei gruppi di studio preposti alla riforma, si può guardare avanti con fiducia, liberi da dubbi e ripensamenti nell’applicare con coerenza e rinnovato entusiasmo i principi di riforma, convinti della loro bontà e aperti, allo stesso tempo, al necessario adattamento.
Riguardo all’introduzione della Parola di Dio nelle celebrazioni sacramentali, Bugnini testimonia delle difficoltà, simili alle quelle registrate nel corso dell’analisi dei lavori del Coetus XXIIIbis, anche a proposito della riforma del rituale del battesimo dei bambini. Diversamente a quanto accadde per l’OP, nonostante le insistenze della Congregazione per la Dottrina della Fede nella redazione finale del rito del battesimo non venne accolta una modifica che avrebbe regolato la lettura della Parola di Dio «pro opportunitate». Nel rito della penitenza, invece, quel «pro opportunitate» – si parla del rito per la confessione di un solo penitente – è stato inserito. Ma aver avuto la possibilità di seguire il progressivo delinearsi dell’impianto strutturale del libro liturgico e averne documentato le limature finali, offre la possibilità di cogliere ancora più chiaramente l’auspicio che la Parola di Dio sia considerata parte integrante della celebrazione della riconciliazione sacramentale. Anche se non si trova nel Rituale una teologia dell’efficacia della Parola di Dio, le indicazioni sono chiare. Se tale dato era già evidente ad una seria ed onesta lettura sincronica del rituale, si crede che ora lo possa essere molto di più.
Questo è stato il portato del lungo e faticoso confronto con i testi del gruppo di studio. Si è trattato di un «solitario» e a tratti arido lavoro di analisi della documentazione: solitario perché nessuno prima d’ora ne aveva prodotto i fascicoli degli schemi né li aveva commentati in modo così dettagliato, arido perché non sempre gli schemi hanno offerto ricchi ed entusiasmanti elementi. All’analisi talvolta «asciutta», che però ha permesso di setacciare la mole impressionante della produzione degli esperti e le varie osservazioni al loro lavoro, ha poi seguito la composizione sintetica di conclusioni valutative sorprendenti, che finora non potevano essere desunte. Si crede, infatti, che non sia più possibile dubitare della centralità e della positività della Parola di Dio nelle celebrazioni sacramentali, elemento caratteristico della riforma liturgica generalmente intesa e assai più rilevante nella riforma della penitenza, considerando il fatto che nel rituale precedente la Parola di Dio era pressoché assente. Almeno su questo non si potranno più addurre veti, remore o giudizi ambigui: in questo particolare ambito della riforma della penitenza non si è tradito, superandolo, il Concilio. Non si potrà, quindi, tergiversare nell’applicazione di quanto il Concilio e la riforma post-conciliare indicano. L’urgenza di questo impegno si è manifestata nella breve incursione nella prassi pastorale, compiuta nel capitolo V. Talvolta, invece, si auspicano lentezze e si insinuano sospetti: «Il fatto che la riforma liturgica ancora oggi sia oggetto di valutazioni contrastanti, dovrebbe suggerire prudenza: per una verifica obiettiva ci vorrà del tempo e lo studio degli archivi». Lo studio degli archivi, per quel che riguarda questo settore della riforma della penitenza, è stato espletato, e sono emersi dati non inizialmente prevedibili. Tali dati si offrono alla comunità scientifica, con l’auspicio che si possa iniziare a colmare la sorprendente mancanza di studi che abbiano come tema il principio di OP 24 per un’analisi seria, approfondita e capace di aprire nuove prospettive.
La conclusione di questo studio coincide, poi, con l’invito del Papa Benedetto XVI che nella ricerca teologica si approfondisca il legame tra Parola e Sacramento: così nell’esortazione apostolica (5) successiva al Sinodo dei Vescovi, che nella sua XII Assemblea Generale Ordinaria (5-26 ottobre 2008) aveva riflettuto su La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa:

