Un ultimo post, veloce veloce

Abbiamo già scritto qualcosa sulla magnifica orazione colletta della messa del giorno di Natale (1).

Ora, come ultimo post del 2015, vogliamo solamente riprendere alcune cose, già dette da altri, e riassumerle in modo davvero «veloce»: la velocità è richiesta dalle ultime ore dell’anno civile; fra l’altro ci viene quasi suggerita da un dettaglio, che ci fa apprezzare ancora di più la costruzione di questo testo eucologico davvero, è il caso di dirlo, mirabile. Le due espressioni mirabiliter condidisti e mirabilius reformasti infatti hanno un cursus velox, ossia per un gioco particolare di accenti (la prima parola ha l’accento sulla terzultima sillaba mentre la seconda parola lo ha sulla penultima) il ritmo della recitazione assume una cadenza propria.

Velocemente, dunque, lasciamo spazio alla citazione che intendevamo fare, ad ulteriore commento della Colletta. Un parere condiviso attribuisce, in qualche modo, la paternità del testo al Papa san Leone Magno. In effetti, la vicinanza dei due termini conditor e reformator appare, con lo stesso senso teologico della preghiera, in un celebre testo del grande Leone, il Sermone 64 (2).  Ebbene, un altro grande Papa, Benedetto XVI, nella serie di catechesi proposte all’Udienza generale del mercoledì riguardanti i grandi Padri, presentò la figura di San Leone con un taglio assai interessante (3), e citò proprio il sermone in questione.

In particolare Leone Magno insegnò ai suoi fedeli – e ancora oggi le sue parole valgono per noi – che la liturgia cristiana non è il ricordo di avvenimenti passati, ma l’attualizzazione di realtà invisibili che agiscono nella vita di ognuno. E’ quanto egli sottolinea in un sermone (64,1-2) a proposito della Pasqua, da celebrare in ogni tempo dell’anno “non tanto come qualcosa di passato, quanto piuttosto come un evento del presente”. Tutto questo rientra in un progetto preciso, insiste il santo Pontefice: come infatti il Creatore ha animato con il soffio della vita razionale l’uomo plasmato dal fango della terra, così, dopo il peccato d’origine, ha inviato il suo Figlio nel mondo per restituire all’uomo la dignità perduta e distruggere il dominio del diavolo mediante la vita nuova della grazia.

qui il testo completo dell’Udienza (vale la pena leggerla!)


(1) cf. qui.

(2) «In hac autem ineffabili unitate Trinitatis, cujus in omnibus communia sunt opera atque judicia, reparationem humani generis proprie Filii persona suscepit: ut quoniam ipse est, per quem omnia facta sunt, et sine quo factum est nihil, quique plasmatum de limo terrae hominem flatu vitae rationalis animavit, idem naturam nostram ab aeternitatis arce dejectam amissae restitueret dignitati, et cujus erat conditor, esset etiam reformator: sic consilium suum dirigens in effectum, ut ad dominationem diaboli destruendam magis uteretur justitia rationis quam potestate virtutis».

(3) Pare che Benedetto abbia percepito una certa affinità con il suo illustre predecessore: «… (Leone) è anche il primo Papa di cui ci sia giunta la predicazione, da lui rivolta al popolo che gli si stringeva attorno durante le celebrazioni. E’ spontaneo pensare a lui anche nel contesto delle attuali udienze generali del mercoledì, appuntamenti che negli ultimi decenni sono divenuti per il Vescovo di Roma una forma consueta di incontro con i fedeli e con tanti visitatori provenienti da ogni parte del mondo». C’è da notare, infine, che durante il pontificato di Papa Ratzinger capitava assai spesso che, per lo straordinario numero di partecipanti all’Udienza del Mercoledì, alcuni gruppi di pellegrini venivano fatti accomodare in Basilica, dove il Papa rivolgeva alcune parole di saluto, prima di recarsi nell’Aula Paolo VI, strapiena di fedeli, dove teneva la catechesi, che i pellegrini in basilica ascoltavano dagli altoparlanti. Tali erano gli effetti della predicazione di Benedetto! Per paradosso, proprio in questi giorni è stata diffusa la stima del numero dei partecipanti alle Udienze tenute da Papa Francesco, che paiono diminuire….

“L’ora” di Barnaba…

Forse non molti presteranno attenzione al fatto che in questi giorni la Liturgia della Parola ci offre molteplici attestazioni della rilevanza della figura di Barnaba e del suo ruolo decisivo nella vita della primitiva Chiesa; eppure, la bontà di questo levita convertito, che avrà delle conseguenze impressionanti per il cristianesimo, ci è più volte annunciata, con una frequenza curiosa.

Vediamo meglio:

Mercoledi 28 aprile (feria IV, IV settimana di Pasqua), la prima lettura (At 11,19-26) ci narrava come Barnaba fu inviato dalla Chiesa di Gerusalemme ad Antiochia, alla notiza delle prime conversioni di Greci pagani. Il testo annota che l’esito positivo della missione fu possibile perché Barnaba era uomo virtuoso e pieno di Spirito Santo. Pare tuttavia che non considerò compiuta la sua missione: infattò andò a Tarso a cercare Paolo, per poi tornare ad Antiochia con lui, fermandosi in quella comunità un anno intero.

Il legame fra Barnaba e Paolo risaliva a tempo prima, quando fu proprio Barnaba ad introdurre Paolo nella comunità madre di Gerusalemme. Di nuovo spicca in questo episodio la grande apertura d’animo del nostro cipriota, che non guarda Paolo nel suo passato di persecutore, ma ha il coraggio e la fede di vederlo come fratello e futuro collaboratore. Questo lo leggiamo in Atti 9,26-31, che sarà, in quest’anno B, la prima lettura della VI domenica di Pasqua.

