Un’antifona “stagionale”

La ricchezza e la varietà della liturgia sono davvero inesauribili. E non si finirà mai di esprimere la gratitudine per questo enorme tesoro che abbiamo ereditato.

Il dettaglio che questa volta, un volta ancora, ci ha mosso tali pensieri e sentimenti, lo abbiamo trovato nell’ufficio dei Primi Vespri della solennità dell’Annunciazione del Signore. In particolare nella prima antifona salmica.

Egrediétur virga de radíce Iesse, et flos de radíce ascéndet, et requiéscet super eum Spíritus Dómini (1). Niente di strano, fin qui. Si tratta infatti di una citazione dei versetti 1 e 2 del capitolo 11 del profeta Isaia. Un testo che la liturgia usa varie volte, in testi dalle diverse caratteristiche. Ad esempio, come lettura breve, nelle Lodi del sabto della prima settimana di Avvento (Is 11,1-3a), oppure, nel Messale, come antifona di Introito nel formulario del 20 dicembre: Egredietur virga de radice Iesse, et replebitur omnis terra gloria Domini, et videbit omnis caro salutare Dei (un testo un poco più complesso, con una citazione articolata di tre versetti – Is 11,1; Is 40,5; Lc 3,6).

E’ interessante notare, però, come siano normalmente tradotti in italiano i primi due versetti di Isaia 11: Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore,… così la lettura breve segnalata sopra;  così l’antifona di ingresso del 20 dicembre: Dalla radice di Iesse spunterà un germoglio, tutta la terra sarà piena della gloria del Signore, e ogni uomo vedrà la salvezza di Dio.

Invece, nel nostro caso, il curatore della versione italiana della liturgia delle Ore, si prende una licenza poetica. Il 25 marzo, nel nostro emisfero, siamo in primavera: ecco la gemma, che poi fiorirà. La tradizione liturgica e la Sacra Scrittura qui coinvolgono anche il cosmo, la natura che si sta risvegliando. Questa licenza ci pare del tutto logica e consentita, e ben venga questa unica e particolare traduzione, attinente alla liturgia , e alla teologia, della solennità e, mirabilmente, pure alla stagione in cui la si celebra. Del resto, tornando al tempo liturgico per un attimo messo da parte dalla ricorrenza mariana, questi sono i giorni in cui tutto rifiorisce (cf. qui).

 

Ancora sul Salmo 86. Il mirabile tessuto di interpretazioni convergenti

I tempi liturgici cosiddetti “forti” sono assai interessanti agli occhi di un liturgista, perché in essi si contempla in modo eccelso la sapiente attenzione e maestria con le quali la tradizione della madre Chiesa li ha cesellati. L’ottava di Natale rimane, in questo senso, esemplare. Già ne avevamo mostrati alcuni aspetti, soffermandoci sulla salmodia (cf. qui). Ora ne riprendiamo un dettaglio, continuando le riflessioni sull’uso del Salmo 86, di cui abbiamo detto qualcosa nel post precedente.

Così, prima di riporre il primo volume della Liturgia delle Ore – da domani riprende il Tempo Ordinario -, ne sfogliamo di nuovo le pagine, ritornando appunto all’Ottava di Natale: nello spazio di pochi giorni, il salmo in questione viene pregato due volte, entrambe nell’Ufficio delle Letture, a differenza del corso normale del salterio distribuito nelle quattro settimane, in cui il Salmo 86 è usato – come notavamo – per le Lodi.

La prima occorrenza è prevista nella domenica dopo il Natale, festa della Santa Famiglia. Essa si spiega con il fatto che la salmodia è tratta dal comune della Beata Vergine Maria, che prevede come terzo salmo dell’Ufficio appunto il nostro salmo. Sul perché quest’ultimo sia stato scelto per il comune delle feste mariane si dirà qualcosa dopo. Per il momento notiamo che l’antifona corrispondente è strettamente legata alla festa della Santa Famiglia, senza avere particolari aderenze al salmo: Giuseppe si alzò nella notte, prese con sé il bambino e sua madre, e si rifugiò in Egitto (Consurgens Ioseph accepit Puerum et Matrem eius nocte, et secessit in Aegyptum)».

Molto più significativa è la seconda occorrenza, nella solennità di Maria santissima Madre di Dio. In questo caso antifona e salmo sono intimamente connesse, rendendo evidente l’interpretazione cristologica, e mariana allo stesso tempo, del salmo. Ciò parrebbe indice di antichità; purtroppo non siamo in grado, ora, di approfondire quanto ci lascia intravedere la relazione della commissione incaricata della distribuzione dei salmi, citata nel nostro post indicato, che giustificava la presenza del Salmo 86 nell’Ottava di Natale con il fatto che tale salmo fosse tradizionale dell’Ufficio natalizio proprio della Basilica di Santa Maria Maggiore, il santuario romano legato al mistero di Betlemme. Una pista assai interessante, che qui possiamo solamente indicare. Tornando, invece, all’antifona, ne rimaniamo affascinati per la mirabile ed ispirata composizione, che naturalmente prende le mosse dal testo latino del salmo nella versione della Vulgata: «Un Uomo è nato in lei: l’Altissimo ha consacrato la sua dimora (Homo natus est in ea, et ipse fundavit eam Altissimus)». Ad una lettura cristiana e credente, quell’«homo» non poteva essere che il nuovo nato nella stirpe di Davide, il Messia promesso, il Figlio di Dio, di cui il Natale celebra l’Incarnazione.

Tornando infine alla presenza del salmo nel comune della Beata Vergine Maria, ci aiuta a capirne la motivazione ancora un’antifona, questa volta dell’Ufficio della Solennità dell’Immacolata Concezione, l’otto dicembre. Come terzo salmo dell’Ufficio delle Letture troviamo ancora il salmo 86, preceduto dal testo antifonale: «Meraviglie si cantano di te, città di Dio: il Signore ti ha costruita sulla santa montagna».