«Affrontando il tema del valore della liturgia per la comprensione della Parola di Dio, il Sinodo dei Vescovi ha voluto sottolineare anche la relazione tra la sacra Scrittura e l’azione sacramentale. È quanto mai opportuno approfondire il legame tra Parola e Sacramento, sia nell’azione pastorale della Chiesa che nella ricerca teologica. Certamente «la liturgia della Parola è un elemento decisivo nella celebrazione di ciascun sacramento della Chiesa»; tuttavia nella prassi pastorale non sempre i fedeli sono consapevoli di questo legame e colgono l’unità tra il gesto e la parola. È «compito dei sacerdoti e dei diaconi, soprattutto quando amministrano i sacramenti, mettere in luce l’unità che Parola e Sacramento formano nel ministero della Chiesa». Infatti, nella relazione tra Parola e gesto sacramentale si mostra in forma liturgica l’agire proprio di Dio nella storia mediante il carattere performativo della Parola stessa. Nella storia della salvezza infatti non c’è separazione tra ciò che Dio dice e opera; la sua stessa Parola si presenta come viva ed efficace (cfr Eb 4,12), come del resto lo stesso significato dell’espressione ebraica dabar indica. Al medesimo modo, nell’azione liturgica siamo posti di fronte alla sua Parola che realizza ciò che dice. Educando il Popolo di Dio a scoprire il carattere performativo della Parola di Dio nella liturgia, lo si aiuta anche a cogliere l’agire di Dio nella storia della salvezza e nella vicenda personale di ogni suo membro» (VD 53).

Queste indicazioni non sono in modo assoluto una novità; considerazioni simili non è raro riscontrarle negli odierni studi sulla celebrazione eucaristica. Assai interessante, invece, è il fatto che il Pontefice applichi tali principi a tutte le celebrazioni sacramentali, e in modo esplicito – qui sta la felice novità – alla celebrazione della penitenza:

«Se al centro della relazione tra Parola di Dio e Sacramenti sta indubbiamente l’Eucaristia, tuttavia è bene sottolineare l’importanza della sacra Scrittura anche negli altri Sacramenti, in particolare quelli di guarigione: ossia il sacramento della Riconciliazione o della Penitenza, e il sacramento dell’Unzione degli infermi. Spesso il riferimento alla sacra Scrittura in questi Sacramenti viene trascurato. È necessario, invece, che ad essa venga dato lo spazio che le spetta. Infatti, non si deve mai dimenticare che «la Parola di Dio è parola di riconciliazione perché in essa Dio riconcilia a sé tutte le cose (cfr 2 Cor 5,18-20; Ef 1,10). Il perdono misericordioso di Dio, incarnato in Gesù, rialza il peccatore». La Parola di Dio «illumina il fedele a conoscere i suoi peccati, lo chiama alla conversione e gl’infonde fiducia nella misericordia di Dio». Affinché si approfondisca la forza riconciliatrice della Parola di Dio si raccomanda che il singolo penitente si prepari alla confessione meditando un brano adatto della sacra Scrittura e possa iniziare la confessione mediante la lettura o l’ascolto di una ammonizione biblica, secondo quanto previsto dal proprio rito. Nel manifestare la sua contrizione, poi, è bene che il penitente usi «una formula composta di espressioni della sacra Scrittura», prevista dal rito. Quando possibile, è bene che, in particolari momenti dell’anno o quando se ne presenti l’opportunità, la confessione individuale da parte di più penitenti avvenga all’interno di celebrazioni penitenziali, come previsto dal rituale, nel rispetto delle diverse tradizioni liturgiche, in cui poter dare ampio spazio alla celebrazione della Parola con l’uso di letture appropriate» (VD 61).

Se da una parte la riscoperta dell’importanza della Parola di Dio nella liturgia è un portato che la recezione del Concilio Vaticano II ha generalmente acquisito e che nella liturgia eucaristica è passato in modo ormai scontato, dall’altra nella celebrazione della penitenza rimane ancora faticoso pensare il rapporto, quand’anche si dia, fra proclamazione della Scrittura e sacramento; per articolare questo rapporto, il Rituale offre solamente alcune espressioni sintetiche, da approfondire ulteriormente. Potrebbe essere interessante, perciò, assumere come analogatum princeps il rapporto che c’è fra Parola di Dio e sacramento nella celebrazione dell’eucaristia e poi verificare in che modo si possa applicare al sacramento della penitenza(6). Non si può qui riscrivere la storia dell’avanzamento teologico della questione dei rapporti fra Bibbia e Liturgia. La teologia liturgica ha fatto notevoli passi in avanti e a livello teoretico il dato è chiaro: vale per ogni sacramento, sebbene in modo proprio e relativo alle singole celebrazioni, quanto si dice a proposito della Parola di Dio nella celebrazione dell’eucaristia. Anche nel Magistero è evidente un progresso e una maggiore ricchezza in questo ambito della riflessione teologico-liturgica. A livello di declinazione celebrativa e pastorale si registra, invece, una sorta di difficoltà ad articolare il rapporto fra Parola di Dio e celebrazione sacramentale. A livello generale il dato pare acquisito e ben argomentato:

«La liturgia della Parola, allora, in quanto prima parte della celebrazione sacramentale, non può essere considerata soltanto preambolo o preparazione a quanto avviene dopo. Essa stessa nella fede è già comunione con Cristo sotto l’azione dello Spirito Santo, il quale soltanto può far capire ciò che ha ispirato all’inizio (cf. DV 8.12.126). D’altra parte al centro dell’atto sacramentale, in quella che si precisa come forma sacramenti, si pronuncia o si ubbidisce a una Parola-comando di Cristo che diventa efficace in virtute Spiritus Sancti.
Da qui si può capire l’importanza di una costante, per cui nei nuovi libri liturgici postconciliari non si propone più una celebrazione dei sacramenta fidei, come li chiamava san Tommaso, senza una specifica liturgia Verbi. Verbum et sacramentum se materialmente si susseguono nella celebrazione, nella realtà più profonda si compenetrano e assicurano perennemente il contatto salvifico tra il Cristo, sempre vivo e operante nello Spirito, e la sua comunità» (7).

Quando si entra nello specifico, tuttavia, non si riesce a mantenere alta la consapevolezza del considerare la lettura della Sacra Scrittura non semplicemente come preparazione, come momento rituale di preambolo o, peggio, come scritto da cui attingere indicazioni per l’esame di coscienza(8), ma come parte integrante della celebrazione, parte che entra «nella stessa struttura sacramentale» (9). Pare che su questo aspetto si debba, allora, concentrare l’attenzione se si vuole tentare di risolvere la questione ed offrire un contributo valido ed efficace. Infatti, il generale apprezzamento del valore della presenza della Parola di Dio non si è dimostrato sufficiente per un vero ed efficace rinnovamento della celebrazione del sacramento nella globalità della vita ecclesiale. Non basta, quindi, ritenere la proclamazione della Scrittura elemento valido per la preparazione, per l’esame di coscienza, come generico sprone alla conversione – dimensioni che la Parola di Dio certamente possiede – quando, poi, questo elemento lo si consideri in se stesso, a sé stante, e non nella dinamica e con le caratteristiche di una vera azione liturgica (10).
Si dovrà dunque approfondire il nesso intrinseco tra liturgia della Parola e celebrazione sacramentale, partendo da quanto, dopo il Vaticano II, è già stato formulato, a proposito della Messa (cf. OLM), come principio-base che vale, tuttavia, anche per gli altri sacramenti.

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(1) L’autore sostiene infatti che sia comprensibile l’atteggiamento generale della Chiesa post-tridentina, in cui «prevalse cioè la preoccupazione che oggi si chiama di sacramentalizzazione su quella non certo dispensabile della evangelizzazione, intesa a suscitare ed alimentare la fede….sia prima sia durante la celebrazione dei sacramenti, con lo scopo che questa stessa celebrazione sia più fruttuosa possibile in coloro che vi partecipano, tanto in se stessa che nei suoi riflessi in tutta la vita», atteggiamento che, fra l’altro, comportava questi fenomeni: «la Scrittura, oltre che ad essere letta in latino, presentata in modo non idealmente vario ed abbondante; la predicazione non abbondante – quando non notevolmente deficiente – e non di rado assai distaccata dalla spiegazione diretta della Scrittura e della celebrazione liturgica. […] Fintanto che durò il cattolicesimo “sociologico”, in cui cioè, la società come tale – la famiglia, il villaggio o la piccola città artigianale d’origine medievale, l’insieme della cultura e del sentire e la legislazione stessa – trasmettevano valori religiosi cristiani, il predetto stato in cui la sacramentalizzazione era di molto privilegiata rispetto alla evangelizzazione, poté reggere in qualche modo. Ma con la disparizione sempre più larga e irreversibile di questo cristianesimo sociologico per l’impiantarsi e il diffondersi della “società moderna”, ormai già netto nella seconda metà del secolo XIX e nei primi decenni del XX: la situazione dal punto di vista religioso si mostrò sempre più intollerabile esigendo inderogabilmente un migliore equilibrio tra sacramentalizzazione ed evangelizzazione, cominciando dal campo stesso della liturgia»: C. VAGAGGINI, «La liturgia rinnovata e le esigenze dell’annunzio della Parola di Dio», Seminarium 19 (1979) 89-90.