Così, in questi giorni fra la IV e la V settimana di Pasqua, il Lezionario liturgico ci fa vivere una sorta di “ora” di Barnaba, parafrasando una geniale intuizione di Benedetto XVI, che così parla di lui, in una sua catechesi sui collaboratori di Paolo:

Barnaba significa «figlio dell’esortazione» (At 4,36) o «figlio della consolazione» ed è il soprannome di un giudeo-levita nativo di Cipro. Stabilitosi a Gerusalemme, egli fu uno dei primi che abbracciarono il cristianesimo, dopo la risurrezione del Signore. Con grande generosità vendette un campo di sua proprietà consegnando il ricavato agli Apostoli per le necessità della Chiesa (cfr At 4,37). Fu lui a farsi garante della conversione di Saulo presso la comunità cristiana di Gerusalemme, la quale ancora diffidava dell’antico persecutore (cfr At 9,27). Inviato ad Antiochia di Siria, andò a riprendere Paolo a Tarso, dove questi si era ritirato, e con lui trascorse un anno intero, dedicandosi all’evangelizzazione di quella importante città, nella cui Chiesa Barnaba era conosciuto come profeta e dottore (cfr At 13,1). Così Barnaba, al momento delle prime conversioni dei pagani, ha capito che quella era l’ora di Saulo, il quale si era ritirato a Tarso, sua città. Là è andato a cercarlo. Così, in quel momento importante, ha quasi restituito Paolo alla Chiesa; le ha donato, in questo senso, ancora una volta l’Apostolo delle Genti. Dalla Chiesa antiochena Barnaba fu inviato in missione insieme a Paolo, compiendo quello che va sotto il nome di primo viaggio missionario dell’Apostolo. In realtà, si trattò di un viaggio missionario di Barnaba, essendo lui il vero responsabile, al quale Paolo si aggregò come collaboratore, toccando le regioni di Cipro e dell’Anatolia centro-meridionale, nell’attuale Turchia, con le città di Attalìa, Perge, Antiochia di Pisidia, Iconio, Listra e Derbe (cfr At 13-14). Insieme a Paolo si recò poi al cosiddetto Concilio di Gerusalemme dove, dopo un approfondito esame della questione, gli Apostoli con gli Anziani decisero di disgiungere la pratica della circoncisione dall’identità cristiana (cfr At 15,1-35). Solo così, alla fine, hanno ufficialmente reso possibile la Chiesa dei pagani, una Chiesa senza circoncisione: siamo figli di Abramo semplicemente per la fede in Cristo.

I due, Paolo e Barnaba, entrarono poi in contrasto, all’inizio del secondo viaggio missionario, perché Barnaba era dell’idea di prendere come compagno Giovanni Marco, mentre Paolo non voleva, essendosi il giovane separato da loro durante il viaggio precedente (cfr At 13,13; 15,36-40). Quindi anche tra santi ci sono contrasti, discordie, controversie. E questo a me appare molto consolante, perché vediamo che i santi non sono “caduti dal cielo”. Sono uomini come noi, con problemi anche complicati. La santità non consiste nel non aver mai sbagliato, peccato. La santità cresce nella capacità di conversione, di pentimento, di disponibilità a ricominciare, e soprattutto nella capacità di riconciliazione e di perdono. E così Paolo, che era stato piuttosto aspro e amaro nei confronti di Marco, alla fine si ritrova con lui. Nelle ultime Lettere di san Paolo, a Filèmone e nella seconda a Timoteo, proprio Marco appare come “il  mio collaboratore”. Non è quindi il non aver mai sbagliato, ma la capacità di riconciliazione e di perdono che ci fa santi. E tutti possiamo imparare questo cammino di santità. In ogni caso Barnaba, con Giovanni Marco, ripartì verso Cipro (cfr At 15,39) intorno all’anno 49. Da quel momento si perdono le sue tracce. Tertulliano gli attribuisce la Lettera agli Ebrei, il che non manca di verosimiglianza perché, essendo della tribù di Levi, Barnaba poteva avere un interesse per il tema del sacerdozio. E la Lettera agli Ebrei ci interpreta in modo straordinario il sacerdozio di Gesù.

Benedetto XVI, Udienza generale, 31/01/2007

per il testo completo: cf. http://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2007/documents/hf_ben-xvi_aud_20070131.html.

La cenere: il cosmo nella liturgia….

Come occasione di approfondimento della liturgia odierna, non sarà affatto tempo perso tornare a leggere una mirabile omelia di Benedetto XVI, in cui ancora una volta viene dimostrata la sua sorprendente capacità di sintesi. Riportiamo solamente un breve brano di tale omelia, indicando poi il riferimento dove si potrà leggere integralmente; offriamo, infine, il link ad un nostro post passato.

Anzitutto, la cenere è uno di quei segni materiali che portano il cosmo all’interno della Liturgia. I principali sono evidentemente quelli dei Sacramenti: l’acqua, l’olio, il pane e il vino, che diventano vera e propria materia sacramentale, strumento attraverso cui si comunica la grazia di Cristo che giunge fino a noi. Nel caso della cenere si tratta invece di un segno non sacramentale, ma pur sempre legato alla preghiera e alla santificazione del Popolo cristiano: è prevista infatti, prima dell’imposizione individuale sul capo, una specifica benedizione delle ceneri – che faremo tra poco -, con due possibili formule. Nella prima esse sono definite «austero simbolo»; nella seconda si invoca direttamente su di esse la benedizione e si fa riferimento al testo del Libro della Genesi, che può anche accompagnare il gesto dell’imposizione: «Ricordati che sei polvere e in polvere tornerai» (cfr Gen 3,19).

Fermiamoci un momento su questo passo della Genesi….

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2012/documents/hf_ben-xvi_hom_20120222_ceneri.html

https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/03/04/un-mercoledi-che-riduce-in-cenere-tante-teorie/

“Parlava correttamente”. La “correttezza” secondo la liturgia.