Si rimane davvero stupiti di come l’interpretazione mariana del salmo prevalga nel tempo proprio del Natale, completando e affiancando l’altro filone esegetico che ne fa un salmo ecclesiologico – così vedevamo a proposito della presenza di esso nell’Ufficio delle Lodi nella distribuzione quadrisettimanale. Con ciò si dimostra, anche nei testi della liturgia, la verità di quanto bene affermava Isacco della Stella: «quel che si dice in modo speciale della vergine madre Maria, va riferito in generale alla vergine madre Chiesa; e quanto si dice d’una delle due, può essere inteso indifferentemente dell’una e dell’altra. Anche la singola anima fedele può essere considerata come Sposa del Verbo di Dio, madre figlia e sorella di Cristo, vergine e feconda. […] Eredità del Signore in modo universale è la Chiesa, in modo speciale Maria, in modo particolare ogni anima fedele. Nel tabernacolo del grembo di Maria Cristo dimorò nove mesi, nel tabernacolo della fede della Chiesa sino alla fine del mondo, nella conoscenza e nell’amore dell’anima fedele per l’eternità (Disc. 51)».


P.S. Queste brevi considerazioni hanno avuto il loro spunto nella preghiera personale del Salterio, ma hanno trovato conferma e fondamento grazie al sempre utilissimo lavoro di Felix M. Arocena e José A. Goñi, Psalterium Liturgicum. Psalterium crescit cum psallente Ecclesia, I, Roma 2005.

 

“Mattinar lo sposo”: elogio della sposa per celebrarne il consorte

Può essere di qualche aiuto tentare di rispondere ad una questione sortaci mentre – ahimè! l’irrequieta fantasia dove ci porta! – si pregavano le Lodi dello scorso giovedì della III settimana del Salterio: come mai, al primo posto della sezione salmodica della liturgia, è stato posto il salmo 86(87)?  Che c’entra questo salmo che canta Sion come madre di tutti i popoli con il carattere mattinale che, di solito e facilmente, incontriamo nel primo dei salmi delle Lodi? E’ noto che dal tradizionalissimo, e universalmente riconosciuto quale «proprio» ed esemplare delle Lodi, Salmo 62 («O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco…»), i curatori della nuova Liturgia delle Ore, dopo il Concilio Vaticano II, hanno fatto discendere un criterio basilare: come primo salmo delle Lodi è bene che vi sia un testo che esprima un qualche legame con l’ora della preghiera; la «verità dell’ora» dovrebbe infatti coinvolgere tutti gli elementi della celebrazione, non solo gli Inni o le preghiere, ma anche – in qualche modo – i Salmi.

Così, ad es., nel lunedì della prima settimana, come primo Salmo delle Lodi, incontriamo il Sal 5 (cf. v. 4: «Al mattino ascolta la mia voce, fin dal mattino t’invoco e sto in attesa»); per il giovedì della I settimana è previsto il Sal 56(57) (cf. vv. 8-9: «Voglio cantare, a te voglio inneggiare: svegliati, mio cuore…voglio svegliare l’aurora); passando al lunedì della IV settimana, incontriamo il Sal 89(90) (cf. v. 14: «Saziaci al mattino con la tua grazia…») o al martedì seguente, il Sal 100(101) (cf. v. 8: «Sterminerò ogni mattina tutti gli empi del paese») etc.

Chi avrà modo di soffermarsi con questa prospettiva sui salmi adottati giorno per giorno noterà riferimenti anche meno espliciti e più sfumati al tema della prima ora del nuovo giorno (ricordiamo che il risveglio mattutino è analogicamente connesso al risveglio di Cristo dal sonno della morte). Ma, allo stesso tempo, non di tutti i salmi la presenza può esserne spiegata con questo unico criterio. Fra essi, appunto il salmo 86. Vediamo cosa ne dice uno dei periti che lavorò alla riforma del salterio: anche se p. Raffa non lavorò direttamente e specificamente alla nuova distribuzione quadrisettimanale del salterio, la sua parola è assolutamente autorevole:

«I salmi 83 e 86, attraverso la Sion antica, che ne forma il soggetto, richiamano la comunità di culto e della lode che è la Chiesa, sottolineando anche la vera prospettiva della lode ecclesiale, che è quella escatologica. […] Se vogliamo riassumere sinteticamente alcuni criteri di assegnazione dei salmi all’inizio della triade possiamo farlo con queste espressioni: salmi mattutini, tradizionali, programmatici per la giornata, riferiti al mistero della vittoria di Cristo, oggetto celebrativo delle Lodi. Inoltre: salmi escatologici, penitenziali, sulla legge. Salmi di rendimento di grazie per il nuovo giorno, per lo meno considerati nel contesto liturgico concreto. Infine: salmi scelti fra i più belli e facili in considerazione della destinazione anche popolare delle Lodi. Nei salmi di Sion possiamo vedere in filigrana la Chiesa, la nuova città santa, la “Sposa” (“pronta come sposa adorna per il suo sposo: Ap 21), che sorge a “mattinar lo sposo”» (1).

Da notare assolutamente il dotto riferimento che il liturgista orionino incastona alla fine del paragrafo. Si tratta di una citazione del decimo Canto del Paradiso, della Divina Commedia (2). Non si tratta di un vezzo enciclopedico, perché questo collegamento – lungi dall’essere una mera e sterile esibizione culturale – riporta la considerazione al tema centrale in modo assolutamente originale e affascinante. Dante associa poeticamente il sorgere mattiniero della chiesa nella sua liturgia l’immagine della sposa che sveglia dolcemente lo sposo.

Mattinar lo sposo perché l’ami!! A nessuno di tanti e bravi professoroni di liturgia sarebbe mai venuta in mente una così bella descrizione della Liturgia delle Lodi mattutine.