(2) VAGAGGINI, «La liturgia rinnovata», 96-97. Ancora: «Infatti, la realtà liturgica non è altro che l’ultima realtà biblica resa a suo modo presente ed operante lungo i secoli fino alla fine della storia, in ogni individuo e in ogni comunità, anzitutto proprio nelle celebrazioni liturgiche, massimamente nella celebrazione dell’eucaristia», ibid., 97.

(3) A. NOCENT, «La Parole de Dieu et Vatican II» in Liturgia opera divina e umana, 145. Poco prima scriveva: «Il est cependant légitime de penser que l’introduction d’une liturgie de la parole, liée à chaque sacrement célébré même en dehors de la messe, est une nouveauté qui ne peut passer inaperçue. Elle donne à la valeur de la proclamation de la parole un nouvel appui, et tout à la fois permet de comprendre mieux en quoi consiste un sacrement.. […] Le Lectionnaire, qui est désormais attaché au sacrement célébré en dehors de la messe, préserve la célébration sacramentelle de tout aspect magique. La parole comporte une réalité de présence et d’actualité qui va devenir présence sacramentelle. […] Cette composition d’une célébration de la parole, jointe intimement à la célébration sacramentelle, comme ce fut toujours le cas pour la messe, offre à tous les fidèles une théologie sacramentaire qui est, hélas, encore loin d’être assimilée»: ibid., 144.

(4) «Parola di Dio e celebrazione sacramentale. Il collegamento tra questi due elementi nella celebrazione sacramentale non è sviluppato in modo del tutto sistematico e ampio nella SC. Ma non mancano gli accenni. […] È tutto un programma che doveva avere la sua attuazione nel libro liturgico, sulla base di indicazioni molto generiche (SC 35, 51, 92a)»: C. BRAGA, «Attuazione della “Sacrosanctum Concilium” nei libri liturgici», RPL 120 (1983) 21.

(5) BENEDETTO XVI, Adhortatio Apostolica postsynodalis Verbum Domini (30/09/2010) (=VD), AAS 102 (2010) 681-787.

(6) Cf. FALSINI, «La liturgia della Parola», 31: «La differenza tra la liturgia della Parola nell’eucaristia e quella di altri sacramentali non è affatto di tipo strutturale… […] ma soltanto dalla peculiarità dell’eucaristia e dalla relazione più stretta tra le due parti».

(7) P. VISENTIN, «Celebrazione ecclesiale e dinamismo della Parola. Prospettive teologiche», in Dall’esegesi all’ermeneutica attraverso la celebrazione. Bibbia e Liturgia – I («Caro Salutis Cardo», Contributi, 6), ed. R. Cecolin, Padova 1991, 188-189. Cf. anche, oltre all’articolo nella sua globalità, la sintesi degli altri contributi presenti nel volume offerta da R. DE ZAN, «La Parola di Dio compia la sua corsa e sia glorificata (2Ts 3,1). Presentazione», in Dall’esegesi all’ermeneutica, 7-18.

(8) Pare sempre attuale il rischio che si riaffacci l’ambigua distinzione preconciliare separante il sacramento, che dona la grazia ed è efficace nell’ordine dell’azione, e la Parola di Dio, che è rilevante per la dottrina e si trova sul piano dell’insegnamento: cf. R. DE ZAN, «Punti salienti dei “Praenotanda” dell’“Ordo Lectionum Missae” 1981», RL 70 (1983) 691-703.