“Parlava correttamente”: ecco l’effetto immediato del gesto terapeutico e della parola del Signore Gesù sull’uomo sordomuto di cui parla il brano dell’evangelista Marco, indicato per la celebrazione eucaristica di oggi, Venerdì della V settimana del Tempo Ordinario (Marco 7,31-37). Certamente gli esegeti potranno offrirci le loro considerazioni e i loro approfondimenti, ma di certo anche la liturgia ci offre un’ermeneutica assai particolare e concreta per leggere quell’avverbio ὀρθῶς, in latino recte (in alcune lingue versioni nazionali: clearly, sin difficultad, correctement, correctamente).  Senza entrare nei dettagli della storia e delle varianti dei testi e dei riti, senza dubbio possiamo affermare che la liturgia ha associato questo testo alla grazia della progressiva iniziazione ai misteri cristiani, e in particolare modo alla professione di fede pre-battesimale. Nelle testimonianze antiche questo dato non è così sottolineato: in Ambrogio, ad es., assume maggiore rilevanza il senso dell’apertio aurium, ossia la capacità di un ascolto di fede e di un’intuizione profonda dei misteri della fede – non a caso nella liturgia descritta dal santo Vescovo non si tocca la bocca del catecumeno, ma piuttosto le narici, perché possa percepire il buon odore di Cristo. Nel rituale del battesimo seguito alla riforma auspicata dal Vaticano II, invece, è evidente il legame fra il testo di Marco e la professione di fede. Che è solamente auspicata, nel caso del battesimo di un bambino: Il celebrante tocca, con il pollice, le orecchie e le labbra del battezzato, dicendo: Il Signore Gesù, che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola, e di professare la tua fede, a lode e gloria di Dio Padre (Rito del Battesimo di un bambino, 121). Nel caso, invece, di un adulto che sta per completare il cammino verso il battesimo, il rito dell’Effetà avviene il sabato santo, come preparazione immediata alla Veglia battesimale. Il contesto è quello della riconsegna del Simbolo, che era stato consegnato al catecumeno precedentemente. La formula è eloquente di per sé: Quindi il celebrante, toccando col pollice l’orecchio destro e sinistro dei singoli eletti e la loro bocca chiusa, dice: Effatà, cioè: Apriti, perché tu possa professare la tua fede a lode e gloria di Dio (Rito dell’iniziazione cristiana di un adulto, 202). La professione di fede completa quindi il rito: dopo una preghiera presidenziale, gli eletti professano pubblicamente e solennemente la loro fede: “Concedi, Signore, che questi eletti, che hanno conosciuto il tuo disegno di amore e i misteri della vita del tuo Cristo, li professino con la bocca e li custodiscano con la fede e compiano sempre nelle opere la tua volontà”. Quindi gli eletti recitano il Simbolo: è questo professione di fede pubblica, personale ed esistenzialmente vissuta e testimoniata nella vita quello che nel Vangelo è detto: “parlava correttamente”. La vera fede, questa è la correttezza!
Per finire, riportiamo il testo di uno la cui parola era davvero “corretta”, imbevuta dalla tradizione perenne e allo stesso tempo sorprendentemente fresca e viva: nell’Angelus del 9 settembre 2012, Benedetto XVI così commentava il brano di Marco (da notare la ripresa del dettaglio del sospiro di Cristo, cui il tocco delle narici dell’antica liturgia faceva riferimento):

Al centro del Vangelo di oggi (Mc 7,31-37) c’è una piccola parola, molto importante. Una parola che – nel suo senso profondo – riassume tutto il messaggio e tutta l’opera di Cristo. L’evangelista Marco la riporta nella lingua stessa di Gesù, in cui Gesù la pronunciò, così che la sentiamo ancora più viva. Questa parola è «effatà», che significa: «apriti». Vediamo il contesto in cui è collocata. Gesù stava attraversando la regione detta «Decapoli», tra il litorale di Tiro e Sidone e la Galilea; una zona dunque non giudaica. Gli portarono un uomo sordomuto, perché lo guarisse – evidentemente la fama di Gesù si era diffusa fin là. Gesù lo prese in disparte, gli toccò le orecchie e la lingua e poi, guardando verso il cielo, con un profondo sospiro disse: «Effatà», che significa appunto: «Apriti». E subito quell’uomo incominciò a udire e a parlare speditamente (cfr Mc 7,35). Ecco allora il significato storico, letterale di questa parola: quel sordomuto, grazie all’intervento di Gesù, «si aprì»; prima era chiuso, isolato, per lui era molto difficile comunicare; la guarigione fu per lui un’«apertura» agli altri e al mondo, un’apertura che, partendo dagli organi dell’udito e della parola, coinvolgeva tutta la sua persona e la sua vita: finalmente poteva comunicare e quindi relazionarsi in modo nuovo.
Ma tutti sappiamo che la chiusura dell’uomo, il suo isolamento, non dipende solo dagli organi di senso. C’è una chiusura interiore, che riguarda il nucleo profondo della persona, quello che la Bibbia chiama il «cuore». E’ questo che Gesù è venuto ad «aprire», a liberare, per renderci capaci di vivere pienamente la relazione con Dio e con gli altri. Ecco perché dicevo che questa piccola parola, «effatà – apriti», riassume in sé tutta la missione di Cristo. Egli si è fatto uomo perché l’uomo, reso interiormente sordo e muto dal peccato, diventi capace di ascoltare la voce di Dio, la voce dell’Amore che parla al suo cuore, e così impari a parlare a sua volta il linguaggio dell’amore, a comunicare con Dio e con gli altri. Per questo motivo la parola e il gesto dell’«effatà» sono stati inseriti nel Rito del Battesimo, come uno dei segni che ne spiegano il significato: il sacerdote, toccando la bocca e le orecchie del neo-battezzato dice: «Effatà», pregando che possa presto ascoltare la Parola di Dio e professare la fede. Mediante il Battesimo, la persona umana inizia, per così dire, a «respirare» lo Spirito Santo, quello che Gesù aveva invocato dal Padre con quel profondo sospiro, per guarire il sordomuto.”

Fallimento degli uomini e amore di Dio, a margine di Matteo 22,1-14

Alcuni passaggi di meditazioni sorprendenti, dal tesoro delle meditazioni di papa Benedetto XVI.

Gesù nel Vangelo ci parla della risposta che viene data all’invito di Dio – rappresentato da un re – a partecipare a questo suo banchetto (cfr Mt 22,1-14). Gli invitati sono molti, ma avviene qualcosa di inaspettato: si rifiutano di partecipare alla festa, hanno altro da fare; anzi alcuni mostrano di disprezzare l’invito. Dio è generoso verso di noi, ci offre la sua amicizia, i suoi doni, la sua gioia, ma spesso noi non accogliamo le sue parole, mostriamo più interesse per altre cose, mettiamo al primo posto le nostre preoccupazioni materiali, i nostri interessi. L’invito del re incontra addirittura reazioni ostili, aggressive. Ma ciò non frena la sua generosità. Egli non si scoraggia, e manda i suoi servi ad invitare molte altre persone. Il rifiuto dei primi invitati ha come effetto l’estensione dell’invito a tutti, anche ai più poveri, abbandonati e diseredati. I servi radunano tutti quelli che trovano, e la sala si riempie: la bontà del re non ha confini e a tutti è data la possibilità di rispondere alla sua chiamata.

[Omelia Domenica 9 ottobre 2011, Lamezia Terme (Visita pastorale a Lamezia Terme e a Serra San Bruno); per l’intero testo cf. http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2011/documents/hf_ben-xvi_hom_20111009_lamezia-terme_it.html%5D

Se la prima Lettura esalta la fedeltà di Dio alla sua promessa, il Vangelo con la parabola del banchetto nuziale ci fa riflettere sulla risposta umana. Alcuni invitati della prima ora hanno rifiutato l’invito, perché attratti da diversi interessi; altri hanno persino disprezzato l’invito del re provocando un castigo che s’è abbattuto non solo su di loro, ma sull’intera città. Il re però non si scoraggia e invia i suoi servi a cercare altri commensali per riempire la sala del suo banchetto. Così il rifiuto dei primi ha come effetto l’estensione dell’invito a tutti, con una predilezione speciale per i poveri e i diseredati. E’ quanto è avvenuto nel Mistero pasquale: lo strapotere del male è sconfitto dall’onnipotenza dell’amore di Dio. Il Signore risorto può ormai invitare tutti al banchetto della gioia pasquale, fornendo Egli stesso ai commensali la veste nuziale, simbolo del dono gratuito della grazia santificante.