Ritornando al nostro Salmo, ricollocandolo a partire da queste suggestioni, pare finalizzato ad aiutare chi lo prega nel diventare di nuovo e di più consapevole e grato della propria appartenenza alla celeste Gerusalemme; rendendosi conto – anche un in un qualsiasi ed ordinario giovedì mattina – di essere in certo modo la Sposa di cui lo Sposo «dice cose stupende», sarà facile entrare nella lode e infiammarsi d’amore per cotanto Consorte!


(1) V. Raffa, La liturgia delle Ore. Presentazione storica, teologica e pastorale (Collana di teologia e di spiritualità, 8), Milano 1990³, 114. Un’altra importante indicazione la troviamo nel prezioso Cuadernos Phase 83, in cui P. Farnés commenta così l’inserimento del salmo 86 fra quelli della prima serie, quella «mattinale»: «Se trata de un salmo escatologico referido a la futura ciudad mesianica inaugurata con la resurrecion de Jesucristo» (25).

(2) «Indi, come orologio che ne chiami / ne l’ora che la sposa di Dio surge / a mattinar lo sposo perché l’ami»: Dante Alighieri, Paradiso, X, 139-141.

La liturgia, ovvero la mente aperta per comprendere le Scritture

«Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture» (Lc 24,44-45).

Diversi esegeti hanno sottolineato come i versetti lucani proclamati nel vangelo del quinto giorno dell’Ottava di Pasqua siano interessanti per la rivendicazione di Cristo a riguardo del senso delle Scritture e, qui in particolare, dei Salmi. La liturgia, tuttavia, si mostra assai ben più docile e pronta a fare propri gli insegnamenti di Gesù rispetto ad altre branche della teologia. Una prova?

Guardiamo l’ufficiatura dell’Ottava, e scopriremo dati significativi. Ci soffermiamo sulle sezioni salmodica dell’Ufficio delle Letture, tralasciando qui quelle delle due Ore principali – Lodi e Vespri – che si ripetono invariate dalla Pasqua alla Domenica in Albis.

Nei giorni dell’Ottava troviamo antifone e salmi propri, che cioè non seguono il consueto e ripetitivo schema delle quattro settimane, ma sono selezionati in base a richiami letterali o comunque tematicamente riferiti al mistero pasquale. E se il lunedì dell’Ottava parrebbe simile a qualsiasi lunedì della prima settimana del salterio (vi sono i salmi 1, 2 e 3), le antifone fugano ogni dubbio e ci ricordano che siamo davanti a qualcosa di unico. La sapienza della Chiesa, nella sua tradizione liturgica, ha elaborato infatti delle antifone davvero speciali, rileggendo i salmi in chiave eminentemente cristologica. La liturgia – poggiando sulle parole del Maestro – attribuisce in modo eminente a Lui i salmi, ritoccandone i versetti, perché diventino ancora più esplicitamente parole sue. Non si tratta di interventi indebiti e arbitrari, ma di espressione di fede pasquale e di obbedienza all’insegnamento del Signore.

In uno specchietto, ciò a cui ci si è riferiti:

foto documento pasqua

Un’ultima cosa, degna di nota, è il fatto che la composizione di queste antifone e di questi salmi è antichissima. Si tratta, infatti, del Mattutino di Pasqua testimoniato già nell’Ordo Romanus XXVIII. A detta di Righetti possiamo datarla all’VIII secolo (1). La riforma liturgica – ebbene sì, non furono così devastori i periti del Consilium – conservò questo tesoro e lo ricollocò nel primo giorno dell’Ottava. Insomma, una bella pagina di fedeltà alla tradizione ecclesiale e una professione di fede cristologica che ha pochi pari: attraverso la liturgia, oggi, il Maestro ci insegna ad aprire la mente alle Scritture e ci aiuta a leggere nei salmi «ciò che si riferisce a Lui».


(1) M. Righetti, Manuale di storia liturgica, II. L’anno liturgico – Il Breviario, Milano 1998 (ed. anastatica), 280.

Cosa nostra

Con questo post singolare vorremmo ritornare su alcuni aspetti della parabola del figliol prodigo, o come la si voglia chiamare. Ne riproporremo un’interpretazione che, forse, necessita la rilettura del post immediatamente precedente a questo (qui).

La preghiera meditata dell’Ufficio delle Letture del giovedì della IV settimana di Quaresima ci ha suggerito alcuni agganci interessanti fra la pericope di Luca 15 e quanto predicò San Leone Magno, e che è proposto appunto come seconda lettura dell’Ufficio del giorno. Quindi si tratta non tanto di un elogio alla mafia siciliana – «cosa nostra» -, quanto piuttosto un riconoscimento della geniale predicazione leoniana.

Ci perdoni però il grande papa se rileggiamo le sue parole, superando sicuramente l’intentio auctoris, quanto Leone voleva realmente trasmettere; lo facciamo perché ci pare che possa aiutarci a cogliere sempre di più la ricchezza della parabola, che di certo lui aveva ben compresto. Faremo pertanto delle notazioni lungo il testo dell’omelia, sperando di non commettere un sacrilegio eccessivo.

Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa
(Disc. 15 sulla passione del Signore, 3-4; Pl 54, 366-367)

Colui che vuole onorare veramente la passione del Signore deve guardare con gli occhi del cuore Gesù Crocifisso, in modo da riconoscere nella sua carne la propria carne.
Tremi la creatura di fronte al supplizio del suo Redentore. Si spezzino le pietre dei cuori infedeli, ed escano fuori travolgendo ogni ostacolo coloro che giacevano nella tomba. Appaiano anche ora nella città santa, cioè nella Chiesa di Dio, i segni della futura risurrezione e, ciò che un giorno deve verificarsi nei corpi, si compia ora nei cuori.
A nessuno, anche se debole e inerme, è negata la vittoria della croce, e non v’è uomo al quale non rechi soccorso la mediazione di Cristo. Se giovò a molti che infierivano contro di lui, quanto maggiore beneficio apporterà a coloro che a lui si rivolgono! 
L’ignoranza dell’incredulità è stata cancellata. E` stata ridotta la difficoltà del cammino. Il sacro sangue di Cristo ha spento il fuoco di quella spada, che sbarrava l’accesso al regno della vita. Le tenebre dell’antica notte hanno ceduto il posto alla vera luce.
Il popolo cristiano è invitato alle ricchezze del paradiso. Per tutti i battezzati si apre il passaggio per il ritorno alla patria perduta, a meno che qualcuno non voglia precludersi da se stesso quella via, che pure si aprì alla fede del ladrone. [Qui c’è l’esperienza del figlio minore, ritornato nella casa paterna, dopo l’esilio volontario nella terra della sua alienazione; e c’è il rischio del fratello maggiore, che sdegnato non vorrebbe avere niente in comune con un fratello – nella cui carne dovrebbe invece riconoscere la propria carne – né con un padre così remissivo e indulgente ad una festa ai suoi occhi ingiusta e ingiustificata.] Procuriamo che le attività della vita presente non creino in noi o troppa ansietà o troppa presunzione sino al punto da annullare l’impegno di conformarci al nostro Redentore, nell’imitazione dei suoi esempi. Nulla infatti egli fece o soffrì se non per la nostra salvezza, perché la virtù, che era nel Capo, fosse posseduta anche dal Corpo«Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14) nessuno lasciando privo della misericordia, ad eccezione di chi rifiuta di credere. E come potrà rimanere fuori della comunione con Cristo chi accoglie colui che ha preso la sua stessa natura e viene rigenerato dal medesimo Spirito, per opera del quale Cristo è nato? Chi non lo riterrebbe della nostra condizione umana sapendo che nella sua vita c’era posto per l’uso del cibo, per il riposo, il sonno, le ansie, la tristezza, la compassione e le lacrime?
Proprio perché questa nostra natura doveva essere risanata dalle antiche ferite e purificata dalla feccia del peccato, l’Unigenito Figlio di Dio si fece anche Figlio dell’uomo e riunì in sé autentica natura umana e pienezza di divinità. E’ cosa nostra ciò che giacque esanime nel sepolcro, che è risorto il terzo giorno, che è salito al di sopra di tutte le altezze alla destra della maestà del Padre. [E’ cosa nostra!! «Figlio… tutto ciò che è mio è tuo», diceva il padre dei fratelli al maggiore; e, poi, «questo tuo fratello era morto…», a ricordargli che quell’incauto scialaquatore delle paterne sostanze non era solamente un figlio di un padre troppo arrendevole – «questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi» -, ma pur sempre suo fratello. Leone Magno ha ben capito che occorre sul serio appropriarsi delle sostanze autentiche del Padre. Il figlio minore pretendeva le sostanze piccole, i beni materiali, il maggiore era pieno di risentimento per un capretto non concesso benché nemmeno richiesto….entrambi non hanno compreso come il Padre volesse far parte con loro di beni molto più preziosi: la sua natura, il suo amore, la sua vita. Proprio perché Cristo è diventato cosa nostra, proprio perché il vitello grasso è stato finalmente immolato, possiamo essere sicuri che la misericordia di Dio sia anch’essa cosa nostra, sia per noi per primi, investa la nostra debolezza; e poi cosa nostra diventa pure un fratello che cade, da riaccogliere con gioia.]

Nostrum est quod exanime in sepulcro iacuit, et quod die tertia resurrexit!

 

 

Maiali, capretti, vitelli, agnelli. Non pare affatto una domenica quaresimale…

Dopo aver ascoltato vari commenti e letto qua e là, su libri e sul web, a proposito della Liturgia della Parola della IV domenica del tempo quaresimale, quest’anno secondo lo schema C, diciamo qualcosa pure noi. O, meglio, riportiamo le parole del grande Romano il Melode, il quale, sebbene si firmasse umile Romano – in modo acrostico nelle strofe dei suoi testi -, riesce spesso a sorprenderci per la ricchezza delle sue immagini interpretative. Il nostro autore ci aiuta a ricentrare il brano evangelico in tutta la sua portata cristologica, per non rischiare di perdere aspetti importanti avendone sottolineato eccessivamente altri.

In effetti, se non ci lascia prendere subito da considerazioni morali e psicologiche intorno ai due fratelli e al loro padre, fanno specie, in una domenica di Quaresima, letture così «carnali», con un’insistenza ripetuta sul mangiare e sulle carni, per di più. La prima lettura ribadisce solennemente, a proposito del popolo di Israele arrivato finalmente nella terra promessa: «mangiarono i prodotti della terra…mangiarono i frutti della terra di Canaan». Ma è poi il vangelo ad essere molto esplicito nel farci immaginare carni succulente e consumate in festosa convivialità: un capretto desiderato per una festa e un vitello grasso «cotto e mangiato», si direbbe a sottolineare il repentino giungere dell’occasione giusta, per la quale inconsapevolmente (?) era stato foraggiato. Da non dimenticare il contesto ampio delle letture, la celebrazione sacramentale dell’eucarestia, e segnatamente le parole prima della comunione: Ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi. Beati qui ad cenam Agni vocati sunt (1).

Una domenica di banchetti, quindi. Ecco perché ci pare faccia bene il Melode ad attardarsi su uno dei protagonisti della parabola, oltre ai celebri componenti della trilogia familiare, il padre e i due fratelli: il vitello grasso!