(9) «Così la parola di Dio già presente in forma limitata nella Messa e nei sacramentali e spesso identificata con la formula sacramentale, è entrata nel ritmo della celebrazione non solo come momento proprio (liturgia della Parola) – ove è proclamata, venerata, acclamata, applicata o attualizzata – ma percorre l’intero cammino rituale, ridonando pieno significato al rito, anzi entrando nella stessa struttura sacramentale per cui il rito sacramentale mediante la Parola biblica si inserisce nella serie degli eventi biblici, è proclamazione dei mirabilia Dei, appare come compimento degli eventi salvifici ritrova la sua dimensione storico-salvifica, liberandosi dalla concezione di atto isolato e puntuale. Non si può ormai concepire una celebrazione liturgica senza la proclamazione della Parola»: R. FALSINI, «Le grandi acquisizioni teologico-pastorali della riforma liturgica», RPL 157 (1989) 21-22.

(10) «Non si sfugge però all’impressione che la proclamazione della parola di Dio sia vista non come una vera azione liturgica, incontro con Cristo morto e risorto, contenuto delle Scritture e interprete di esse, presente nella sua Parola, che interpella personalmente i fedeli annunciando la misericordia, smascherando il peccato, infondendo fiducia, chiamando alla conversione, assicurando il perdono, quanto piuttosto un espediente catechetico, utile ma non indispensabile, per preparare il penitente all’incontro con Cristo che avviene nella confessione e nell’assoluzione. […] Nel n. 22, poi, si dice che “quando più penitenti si riuniscono per ottenere la riconciliazione sacramentale, è bene che si preparino con una celebrazione della parola di Dio”. Quindi per il rituale la liturgia della Parola non fa parte della celebrazione, ma è semplice preparazione ad essa»: SORCI, «Il lezionario», 845.

Una mirabile rilettura gallo-ambrosiana.

Attingiamo da indiscutibili autorità conferme e spunti per il tema di fondo del nostro blog: la “continuità” fra Bibbia e Liturgia.

Lasciamo quindi per un attimo l’altro grande taglio delle nostre piccole incursioni, la continuità della riforma liturgica del Vaticano II con l’autentica tradizione. Ma tutto si tiene, perché la mirabile sintesi che riportiamo qui è opera di uno dei grandi maestri che di quella riforma furono protagonisti di primissimo piano. Senz’altro dire dunque, la parola al liturgista francese A. G. Martimort: presentando il metodo catechetico di sant’Ambrogio, un paragrafo ne evidenzia le basi bibliche. Un testo tutto da leggere, dal genio santambrosiano alla lucida sintesi di un “piccolo”, ma grandissimo, “gallo” (se non ricordo male, da qualcuno ho sentito una volta che in tal modo veniva scherzosamente chiamato Martimort, giocando sulla non altissima statura di questo liturgista di Tolosa)

 

I sacramenti trovano la loro significazione nella storia biblica.

Alcuni dei riti dell’iniziazione cristiana, sia sacramentali sia non sacramentali [..] ripetono i gesti stessi di Cristo. Così l’effeta […]. Lo stesso per la lavanda dei piedi dopo il battesimo, rito proprio della Chiesa milanese e di altre Chiese vicine, la cui significazione vien data dalla lettura del brano evangelico Gv 13. E sopra tutto l’Eucaristia, nella quale parole e gesti sono proprio quelli di Cristo. Inoltre alcune azioni di Cristo sono particolarmente commentate da sant’Ambrogio per spiegare il Battesimo e i suoi effetti: il battesimo di Gesù nel Giordano, la guarigione del paralitico di Bethsaida, la guarigione del cieco nato. E rileggendo oggi il commentario del Vescovo di Milano, ci possiamo chiedere se gli evangelisti non ci hanno voluto descrivere quegli eventi appositamente per illustrare la dottrina del sacramento del Battesimo.

Con i fatti e le immagini del Nuovo Testamento, si presentano numerose le immagini dell’Antico Testamento: lo Spirito di Dio che sopra le acque all’origine della creazione; la fecondità creatrice delle acque – le acque brulichino di esseri vivi, e nacquero esseri guizzanti; le acque del diluvio, la salvezza di Noè per il legno dell’arca e la colomba annunziatrice della pace; il re Melchisedech sacerdote dell’Altissimo che offrì pane e vino; il passaggio degli Ebrei attraverso il Mar Rosso; la colonna di nube “simbolo dello Spirito Santo”; le acque amare di Mara addolcite dal legno gettato da Mosè; la manna piovuta dal cielo; l’acqua che scaturisce dalla roccia toccata con la verga di Mosè; Naaman il lebbroso che per l’ordine di Eliseo si immerge nel Giordano e fu guarito; il ferro della scure caduto nell’acqua, che ritornò a galla quando Eliseo invocò il nome del Signore.