[Omelia Domenica 12 ottobre 2008, Cappella papale per la Canonizzazioni di beati; per il testo completo, cf. http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2008/documents/hf_ben-xvi_hom_20081012_canonizzazioni_it.html%5D

Ma, come sempre a partire dalla caduta di Adamo, il fallimento degli uomini diventa l’occasione per un impegno ancora più grande dell’amore di Dio nei nostri confronti.

[Omelia Domenica 16 marzo 2008, Delle Palme; per il testo completo, cf. http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2008/documents/hf_ben-xvi_hom_20080316_palm-sunday_it.html]

Vetus Ordo contro Novus Ordo: nihil novi sub sole

Nella liturgia, come in tanti altri ambiti, la storia viene in soccorso, impedendo di cadere in assolutizzazioni o in reazioni spropositate ed emozionali, che allontanano dalla lucidità necessaria per affrontare questioni delicate e importanti.
Secondo alcuni, ad esempio, la situazione della liturgia dopo la riforma avviata dal Concilio Vaticano II sarebbe giunta ad un livello di decomposizione tale da costituire un unicum assolutamente nuovo e sconvolgente. E non mancano, a proposito, zelanti paladini di una restaurazione dell’antico, come sola garanzia della preservazione della vera e ortodossa liturgia.
Senza negare i problemi e le difficoltà di oggi, può essere utile e consolante rileggere alcune pagine della storia liturgica. Un esempio preclaro può essere la vicenda della crisi della penitenza cosiddetta canonica e la sorprendente diffusione della penitenza tariffata. Si tratta di un momento di evidente discontinuità formale fra due modi di amministrare la riconciliazione. Senza entrare nelle complesse questioni relative, ci interessava far notare le reazioni di fronte alla novità. Mentre alcune chiese locali adottarono senza particolari problemi un sistema penitenziale che provvidenzialmente rimediava a una prassi ormai sterile e impraticabile – la penitenza canonica appunto – altri pastori, del tutto legittimi e ugualmente autorevoli, si opposero con veemenza, esplicitata in modo assai duro anche ad un livello gerarchico elevato, quale le formulazioni canoniche di un Concilio locale. Ci riferiamo al terzo concilio di Toledo (589), capitale del regno visigotico:

«Abbiamo saputo che, in alcune chiese di Spagna, i fedeli fanno penitenza dei loro peccati non secondo la maniera canonica (non secundum canones), ma in un modo scandaloso (foedissime): ogni volta che hanno peccato chiedono di essere riconciliati dal sacerdote. Per reprimere una così esecranda audacia (pro coercendo tam execrabili praesumptione…), la nostra santa assemblea ha decretato che si dia la penitenza secondo la forma canonica degli antichi…» (1)

L’insolito rigore espresso in tale canone comunque non fermò la diffusione della penitenza tariffata e la diffusione di quel particolare genere di “libro liturgico” costituito dai libri penitenziali, una sorta di prontuari ad uso dei confessori, che regolava con scrupolo una corrispondenza fra peccato e penitenza (digiuni, elemosine, pratiche di pietà e mortificazioni varie). Nella progressiva copiatura e diffusione di tali libri non mancarono grossolani errori di attribuzione e sviste, generando talvolta confusione e incertezza, nel sanzionare un peccato o nell’offrire la possibilità di commutare la penitenza prescritta con altre forme di soddisfazione. Un sussulto dello sdegno per questa forma di riconciliazione si ebbe così, ad esempio, nel Concilio di Parigi (829):

«A tutti noi è sembrato necessario che ogni vescovo faccia cercare nella sua diocesi questi opuscoli e li faccia bruciare!» (2).

Grazie a Dio, seppure non siano mancate – e continuino a non mancare, a dispetto di quanto desiderava Benedetto XVI – accuse pesanti verso il cosiddetto Novus Ordo, finora non si è arrivati, almeno per quanto ne sappiamo, ad invocare il rogo dei nuovi libri liturgici. Tuttavia la riconciliazione liturgica ancora sembra lontana, e il possibile mutuo arricchimento è impedito da prese di posizioni e arroccamenti che dimenticano le lezioni della storia. Le responsabilità non dipendono solo da una parte.

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(1) Concilio di Toledo III, cit. in C. Vogel, Il peccatore e la penitenza nel medioevo, Leumann (TO) 1988, 282.

(2) Concilio di Parigi, can. 82; cit. in Vogel, Il peccatore e la penitenza nel medioevo, 160.

Cf. anche A. Santantoni, La penitenza. Una pagina di storia antica utile per i nostri giorni, Leumann (TO) 1983.

Cf. http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/letters/2007/documents/hf_ben-xvi_let_20070707_lettera-vescovi_it.html

“Bestiario salmico”: dal bue del nord-africa all’orso delle alpi.

L’ufficio delle Letture propone per il lunedì della quarta settimana la recitazione del salmo 72[73].

Fra le varie immagini che descrivono lo sgomento del giusto di fronte al dilagare prospero del male, nel versetto 22 si fa riferimento ad una generica bestia, a significare la difficoltà nel comprendere tale mistero. “Io ero stolto e non capivo, davanti a te stavo come una bestia”. Ma proprio quello “stare davanti” a Dio, anche se “come bestia”, apre poi il cuore alla novità di Dio. Anche se in modo non tanto adeguato, anzi talvolta “bestiale”, mettersi comunque alla presenza del Signore, permette a Dio di operare e di cambiare il nostro cuore. In questo senso potrebbe intendersi il senso della preghiera oraria e della sua “obbligatorietà”. A prescindere dalle sensazioni personali, dalla “voglia” o dal proprio “sentire”, la fedeltà al ciclo delle Ore di preghiera ci aiuta ad uscire dalla nostra autoreferenzialità, facendoci ritornare, così come siamo, con la nostra fatica e i nostri pesi, e talvolta con le nostre arrabbiature e resistenze, perfino con la nostra carnalità da animaletti, davanti a Dio. E questo guarisce poco a poco, ci placa e ci apre all’intimità con il Signore e con il suo sapiente consiglio. Se aspettassimo sempre il migliore contesto e l’ottimale disposizione interiore, la preghiera sarebbe certamente cosa rara! Al contrario, il cursus quotidiano di preghiera, che talvolta potrebbe sembrare oltremodo pesante e faticoso – e irrispettoso delle nostre personali sensazioni ed emozioni -, risulta ben più sapiente dei nostri pensieri.
Non si voleva però offrire personali considerazioni, quanto introdurre un’illuminatissima e personale attualizzazione del salmo, espressa da Benedetto XVI nel corso del viaggio apostolico nella sua Baviera, nel settembre del 2006. La bestia del salmo 72 non è più e solo il bue, lo “iumentum” da traino usato per arare i campi, ma pure l’orso di san Corbiniano, la singolare cavalcatura con cui il santo si presentò a Roma.
Un bestiario salmico che si apre dunque a nuove interpretazioni, e che rende assai gustosa la preghiera…
Ma ecco la meditazione del Papa:

Forse mi permettete di tornare in questa occasione su un pensiero che, nelle mie brevi memorie, ho sviluppato nel contesto della mia nomina ad Arcivescovo di Monaco e Frisinga. Dovevo divenire successore di san Corbiniano e lo sono diventato. Della sua leggenda mi ha affascinato fin dalla mia infanzia la storia, secondo la quale un orso avrebbe sbranato l’animale da sella del santo, durante il suo viaggio sulle Alpi. Corbiniano lo rimproverò duramente e, come punizione, gli mise sul dorso tutto il suo bagaglio affinché lo portasse fino a Roma. Così l’orso, caricato col fardello del santo, dovette camminare fino a Roma, e solo lì da Corbiniano fu lasciato libero di andarsene.
Quando, nel 1977, mi trovai davanti alla difficile scelta di accettare o no la nomina ad Arcivescovo di Monaco e Frisinga che mi avrebbe strappato alla mia consueta attività universitaria portandomi verso nuovi compiti e nuove responsabilità, riflettei molto. E proprio allora mi ricordai di questo orso e dell’interpretazione dei versetti 22 e 23 del Salmo 72 [73] che sant’Agostino, in una situazione molto simile alla mia nel contesto della sua ordinazione sacerdotale ed episcopale ha sviluppato e, in seguito, espresso nei suoi sermoni sui Salmi. In questo Salmo, il salmista si chiede perché spesso ai malvagi di questo mondo le cose vanno tanto bene e perché, invece, a molte persone buone le cose vanno così male. E allora il Salmista dice: ero stolto per come la pensavo; davanti a te stavo come una bestia, ma poi sono entrato nel santuario e ho compreso che proprio nelle mie difficoltà ero molto vicino a te e che tu eri sempre con me. Agostino, con amore, ha ripreso spesso questo Salmo e, vedendo nell’espressione “davanti a te stavo come una bestia” (iumentum in latino) un riferimento all’animale da tiro che allora veniva usato in Nordafrica per lavorare la terra, ha riconosciuto in questo “iumentum” se stesso come bestia da tiro di Dio, vi si è visto come uno che sta sotto il peso del suo incarico, la “sarcina episcopalis”. Aveva scelto la vita dell’uomo di studio e, come dice in seguito, Dio lo aveva chiamato a fare “l’animale da tiro”, il bravo bue che tira l’aratro nel campo di Dio, che fa il lavoro pesante, che gli viene assegnato. Ma poi riconosce: come l’animale da tiro è molto vicino al contadino, sotto la cui guida lavora, così io sono vicinissimo a Dio, perché così lo servo direttamente per l’edificazione del suo Regno, per la costruzione della Chiesa.
Sullo sfondo di questo pensiero del Vescovo di Ippona, l’orso di san Corbiniano mi incoraggia sempre di nuovo a compiere il mio servizio con gioia e fiducia – trent’anni fa come anche adesso nel mio nuovo incarico – dicendo giorno per giorno il mio “sì” a Dio: Sono divenuto per te come una bestia da soma, ma proprio così “io sono con te sempre” (Sal 72[73], 23). L’orso di san Corbiniano, a Roma, fu lasciato libero. Nel mio caso, il “Padrone” ha deciso diversamente.

(www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2006/september/documents/hf_ben-xvi_spe_20060909_speech-mariensaeule_it.html)

Omelia e mistagogia: un binomio tutto da riscoprire, insieme ad un Maestro.

Più volte abbiamo evidenziato come Benedetto XVI, nella sua predicazione, si lasciasse ispirare non solo dai testi biblici proclamati nelle particolari celebrazioni ma anche da tutto il contesto dell’azione liturgica: altri testi (antifone, preghiere, etc.) come pure gli stessi segmenti rituali (gesti e simboli). I suoi interventi omiletici non erano isolati e astratti dall’intera azione celebrativa, ma riuscivano spesso ad agganciare in modo mirabile l’insegnamento astratto, anche quello catechetico e morale, alla liturgia in atto.
Un aspetto, questo, assai apprezzabile ed esemplare; eppure non del tutto compreso e apprezzato. E’ ben più facile mettere insieme qualche elemento di esegesi a considerazioni morali edificanti, piuttosto che lasciare che sia la liturgia stessa (Parola e rito) ad informare la predicazione. C’è un metodo da acquisire, uno spirito di cui essere intrisi e una cultura liturgica da cui essere abbeverati.
Per questo paiono assai appropriate le considerazioni sulle Omelie di inizio Pontificato che abbiamo trovato nel Volume curato dall’Ufficio delle Celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice sull’Inizio del ministero petrino del Vescovo di Roma Benedetto XVI, che riproduciamo parzialmente qui sotto.