Orsù, apprestateci il santissimo banchetto, sacrificate senza esitazione il vitello messo al mondo da una Madre vergine. […] Per il peccatore, ve l’ho già ordinato, sacrificate subito il vitello, il virgineo Figlio della Vergine che non si assoggettò al giogo del peccato, ma cammina spedito avanti a quanti lo vorrebbero trascinare. Egli infatti non si ribella di fronte al sacrificio, ma spontaneamente piega il capo a quanti si apprestano ad ucciderlo. Trascinate, immolate il Dispensatore della vita, che è sacrificato, ma non è messo a morte, e dona la vita a tutti gli ospiti dell’Ade, colui che noi mangiamo per essere nel gaudio. […] Sacerdoti, miei fedeli servitori, immolate questo vitello e a tutti i meritevoli del mio banchetto, datelo a mangiare, vitello senza macchia, puro alla perfezione, nutrito dalla terra non seminata che egli stesso creò. Offrite a loro anche la preziosa bevanda, il sangue e l’acqua che sgrogano dal suo fianco per tutti i credenti. Tutti, e in ogni tempo, mangiatene: smembrato che egli sia, non è per questo spartito, né diviso, né consumato, ma per l’eternità sazia gli uomini tutti. Egli si offre in cibo santissimo nel suo amore per gli uomini, lui, Padrone dei secoli e Signore. Mentre la schiera dei commensali era in festa e tutti cantavano nella gioia inni a Dio, il padre per primo dette un segnale agli invitati, dicendo: Gustate e vedete che sono il Cristo. Dopo di lui, il Salmista, accompagnandosi con la cetra, intona con voce dolcissima: Presto, portate vittime pure e benedette sull’altare consacrato; sacrificate un vitello con azioni di grazie. Poi Paolo ad alta voce pronuncia: La nostra Pasqua è stata immolata, Gesù Cristo, il Padrone dei secoli e Signore. Gli angeli che prestavano servizio al banchetto, vedendo che i presenti si rallegravano e cantavano armoniosamente, vollero imitarli intonando il loro inno. Qual’è questo inno? Ascoltiamolo, di grazia: Santo sei, Padre, che oggi hai accettato che sia immolato per gli uomini il vitello senza macchia. Santo è anche il tuo Figlio volontariamente sgozzato alla stregua di un vitello immacolato, che santifica coloro che sono battezzati nell’acqua salutare della piscina. Santo è anche lo Spirito, accordato in dono ai credenti dal Padrone dei secoli e Signore (2)

Infine, la poetica ispirata di Romano azzarda un happy end di cui solitamente non si dice nulla:

Così, figlio mio, rallegrati con tutti gli invitati al banchetto, e unisciti nel canto a tutti gli Angeli, perché tuo fratello era perduto ed eccolo ritrovato, era morto e, contro ogni attesa, eccolo risuscitato. A queste parole, l’altro fratello si lasciò convincere, si felicitò con il fratello e prese a salmodiare così: Elevate acclamazioni, tutti! Beati quelli ai quali i peccati sono stati condonati, e le colpe dei quali sono state arrestate e cancellate! Ti benedico, o Amico degli uomini, che hai salvato anche mio fratello, tu Padrone dei secoli e Signore (3)


(1) Prima o poi si dovrà chiarire l’improvvida inversione della versione italiana, che peggiora ulteriormente una già triste omissione: è una cena di nozze, quella dell’Agnello!

(2) Romano il Melode, Inni (Letture cristiane delle origini 13), XXXII,1.8-11, Milano 1981, 306.308-309.

(3) Ibid., XXX,21, 312.

Povero Natan, da profeta di Dio a giornalista d’inchiesta. Ovvero dell’autorità che pare mancare nella Chiesa

Non volevamo crederci, e abbiamo atteso che qualche commentatore si facesse avanti. Pare, invece, che sia passato sotto silenzio l’azzardato parallelismo fra la missione di Natan presso l’adultero e omicida Re Davide e il lavoro dei giornalisti nella ricerca e denuncia dei drammatici casi di abusi (1). Non ce ne voglia la categoria: non si nega l’importanza e, talvolta, il ruolo decisivo di inchieste giornalistiche nel smascherare casi complicati e occulti, ma che da quella simbolica e profonda vicenda biblica venga assunto questo parallelismo pare un insolito e assai riduttivo appiattimento a categorie mondane.

Il testo della Scrittura lo evidenzia in modo ripetuto: quella di Natan è una missione profetica ispirata da Dio; Natan è sì «inviato speciale», ma non nel senso in cui le testate giornalistiche presentano gli articoli di loro collaboratori, mandati sul campo per capire meglio e raccontare fatti e notizie particolari («dal nostro inviato speciale n.n….»), a meno che non si vogliano intendere le redazioni e i direttori dei mezzi di informazione come «padreterni». Ad essere sinceri, immaginiamo che alla smisurata opinione di sé, che alcuni di loro posseggono, l’accostamento solleticherebbe… Ma torniamo a Natan: i primi versetti del capitolo 12 del secondo libro di Samuele, concettualmente consequenziali agli ultimi del cap. 11, sono quelli tipici e preclari di una chiamata divina: «Il Signore mandò il profeta Natan a Davide, e Natan andò da lui e gli disse…»; Natan parla e agisce con l’autorità divina, con finezza proverbiale smaschera Davide e il male da lui compiuto, in modo che il re possa prenderne coscienza e possa distaccarsene, pentendosi ed essendo disposto a portarne le conseguenze. E proprio per questo, al termine del dialogo con Natan, Davide potrà udire, da parte dello stesso profeta, sorprendenti parole di perdono e misericordia: «Natan rispose a Davide: «Il Signore ha rimosso il tuo peccato…» (2Sam 12,13). Questa dinamica è resa di nuovo evidente dalla prime parole del più celebre dei salmi penitenziali: «Al maestro del coro. Salmo. Di Davide.  Quando il profeta Natan andò da lui, che era andato con Betsabea» (Sal 51,1-2). La missione di Natan è un atto di misericordia, nonostante le parole da lui pronunciate siano terribili e dure. La sua denuncia è una correzione; la riparazione della giustizia infranta dal peccato di Davide sarà il cuore contrito del re peccatore.

