Un salmo compiuto. Ancora sulle antifone

Con molto ritardo sull’effettiva contemporaneità della preghiera proposta dal corso della Liturgia delle Ore, vorremmo di nuovo sottolineare un piccolo particolare. Ci siamo più volte soffermati, tentando di suscitare apprezzamento e gusto per la preghiera del Salterio, anche sui minimi dettagli: aggiungiamo ora un altro esempio.

L’ufficiatura dei primi vespri della V domenica di Pasqua segue il consueto ciclo di distribuzione salmica in quattro settimane. Di proprio abbiamo, analogamente alla  Quaresima, le antifone. Il secondo salmo è il 141, Con la mia voce al Signore grido aiuto. Il titolo e la sentenza patristica aiutano a comprenderne il senso e la rilettura cristologica. L’antifona, che riprende il salmo stesso, ci aiuta a fare un altro passo. Come spesso accade, ci è di miglior ausilio il testo latino. Vediamo con calma.

Ant. V domenica di Pasqua: «Mi hai liberato dal carcere di morte: rendo grazie al tuo nome alleluia».

Il testo è modellato evidentemente sul versetto 8 del salmo stesso: «Fà uscire dal carcere la mia vita, perché io renda grazie al tuo nome». Chiara è l’intenzione di far rileggere e pregare il salmo, illuminato dalla luce pasquale di un combattimento già vinto e di una liberazione compiuta. Ancora più stringente è la correlazione teologica fra antifona e salmo se guardiamo la versione latina:

Ant. Eduxísti de custódia ánimam meam ad confiténdum nómini tuo, allelúia.

Sal. Educ de custódia ánimam meam ad confiténdum nómini tuo

Nella piccola variazione di un modo verbale è racchiusa una teologia ricchissima: Davide e la sua angoscia “quando era nella caverna” (così dice il testo della Scrittura) erano prefigurazioni di un’altra angoscia, quella di Cristo nella Passione (così dice, fra l’altro, la sentenza patristica del salterio). E’ il Signore Gesù il vero orante del Salmo, e nella sua preghiera offre anche a noi ancora pellegrini la certezza della liberazione e della vittoria. E’ Lui che può dire, come Capo del corpo: Mi hai liberato dal carcere di morte. Noi, come membra di Lui, possiamo già partecipare della sua vittoria e, nella fede, possiamo fare nostra la sua esultanza. Ma come ogni buon cristiano sa, il mistero della salvezza, ricapitolato e compiuto in Cristo, si deve compiere escatologicamente in ciascuno. La liberazione pasquale sarà completa quando l’ultimo nemico sarà sconfitto. Ecco perché San Francesco, nel suo pio transito, come ultima preghiera volle proclamare il salmo 141:

…L’uomo a Dio carissimo comandò che gli portassero il libro dei Vangeli e chiese che gli leggessero il passo di Giovanni, che incomincia: “Prima della festa di Pasqua…”. Egli, poi. come poté, proruppe nell’esclamazione del salmo: “Con la mia voce al Signore io grido, con la mia voce il Signore io supplico ” e lo recitò fin al versetto finale: “Mi attendono i giusti, per il momento in cui mi darai la ricompensa”. Quando, infine, si furono compiuti in lui tutti i misteri, quell’anima santissima, sciolta dal corpo, fu sommersa nell’abisso della chiarità divina e l’uomo beato s’addormentò nel Signore. (Fonti Francescane, Leggenda maggiore,1242-1243)

Con questa citazione edificante, terminiamo queste poche righe, con l’augurio di una proficua preghiera della Liturgia delle Ore, domani, 14 maggio 2020, festa di San Mattia apostolo.

Noi – dobbiamo confessarlo – non celebreremo alcuna giornata universale di preghiera contro la pandemia insieme a tutti i «fratelli» del mondo e di ogni credenza religiosa. Noi, con santa Madre Chiesa celebreremo la festa di San Mattia. Pregando, come ogni giorno da qualche tempo, per la liberazione dalla pandemia, ma non solo.