Nelle omelie che Benedetto XVI ha tenuto nella celebrazione eucaristica di inizio pontificato, il 24 aprile 2005, e in quella celebrata il7 maggio successivo nella Basilica di San Giovanni in Laterano per l’insediamento sulla Cattedra del Vescovo di Roma, ci viene offerto un metodo di predicazione omiletica radicato nella tradizione e forse oggi un po’ trascurato: si tratta del metodo mistagogico. L’omelia mistagogia ha lo scopo di aiutare a vivere la celebrazione liturgica come comunione e partecipazione alla salvezza avvenuta nella storia una sola volta in Cristo. E’ aderente alla Parola proclamata non malgrado il rito celebrato, ma proprio a causa di questo. La mistagogia infatti è prima di tutto il compimento di un’azione sacramentale, perché è il sacramento in quanto celebrato a istituire il rapporto tra l’assemblea e il Mistero stesso di Dio. Il carattere singolare delle omelie mistagogiche è dato da una reciproca interazione: da un lato in esse si fa riferimento alla Scrittura perché è questa che illumina il senso e la risorsa dell’azione sacramentale, dall’altro però l’attenzione è rivolta a quello che accade nella celebrazione perché è in essa che si attua in modo eminente la verità e la potenza della Scrittura. La domanda di partenza del mistagogo è questa: che cosa accade per noi nell’atto liturgico che stiamo compiendo? Questo metodo è particolarmente evidente nell’esperienza dei primi secoli della Chiesa, quando i padri applicavano alla liturgia la tipologia biblica, in modo da far emergere come e prché la celebrazione liturgica partecipi alla salvezza narrata.
Un’omelia mistagogica riesce cosi a rivelare che l’evento di salvezza proclamato nelle letture del giorno non rimane racchiuso nel passato, ma si attua nel presente in forza della stessa celebrazione liturgica. Si capisce allora l’importanza di prendere come punto di partenza dell’omelia le azioni della celebrazione che si sta compiendo. Il Papa, nelle due omelie tenute in occasione delle celebrazioni con le quali ha dato inizio al suo ministero pastorale al servizio della Chiesa, percorre questa via in modo magistrale.
Una delle preoccupazioni che maggiormente assilla il predicatore è quella di far percepire l’attualità dalla Parola proclamata. Per riuscire nell’intento si percorre generalmente la via breve dell’attualizzazione della Parola, facendo riferimento a fatti dell’attualità e fornendo esempi di applicazioni della Scrittura alla vita. Questa modalità raggiunge lo scopo in modo solo apparente e molto fragile, in quanto, non confidando nella forza della Parola stessa, rischia di renderla insignificante. Attribuisce infatti maggiore forza persuasiva ad espedienti che portano l’attenzione su ciò che non è veramente essenziale, invece di lasciar intendere che solo la Parola è degna di fede, sapiente e potente e perciò affidabile. Nell’esperienza cristiana si parla di attualità sempre e solo a partire dalle azioni compiute da Dio nella storia, solo queste infatti inscrivono nel tempo una reale novità. Tali azioni sono giustamente qualificate come “eventi”. Tra le tante e diverse attività compiute dalla Chiesa, sono soprattutto le azioni liturgiche a meritare di essere chiamate “eventi”. Ogni volta che la Chiesa celebra un sacramento, infatti, accade un “nuovo evento”, si compie cioè l’opera di Dio per la salvezza dell’uomo. Nuovo evento non significa naturalmente che ci sia qualcosa di oltre e di più della salvezza realizzata in modo determinante e definitivo in Gesù Cristo, ma piuttosto che quell’unica salvezza, che ha valore escatologico, opera nel nostro oggi qualcosa di realmente nuovo. Il metodo mistagogico conferisce attualità all’omelia perché, pur essendo un atto di parola, fa sì che in essa tutto venga ricondotto e finalizzato alla relazione con l’evento cristologico e lo fa creando nell’assemblea la possibilità di porsi con fede davanti all’evento del donarsi di Dio in Cristo Gesù. […] Nelle omelie dell’inizio del pontificato, risulta molto evidente che il conferimento dell’autorità alla persona del Papa è un atto di Dio e nello stesso tempo che la Chiesa è coinvolta in tale esperienza e vi partecipa proprio perché riunita come comunità orante, comunità che riceve e vive la sua profonda natura accettando di lasciarsi convocare per compiere l’atto della preghiera. Affermare che la percezione del senso del ministero petrino è esito del rito e forse dire troppo, ma non si può negare di rilevare che la celebrazione concorre in modo insostituibile alla riappropriazione della verità di quanto accade. Il rito non è perciò una semplice applicazione e rappresentazione di una verità già acquisita per altra via, ma, in quanto atto di preghiera, è verità in atto: non ha semplice valore espressivo ma ha forza impressiva.
Il riferimento al canto liturgico delle Litanie dei Santi, che il Papa richiama proprio all’inizio dell’omelia del 24 aprile, segnala la consapevolezza che “il compito inaudito”, che supera ogni capacità umana, e che il Papa è chiamato ad assumere, non può essere da lui compiuto con le sue sole forze. E’ il gesto rituale appena compiuto che porta il Papa ad affermare: “non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare da solo”. L’intervento di Dio passa per la comunione dei Santi, che l’assemblea riunita sperimenta mentre compie l’atto di intercessione nel canto orante.[…] Risulta evidente quanto una sequenza rituale, nel nostro caso il canto delle Laudes Regiae come rito di ingresso della Messa di inizio pontificato, concorra ad illuminare il senso del ministero petrino, che è appunto quello di non portare avanti un programma o idee personali, bensì di mettersi “in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore, e di lasciarsi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa”. Un altro elemento che dice il senso vero dell’attualità dell’omelia, e che è tipico delle omelie mistagogiche, consiste nel fare appello alla concreta assemblea riunita perché, insieme a colui che presiede, si ponga con fede davanti al mistero che nella celebrazione si fa dono per tutti. Proprio perché l’assemblea ha cantato le Litanie dei Santi, “voi tutti avete appena invocato l’intera schiera dei Santi”, ad essa si può ricordare: “Noi tutti siamo la comunità dei Santi, noi battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, noi che viviamo del dono della carne e del sangue di Cristo, per mezzo del quale Egli ci vuole trasformare”. Cosi facendo, l’omelia supera la tentazione di ridursi a semplice spiegazione, a pura illustrazione di un concetto, che può esimersi dal coinvolgimento dei soggetti. L’omelia mistagogica, invece, ha come prima finalità quella di coinvolgere i soggetti nell’atto di fede, nel quale atto consiste la sua vera attualità. L’esigenza vera di attualità è che la parola dell’omelia si riferisca a quell’atto che è la fede. Mentre l’insegnamento mira al sapere, la predicazione mira alla confessione della fede.