Nell’ascoltare tutta questa sequela di episodi biblici, saremmo tentati di pensare che si tratti dell’espressione del genio personale di Ambrogio, di un metodo originale riflettente la sua propria educazione letteraria, l’eredità di una scuola teologica particolare. Invece dobbiamo constatare che era il metodo universale della catechesi dei sacramenti, anzi che sant’Ambrogio l’ha ricevuto dalla tradizione: tranne qualche rara eccezione, tutti i “paradigmi” biblici adoperati da lui si leggevano già nel De baptismo di Tertulliano; li troviamo dipinti sui muri delle catacombe romane e alcuni anche nel battistero di Dura-Europos. Non solo, ma probabilmente esisteva già alla fine del IV secolo, sostanzialmente nel testo conservato sino a noi, la prex consacratoria dell’acqua della liturgia romana che presenta lo stesso affresco di storia biblica. Inoltre la maggior parte dei “tipi” sono già proposti dal Nuovo Testamento stesso, nelle Epistole di san Paolo, la Lettera agli Ebrei, le Epistole di Pietro, il Vangelo di san Giovanni.

Tutto questo ci insegna che dalla prima catechesi apostolica fin ad Ambrogio, vi è sempre stata la convinzione che i riti sacramentali, i segni istituiti da Gesù trovano la loro significazione nella Bibbia. Non sono segni convenzionali, arbitrariamente scelti; non basta neanche dire che sono segni naturali, profondamente inseriti nella psicologia umana. E’ vero che sono fino a un certo punto naturali, perché il Signore “sapeva che cosa vi è nell’uomo”; ma lo studio dei segni e dei simboli al livello delle scienze umane non potrebbe attingere al significato sacramentale: i sacramenti inseriscono l’uomo in una storia, la storia delle gesta di Dio nel suo popolo. Dio agisce sempre con le stesse meraviglie della sua misericordia, e perciò l’Antico Testamento è la pedagogia necessaria per capire l’opera di Cristo. Sant’Ambrogio dice nella sua espressione paradossale: “antiquiora sunt sacramenta Ecclesiae quam synagogae et praestantiora quam manna est”. [De mysteriis 44; cf. 49]

Orbene i neofiti ai quali si rivolge la catechesi santambrosiana non provengono dal giudaismo, ma dal paganesimo, quindi non sapevano niente affatto della Bibbia e della storia sacra prima di frequentare la Chiesa. Peggio ancora, ce ne sono, come Agostino, che provengono dalla setta manichea e che, pur avendo conosciuto qualche cosa dell’Antico Testamento, l’hanno rigettato sistematicamente. Come dunque è possibile che davanti a questi neofiti Ambrogio alluda a tanti episodi biblici, anzi faccia un commento dei testi più difficili dei salmi o del Cantico dei Cantici? E’ perché prima del battesimo hanno ricevuto un’intensa istruzione sulla storia della salvezza, con lunghe letture dei testi e il relativo commento; hanno partecipato a tutte le funzioni sacre della quaresima e, anche prima di essere competentes, hanno partecipato forse per più anni alla prima parte dell’assemblea domenicale, ascoltando le letture, il canto dei salmi, l’omelia del Vescovo. Lo stesso avviene ad esempio, nella Chiesa di Gerusalemme, lo attesta la pellegrina Egeria; e sembra che la maggior parte delle Chiese abbiano conservato, nel loro lezionario, i brani biblici quaresimali che corrispondono alla preparazione biblica dei catecumeni.

Non lasciamo perdere l’esempio di Ambrogio: certo il rigore esegetico sarà più esigente del suo, ma lo stesso principio d’intelligenza dei sacramenti cristiani dovrebbe illuminare la nostra catechesi: l’oggi della salvezza suppone la storia, storia di Cristo e storia del popolo eletto: le figure spiegano la realtà che esse precedevano e annunziavano, come insegna il Concilio Vaticano II. Bibbia e liturgia sono strettamente legate.

A.G. Martimort, «Attualità della catechesi sacramentale di sant’Ambrogio», in Mens concordet voci. Pour Mgr A.G. Martimort à l’occasion de ses 40 années d’enseignement et des 20 ans de la Constitution Sacrosanctum Concilium, Desclée, Paris 1983, 165-167.