C’è dunque ben altro rispetto al mero svelamento di un peccato occulto! Tanto che il meglio della scienza (2) biblica ha individuato in questa vicenda l’esemplificazione principe  di una dinamica giudiziale presente nel popolo di Israele, che nella Sacra Scrittura in più pagine è testimoniata, il cosiddetto rîb. Lo schema e le categorie sono assunte dal mondo forense e del diritto violato, ma traspare in modo altrettanto netto il sottofondo teologico della chiamata alla conversione e dell’offerta della misericordia.

Sono le stesse dinamiche che – crediamo di averlo dimostrato (3) – soggiacciono alle intenzioni di riforma del nuovo rito della penitenza. In questo aspetto, assai più di altri, il Concilio Vaticano II attende ancora di essere attuato!

Se quindi si parla di Natan, ci si inoltra in un contesto penitenziale, nel senso più eminente ed ampio, incluso anche quello sacramentale: la figura del profeta che denuncia il male commesso da Davide reca con sé un portato e una ricchezza teologica e spirituale così rilevante che ci pare davvero un peccato il fatto che possa essere ridotta ad un’immagine ad effetto. Quella che ci pare davvero una banalizzazione mostra fra l’altro – almeno fino a prova contraria – la mancanza di una comprensione del fenomeno alla luce della fede e, in misura ancora più drammatica, la latitanza sconcertante di chi avrebbe l’autorità per parlare come Natan; di quanti, rivestiti di una potestà e di un ministero, dovrebbero accusare con chiarezza il male e chi lo compie, mossi dallo stesso desiderio di Dio, che venga ristabilita la giustizia, che i peccatori si convertano e che le ferite possano essere risanate.

Si chiede giustamente che si rompa il silenzio: che tristezza non sperare che siano profeti e uomini di Dio a farlo! Che sconfitta dover confidare nelle inchieste dei mezzi di informazione!


(1) Cf. il testo ufficiale del Discorso di Papa Francesco alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, qui. I mezzi di informazione non hanno avuto alcun dubbio nell’attribuirsi in toto la citazione papale, che di per sé non è del tutto univoca. Non è del resto giunta nessuna precisazione o smentita del senso che la stampa ha attribuito a quella parte del testo.

(2) Si veda, ad es., https://liturgiaebibbia.com/2015/03/05/amore-eo-accusa-dalla-bibbia-nuova-luce-sul-perdono-e-sulla-sua-celebrazione-sacramentale/

(3) Si possono vedere alcuni post pubblicati da tempo, con gli ulteriori altri rimandi:

 

E’ scritto C come Cana, ma si legge E come Epifania. Osservazioni a margine della II domenica del tempo Ordinario

Saremmo veramente ridicoli se presumessimo di obiettare, dal nostro piccolissimo punto di vista, alle decisioni degli esperti e dei membri del Consilium, che secondo le indicazioni di Sacrosanctum Concilium plasmarono il nuovo lezionario. Tuttavia, senza apparire presuntuosi possiamo affermare che sì sarebbe auspicabile che si possa ricostruire quanto più esattamente possibile tutto il processo di revisione, sia con i criteri generali che orientarono le scelte come pure con le specificazioni concrete dei singoli casi. Perché, altrimenti, alcune domande sorgono spontanee.

Come mai assegnare al ciclo C, e solamente al ciclo C, la proclamazione del segno compiuto da Gesù alle nozze di Cana?

La Liturgia delle Ore ha giustamente mantenuto, nell’Ufficiatura dell’Epifania, il riferimento tradizionale ai tre episodi evangelici dai quali si assumevano i contenuti della festa: il cammino e l’adorazione dei Magi, il battesimo di Gesù al Giordano, e le nozze di Cana. Gli inni e le antifone a Benedictus e Magnificat mettono insieme i tre misteri della vita di Cristo i cui brani evangelici troviamo distribuiti per tre domeniche, a partire appunto dall’Epifania, proseguendo con la Domenica del Battesimo del Signore per finire con la domenica delle nozze di Cana. Questo schema, come si è detto senza poterlo qui mostrare, è del tutto tradizionale. Il ciclo del lezionario domenicale di quest’anno – il ciclo C – mantiene ottimamente questa successione, che viene a mancare nei cicli A e B.

A tal proposito, pare un poco interlocutorio il paragrafo dell’Ordinamento delle letture della Messa relativo: «Nella II domenica del Tempo Ordinario il Vangelo si riferisce ancora alla manifestazione del Signore, celebrata nella solennità dell’Epifania: tale riferimento è sottolineato dalla pericope tradizionale delle nozze di Cana e da altre due pericopi, tratte esse pure dal Vangelo di Giovanni» (105).

Sarebbe stato eccessivo mantenere l’unico brano delle nozze di Cana per i tre schemi? E, se proprio si doveva assegnare a solo uno dei tre, perché al ciclo C, mentre per altri momenti al ciclo A viene riconosciuta una sorta di esemplarità particolare?

Quanto potrebbe essere interessante poter studiare le carte degli esperti che al lezionario lavorarono, sperando di trovare in esse le risposte!

Al di là di tali questioni, certo è che una vera ermeneutica liturgica del brano giovanneo non può fare a meno di questi dati. Non si dovrebbe isolare tale vangelo dagli altri due, relativi ai Magi e al Battesimo, e sarebbe magnifico se la sua meditazione avesse come sottofondo questi testi:

Oggi la Chiesa,
lavata dalla colpa nel fiume Giordano,
si unisce a Cristo, suo Sposo,
accorrono i magi con doni alle nozze regali
e l’acqua cambiata in vino rallegra la mensa, alleluia. (Ant. Benedictus, Epifania)

Hódie cælésti Sponso iuncta est Ecclésia, quóniam in Iordáne lavit Christus eius crímina: currunt cum munéribus Magi ad regáles núptias, et ex aqua facto vino lætántur convívæ, allelúia.