Nel metodo mistagogico, il punto di partenza sono le azioni liturgiche che si stanno compiendo. L’omelia mistagogica fa proprio questo metodo, il suo carattere singolare è appunto quello di lasciarsi informare e plasmare da tali azioni, e di assumerne quasi l’andamento: in tal modo diviene essa stessa azione liturgica. […] L’omelia, perciò, non può e non deve abbandonare l’azione celebrativa per sviluppare un discorso a proposito di qualsiasi cosa, ma appartiene alla sua natura di lasciarsi coinvolgere e trascinare nel movimento istituito dal rito stesso. L’omelia è una parola che ha la forma del rito. Nella sua omelia del 24 aprile il Papa Benedetto XVI, in perfetta sintonia con questo metodo, ci fa ripercorrere lo stesso cammino che si sviluppa nella celebrazione, la sua parola scorre al ritmo del rito, seguendone fedelmente la trama. […] Risulta molto chiara la corrispondenza tra la sequenza rituale e il percorso dell’omelia papale. Il Papa Benedetto XVI attua esemplarmente quanto affermato dalla Costituzione conciliare sulla Liturgia Sacrosanctum Concilium, la quale affermava che l’omelia è “pars actionis liturgicae…pars ipsius liturgiae”. Il Concilio richiamava la necessità di non pensare all’omelia come ad un elemento autonomo, quasi un contenuto di pensiero elaborato a monte e già in sé consistente, semplicemente da inserire dentro il contesto celebrativo, bensì come ad un elemento strutturale dell’atto liturgico stesso, partecipe della sua natura e delle sue caratteristiche. […] “L’omelia fa parte della liturgia, ed è vivamente raccomandata: è infatti necessaria per alimentare la vita cristiana. Essa deve consistere nella spiegazione o di qualche aspetto delle letture della Sacra Scrittura, o di un altro testo dell’Ordinario o del Proprio della messa del giorno, tenuto conto sia del Mistero che viene celebrato, sia delle particolari necessità di chi ascolta”. Questo testo è stato generalmente interpretato nel modo seguente: occorre ripercorrere le letture alla ricerca di una tema unificante, nel tentativo di offrire prima un insegnamento, per poi passare ad alcune applicazioni per la morale e per la vita. Quest’interpretazione rivela tutta la sua fragilità: da una parte induce a pensare alla Parola di Dio come a qualcosa che non è già in sé eloquente per la vita dell’uomo; dall’altra assolutizza il testo proclamato, dimenticando tutti gli altri elementi del contesto celebrativo. Si predica il testo, attraverso un’esegesi erudita, senza annunciare, attraverso il testo, la realtà del testo, cioè la presenza attuale di Dio nel mistero. Il contesto impedisce una codificazione del testo, e lo restituisce alla sua vera provenienza e destinazione: la Parola viene da Dio per attuare la nostra comunione con Lui. […] Cosa emerge, dunque, nel modo di spiegare le Scritture praticato da Benedetto XVI? In fondo una cosa semplicissima: l’adesione ferma alle regole ermeneutiche che la tradizione patristica ci ha trasmesso. Le possiamo richiamare così: in primo luogo la percezione che tutta la Bibbia costituisce un unico messaggio per cui si può illuminare un testo con altri testi anche se non sono dello stesso autore o dello stesso tempo. In secondo luogo tutta la Bibbia viene letta in rapporto con la presenza viva di Gesù risorto: non si tratta di capire alcune idee, ma di vivere una comunione che il dialogo della fede e l’atto della preghiera rende personale e ricca. Tutto questo si collega con il cammino attuale dell’uomo per cui le Scritture illuminano quello che oggi la Chiesa vive, soffre e proclama. Unità della Bibbia; centralità del mistero di Cristo; attualità del messaggio. Il Papa si muove su questa linea chiarissima che conosce certo gli strumenti di un’esegesi storico critica, ma li usa all’interno di un’esperienza ecclesiale di fede di cui il contesto delle azioni liturgiche costituisce una sicura garanzia. […] Chiare sono anche le finalità dell’omelia così come sono enucleate nei Praenotanda dell’Ordo lectionum Missae: “Con essa (colui che presiede) guida i fratelli a gustare la Sacra Scrittura, apre il cuore dei fedeli al rendimento di grazie per i fatti mirabili da Dio compiuti; alimenta la fede dei presenti per ciò che riguarda quella parola che nella celebrazione, sotto l’azione dello Spirito Santo, si fa sacramento; li prepara infine ad una fruttuosa comunione e li esorta ad assumersi gli impegni della vita cristiana”. Per far gustare la Parola, aprire il cuore alla lode e alimentare la fede, l’omelia non può limitarsi ad essere discorso intorno ad un tema da cui si traggono conseguenze per la vita. E’ difficile che per questa via si giunga allo “stupore eucaristico”, e sappiamo bene “solo lo stupore conosce”. […] Il Papa ci ha restituito la pertinenza dello stupore anche in quell’atto celebrativo che e l’omelia, le ha permesso di parlare il linguaggio della sua casa natale. Non ha utilizzato la liturgia, neppure quella inaugurale del suo ministero, non si è servito di essa come di un mezzo, di un contenitore neutro, per presentare il proprio programma. Con decisa semplicità, si è voluto incamminare nel suo servizio petrino con il passo della liturgia, con le sue parole non ha mortificato né la forza del messaggio evangelico né la sua ispirazione. Piuttosto ha coinvolto i fedeli nell’avventura a cui il Signore lo ha chiamato. Un’avventura iniziata con il passo della liturgia, che è il passo della Chiesa. Un passo che ha condotto e sta conducendo la Chiesa a vivere un momento di grazia e di vitalità spirituale.

G. Busani, “Le due omelie mistagogiche”, in Ufficio delle Celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice, Inizio del ministero petrino del Vescovo di Roma Benedetto XVI, Città del Vaticano 2006, 443-457.

B&B: Bonifacio e Benedetto….

Se è vero, ed è vero, che l’omelia è parte della liturgia, allora non ci deve essere estranea l’attenzione a questo segmento della celebrazione. Le grandi omelie dei Padri, considerato il loro valore dottrinale e spirituale, sono diventate – giustamente – oggetto di studi critici, che ne hanno fatto risaltare i contenuti, le fonti, i riferimenti alla Scrittura. Ma anche ai nostri giorni non sono mancati Pastori, le cui omelie sono veri e propri tesori, tutti da gustare e da studiare: Benedetto XVI, nella predicazione liturgica, è stato un maestro eccellentissimo. Come non conservare nella memoria l’omelia di inizio del suo pontificato?
Questa mattina, pregando l’Ufficio di san Bonifacio – un santo che Benedetto XVI sicuramente conosce molto bene, essendo questo martire così legato alla storia del cristianesimo germanico – è stato naturale fare alcune associazioni, fra il testo patristico proposto dalla Liturgia delle Ore e l’omelia di Papa Benedetto. Che l’uno abbia ispirato l’altro? O, semplicemente, si tratta di una coincidenza, che mostra tuttavia la sintonia e la grandezza di due Pastori?
Ecco i testi:

Stiamo saldi nella giustizia e prepariamo le nostre anime alla tentazione per ottenere l’appoggio di Dio e diciamogli: “O Signore, tu sei stato per noi rifugio di generazione in generazione” (Sal 89,1). Confidiamo in lui che ha messo sulle nostre spalle questo peso. Ciò che noi da soli non siamo capaci di portare, portiamolo con il suo aiuto. Egli è onnipotente e dice: “Il mio giogo è dolce e il mio carico leggero (Mt 11, 30). Stiamo saldi nella battaglia fino al giorno del Signore, perché ci sono venuti addosso giorni di angustia e di tribolazione. Moriamo, se Dio vorrà, per le sante leggi dei nostri padri, per poter conseguire con essi l’eredità eterna. Non siamo dei cani muti, non siamo spettatori silenziosi, non siamo mercenari che fuggono il lupo, ma pastori solleciti e vigilanti sul gregge di Cristo. Predichiamo i disegni di Dio ai grandi e ai piccoli, ai ricchi e ai poveri. Annunziamoli a tutti i ceti e a tutte le età finché il Signore ci darà forza…
(Dalle Lettere di San Bonifacio, lett. 78; MGH, Epistolae, 3,352.354)

Quanto ci siamo sentiti abbandonati dopo la dipartita di Giovanni Paolo II! Il Papa che per ben 26 anni è stato nostro pastore e guida nel cammino attraverso questo tempo. Egli varcava la soglia verso l’altra vita – entrando nel mistero di Dio. Ma non compiva questo passo da solo. Chi crede, non è mai solo – non lo è nella vita e neanche nella morte. In quel momento noi abbiamo potuto invocare i santi di tutti i secoli – i suoi amici, i suoi fratelli nella fede, sapendo che sarebbero stati il corteo vivente che lo avrebbe accompagnato nell’aldilà, fino alla gloria di Dio. Noi sapevamo che il suo arrivo era atteso. Ora sappiamo che egli è fra i suoi ed è veramente a casa sua. Di nuovo, siamo stati consolati compiendo il solenne ingresso in conclave, per eleggere colui che il Signore aveva scelto. Come potevamo riconoscere il suo nome? Come potevano 115 Vescovi, provenienti da tutte le culture ed i paesi, trovare colui al quale il Signore desiderava conferire la missione di legare e sciogliere? Ancora una volta, noi lo sapevamo: sapevamo che non siamo soli, che siamo circondati, condotti e guidati dagli amici di Dio. Ed ora, in questo momento, io debole servitore di Dio devo assumere questo compito inaudito, che realmente supera ogni capacità umana. Come posso fare questo? Come sarò in grado di farlo? Voi tutti, cari amici, avete appena invocato l’intera schiera dei santi, rappresentata da alcuni dei grandi nomi della storia di Dio con gli uomini. In tal modo, anche in me si ravviva questa consapevolezza: non sono solo. Non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare da solo. La schiera dei santi di Dio mi protegge, mi sostiene e mi porta. […] Cari amici – in questo momento io posso dire soltanto: pregate per me, perché io impari sempre più ad amare il Signore. Pregate per me, perché io impari ad amare sempre più il suo gregge – voi, la Santa Chiesa, ciascuno di voi singolarmente e voi tutti insieme. Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi. Preghiamo gli uni per gli altri, perché il Signore ci porti e noi impariamo a portarci gli uni gli altri.
(http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2005/documents/hf_ben-xvi_hom_20050424_inizio-pontificato_it.html)

Ancora su “geografia” liturgica: il parere di Benedetto XVI

La profondità del Magistero di Benedetto XVI era il risultato di una vita di studio e di meditazione: è impressionante la facilità che aveva nel far riemergere, anche in discorsi a braccio e quasi estemporanei, tesori di sapienza depositati nel suo cuore.

Ecco con che equilibrio e maestria parla di quella sorta di geografia liturgica di cui abbiamo dato un esempio nel post precedente [https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/05/01/una-curiosa-geografia-biblico-liturgica-lottava-di-pasqua-a-roma/]

Facciamo notare che le parole che seguono sono state pronunciate senza la preparazione di un testo scritto, ma ex abundantia cordis…

….Questo punto è importante anche riguardo al Concilio. Non bisogna vivere – come ho detto prima di Natale alla Curia Romana – l’ermeneutica della discontinuità, ma vivere l’ermeneutica del rinnovamento, che è spiritualità della continuità, dell’andare avanti in continuità. Questo mi sembra molto importante anche riguardo alla Liturgia. Prendo un esempio concreto che mi è venuto proprio oggi con la breve meditazione di questo giorno. La “Statio” di questo giorno, giovedì dopo il Mercoledì delle Ceneri, è san Giorgio. Corrispondenti a questo santo soldato, una volta vi erano due letture su due santi soldati. La prima parla del re Ezechia, che, malato, è condannato a morte e prega il Signore piangendo: dammi ancora un po’ di vita! E il Signore è buono e gli concede ancora 17 anni di vita. Quindi una bella guarigione e un soldato che può riprendere di nuovo in mano la sua attività. La seconda è il Vangelo che narra dell’ufficiale di Cafarnao con il suo servo malato. Abbiamo così due motivi: quello della guarigione e quello della “milizia” di Cristo, della grande lotta. Adesso, nella Liturgia attuale, abbiamo due letture totalmente diverse. Abbiamo quella del Deuteronomio: “Scegli la vita”, e il Vangelo: “Seguire Cristo e prendere la croce su di sé”, che vuol dire non cercare la propria vita ma donare la vita, ed è una interpretazione di cosa vuol dire “scegli la vita”. Devo dire che io ho sempre molto amato la Liturgia. Ero proprio innamorato del cammino quaresimale della Chiesa, con queste “chiese stazionali” e le letture collegate a queste chiese: una geografia di fede che diventa una geografia spirituale del pellegrinaggio col Signore. Ed ero rimasto un po’ male per il fatto che ci avessero tolto questo nesso tra la “stazione” e le letture. Oggi vedo che proprio queste letture sono molto belle ed esprimono il programma della Quaresima: scegliere la vita, cioè rinnovare il “Sì” del Battesimo, che è proprio scelta della vita. In questo senso, c’è un’intima continuità e mi sembra che dobbiamo impararlo da questo che è solo un piccolissimo esempio tra discontinuità e continuità. Dobbiamo accettare le novità ma anche amare la continuità e vedere il Concilio in questa ottica della continuità. Questo ci aiuterà anche nel mediare tra le generazioni nel loro modo di comunicare la fede.

Discorso al Clero romano, 2 marzo 2006

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2006/march/documents/hf_ben-xvi_spe_20060302_roman-clergy_it.html