Elogio della codardia ovvero quando un liturgista eccede nello zelo

Con questo brevissimo post vorremmo rendere omaggio alla mancanza di coraggio dei periti e dei Membri del Consilium; e manifestare il nostro disappunto per il tono sprezzante e sbrigativo con cui viene liquidata, in poche righe, una questione che meriterebbe ben altre riflessioni. Approfittiamo allo stesso tempo per evidenziare che le critiche alla riforma liturgica furono mosse non solo dagli ambienti cosiddetti tradizionalisti, ma pure da campi e da persone certamente non associabili a simpatie tridentine. Se possiamo permetterci di esprimere un commento personale, ci verrebbe da dire che se quella che vedremo esemplarmente appena più sotto fosse la linea degli oppositori più radicalmente progressisti, essi ci risulterebbero assai più incomprensibili rispetto a quanti non valutano positivamente la riforma del Vaticano II perché convinti dell’assoluta bontà della liturgia preconciliare. Ma passiamo al caso in questione.

Si leggeva qualche giorno fa qualche manuale a riguardo della celebrazione della Santa Famiglia. Fra il poco materiale che si è riusciti a trovare, si faceva notare Hansjörg Auf Der Maur, nel V volume de La Liturgia della Chiesa, il manuale di Scienza liturgica pubblicato da Elle Di Ci.

Questa festa affonda le sue radici nella devozione barocca della S. Famiglia (XVII sec.) e in un primo momento venne celebrata in diverse diocesi in varie date. Il dissolvimento dell’immagine tradizionale ed ecclesiastica della famiglia nel XIX sec. può essere stata l’occasione per favorire la festa. […] Nel MRom 1970 non si ebbe il coraggio di cancellare quest’idillio romantico-borghese.

H. Auf Der Maur, «Altre feste del Signore», in La Liturgia della Chiesa. Manuale di scienza liturgica, V, Le celebrazioni nel ritmo del tempo – I, Leumann (TO) 1990, 246-247.

Sinceramente non si comprende lo zelo inconoclasta: le tormentate e avventurose vicende della Santa Famiglia difficilmente sono riconducibili ad un idillio, secondo i parametri terreni. Dobbiamo confessare di non conoscere null’altro della biografia e della bibliografia del liturgista svizzero: che esperienza avrà avuto, per parlare in tal modo della famiglia?! Per di più, sia nei formulari del Messale precedente, sia in quello attuale, ci sembra di non riuscire a rintracciare quel tono romantico-borghese che viene stigmatizzato. Nel complesso, la liturgia della Santa Famiglia lascia trasparire assai bene la difficoltà, i travagli e i combattimenti della vita dei tre di Nazareth; non ne viene sublimata la vicenda, negandone asperità, fatiche e scandali (nella versione italiana della Liturgia delle Ore, l’inno delle Lodi ha un’espressione assai significativa: «O famiglia di Nazareth, esperta nel soffrire»! Altroché idillio romantico-borghese…)

Ecco, non sappiamo cosa abbia spinto Aud Der Maur ad una posizione così radicale, ma ci auguriamo per lui che nell’ora della sua morte, la Vergine Maria e san Giuseppe lo abbiano soccorso ugualmente, come chiedeva una delle preghiere che lui non apprezzava.

Quos cælestibus reficis sacramentis, fac, Domine Jesu, sanctæ Familiæ tuæ exempla jugiter imitari: ut in hora mortis nostræ, occurrente gloriosa Virgine Matre tua cum beato Joseph, per te in æterna tabernacula recipi mereamur. [Signore Gesù, fa sì che noi nutriti dei tuoi celesti Misteri, abbiamo ad imitare costantemente gli esempi della tua santa Famiglia, affinché nell’ora della nostra morte, venendoci incontro la gloriosa Vergine tua Madre insieme col beato Giuseppe, meritiamo di essere da te ammessi agli eterni tabernacoli] (Postcommunio della Festa della Santa Famiglia secondo il messale preconciliare).

Molto più equilibrato il commento di Bugnini, il quale non negando alcune difficoltà, e lasciando trasparire qualche sua riserva, è tutt’altro che intransigente:

Trattandosi di una festa di idea introdotta da Leone XII nel labirinto liturgicamente già complicato del periodo natalizio, creò non poca difficoltà sistemarla convenientemente secondo i nuovi criteri. L’effettiva celebrazione delle tre «Epifanie» (Magi, Battesimo, Cana), tenuto conto anche dei paesi in cui l’Epifania viene rimandata alla domenica seguente, non lascia più spazio per la festa della S. Famiglia, che dal lato pastorale presenta indiscutibili vantaggi e si inserisce bene, idealmente, nel clima natalizio. Furono fatte diverse proposte: nella domenica tra il 1° e il 5 gennaio, nella 3a domenica dopo l’Epifania, al 1° maggio. Prevalse, infine, la domenica tra l’ottava di Natale, perché, anche se sfasata cronologicamente, «mette in rilievo il mistero dell’Incarnazione, che introduce il Figlio di Dio nella pienezza dell’umanità nella famiglia» (Guano) e perché la festa di Natale richiama e riunisce tante famiglie attorno al focolare domestico; perciò suscettibile di opportuni sviluppi pastorali.

A. Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975) (Bibliotheca «Ephemerides Liturgicae» «Subsidia» 30, Roma 1997, 308.

La superbia di un liturgista troppo zelante, quasi novello Erode, fa risplendere ancora di più il prezioso lavoro di periti e membri del Consilium, i quali – sicuramente nella stragrande maggioranza di essi – mai si sentirono in diritto di disprezzare quanto la tradizione aveva portato fino a loro, sebbene talora con evidenti incrostazioni. Se il coraggio di taluni coincide con il disprezzo e con il desiderio di fare all’istante piazza pulita, ben venga una santa codardia, paziente e aperta a sviluppi futuri.

Sono davvero così moderni, i moderni liturgisti?

Quante volte abbiamo sentito commentare con malcelata ironia le scelte e i gusti liturgici di antiche testimonianze, in nome di una finalmente progredita scienza liturgica! Tuttavia è altrettanto frequente che una veloce e sbrigativa critica, risolta magari con qualche esempio scelto all’uopo,  nasconda un’analisi superficiale. La fretta e la superba saccenza sono cattive consigliere: capita così, senza neppure accorgersene, di fare brutte figure che facilmente si potevano evitare.

Facciamo un esempio concreto, per non rimanere troppo vaghi e generici.

L’uso liturgico dei Salmi è da sempre un ambito delicato e ricco di sfumature.

Sicuramente gli antichi liturgisti avevano un approccio alla Sacra Scrittura assai diverso da quello di un moderno esperto. Senza discuterne adesso la bontà o meno, vorremmo semplicemente ricostruire, con un esempio specifico, il processo che ha portato ad alcune scelte.

L’antica Ufficiatura del giorno di Pentecoste prevedeva, per il Mattutino, fra gli altri, il salmo 47. Tale salmo presenta la particolarità di avere un’antifona non estrapolata dallo stesso salmo – come capita invece per gli altri due salmi del Mattutino – ma composta da una citazione biblica di un brano relativo al mistero di quella particolare solennità: Factus est repente de caelo sonus advenientis spiritus vehementis, alleluia, alleluia (At 2,2a). E’ facile perciò ipotizzare che la scelta del salmo 47 per l’ufficiatura di Pentecoste sia stata motivata dal fatto che nel versetto 8 si parla di un vento particolarmente impetuoso: in spiritu vehementi conteres naves Tharsis (l’odierna traduzione italiana recita: …simile al vento orientale che squarcia le navi di Tarsis). Senza escludere altre immagini e contenuti del Salmo che potrebbero averne rafforzato l’accostamento con il Mistero della Pentecoste, è evidente l’assonanza dei termini.

Rimanendo neutrali e distaccati, si dovrebbe solamente registrare il fatto, o meglio la dinamica di simili scelte: l’uso liturgico di questo particolare salmo, in questo caso, poggia principalmente su di un riferimento letterale (naturalmente il fenomeno è più complesso e sottintende, fra l’altro, una chiarissima visione unitaria della Bibbia).

Se, piuttosto, ci sentissimo illuminati e progrediti, ritenendo rozzo e troppo elementare il sistema di lavoro di antichi colleghi, e ci riempissimo la bocca con generi letterari e simili conquiste della scienza biblico-liturgica, saremmo spiazzati e sorpresi nell’apprendere le motivazioni della collocazione del salmo 47 nella nuova distribuzione del salterio della Liturgia delle Ore di Paolo VI. Prima però di riportarla, dobbiamo fare alcune precisazioni.

Dobbiamo per onestà specificare che stiamo per confrontare due dati non del tutto omogenei: nel primo caso si tratta dell’ufficio proprio di una solennità, mentre il secondo riguarda la distribuzione del salterio nell’ufficiatura ordinaria. Dobbiamo ricordare inoltre che l’attuale salmodia delle Lodi ha una strutturazione specifica: il primo salmo ha a che fare in certo modo con l’ora dell’ufficio (salmi legati ai temi della luce, dell’alba, etc.) oppure perché è da tradizioni importanti collocato da tempo nell’ufficio delle Lodi; quindi vi è un cantico, infine un altro salmo dal carattere laudativo. Tornando dunque al nostro salmo 47, esso si trova nelle lodi del giovedì della prima settimana, come terzo salmo del gruppo salmodico. Come mai è stato collocato fra i salmi laudativi? Ce lo facciamo spiegare da uno dei testimoni più autorevoli della riforma della Liturgia delle Ore, padre Vincenzo Raffa, che in uno studio afferma: i salmi del terzo gruppo «hanno, all’inizio o nei primi versi, espressioni come queste: lodate, cantate, esultate, giubilate, date gloria, degno di ogni lode è il Signore, ti glorifichino le tue opere, i cieli narrano la gloria di Dio, come è ammirabile il tuo nome o Signore ecc.» (1). Quindi il salmo 47 avrebbe trovato la sua attuale collocazione a causa del versetto 2a: «Grande è il Signore e degno di ogni lode nella città del nostro Dio».

Dunque, in certo senso, la stessa dinamica di riferimento alla lettera del salmo unisce il liturgista tridentino all’esperto della riforma postconciliare dei nostri tempi. Chi volesse, al contrario, distinguersi e segnare oltremodo la differenza della propria metodologia, magari oltretutto irridendo la semplicità e l’immediatezza di antichi estensori, ci farebbe sorgere qualche dubbio intorno alle sue creazioni: sarebbe ancora liturgia cattolica?

Molto più cattolici , cioè capaci di raccogliere insieme di diversi libri della Scrittura, originali ed ammirevoli ci paiono gli antichi esperti che plasmarono l’antica ufficiatura della Pentecoste, ragguardevoli anche per il modo in cui la Parola di Dio era posseduta e ruminata: senza le moderne concordanze e analoghi strumenti ausiliari, due sole parole di un salmo accendevano le luci su altri testi,  Salmi e Atti degli Apostoli, lontanissimi, ma sorprendentemente ben presenti nello spirito e nella memoria di quanti trovarono tale corrispondenza.


(1) V. Raffa, La liturgia delle Ore. Presentazione storica, teologica e pastorale, Milano 1990, 110.