Una correzione che ci fa felici

Qualche giorno fa abbiamo ricevuto una mail da p. Antonio Montanari, patrologo, professore alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, ora cappellano all’Abbazia  Notre-Dame de Bon-Secours in Provenza. Le sue note ci rimproverano una libertà che ci siamo presi con troppa leggerezza. Avevamo riportato un paragrafo di Pascher (1) senza verificarne attentamente ed integralmente il contenuto: troppo concentrati su un’aspetto che intendevamo enfatizzare, ci è sfuggita un’affermazione, attinta dall’articolo del liturgista tedesco, ma che nel testo del nostro post abbiamo fatta nostra con troppa disinvoltura.

Ora il nostro benevole lettore ci corregge, e noi siamo ben felici di accogliere le sue precisazioni, facendone occasione per imparare e fare tesoro dell’altrui sapienza. Una critica davvero costruttiva, e una correzione dallo sbocco positivo (cf. Eb 12,11)

Tali censori saranno sempre benvenuti! Anche a nome di tanti altri lettori, ringraziamo p. Antonio per il suo appunto.

Il post cui p. Montanari si riferisce è quello relativo all’antifona d’introito della Messa di Pasqua (cf. qui). Ma ecco il cuore della correzione:

Ho letto stamattina il suo articolo Apparuit Simoni? che rimandava a un testo del 26 marzo 2016, a proposito dell’introito pasquale “Resurrexi et aduc tecum sum” nel quale afferma che si tratta di «una versione corrotta del salmo138». A questo riguardo cita Pascher, il quale definisce l’Introito di Pasqua un’ «antifona, che conserva l’errore di traduzione».

Nella stessa pagina riporta due bei testi di Benedetto XVI, che di liturgia se ne intende, il quale, nel Messaggio per la Pasqua 2008 scrive: «“Resurrexi et adhuc tecum sum – Sono risorto e sono ancora e sempre con te”. Queste parole, tratte da un’antica versione del Salmo 138 (v. 18b)». Giustamente, come ricorda Benedetto XVI, il versetto del Salmo 138 utilizzato come antifona d’Introito è tratto da un’antica versione latina del Salterio, condotta sul testo greco della Settanta, rimasta in uso nella liturgia anche dopo la Vulgata di san Girolamo”.

Dunque, non si tratta di una «versione corrotta» e tanto meno di un «errore di traduzione» del Salmo. L’anomalia sta invece nella versione attuale del Salterio, ripresa dal testo masoretico, senza tener conto della lunga tradizione liturgica che l’ha preceduta. Fino alla riforma liturgica successiva al Vaticano II non solo i testi della liturgia, ma la stessa Bibbia cristiana non è mai stata quella ebraica, bensì la Bibbia greca dei Settanta, dalla quale sono state ricavate le versioni antiche e non solo quella latina. È a partire dal testo greco della Settanta che i Padri e i loro successori hanno elaborato la liturgia e la loro teologia. È noto inoltre che la versione del Salterio che san Girolamo ha tradotto dall’ebraico non è mai stata utilizzata nella liturgia, che si serviva invece del Salterio gallicano, tradotto dal greco. Come si intuisce, il problema sta nella mancanza di memoria di chi ha imposto una novità – la nuova traduzione dall’ebraico del Salterio – che ha reso incomprensibili le antiche riletture cristologiche, consentite dal testo greco, che aveva tradotto l’ebraico Messia con il termine Christos, predisponendo in questo modo una lettura cristiana.


(1)  J. Pascher, «Il nuovo ordinamento della salmodia nella Liturgia romana delle Ore», in Liturgia delle Ore. Documenti ufficiali e Studi (Quaderni di Rivista Liturgica 14), Leumann (TO) 1972, 161-184.

 

Di sonno in sonno: strane vigilie, quelle pasquali.

Lo facemmo già per l’Ottava di Natale (cf qui); ora – mentre si scrive sono le 02.30 – non possiamo attardarci a farlo anche per l’Ottava di Pasqua. Eppure siamo convinti che l’analisi approfondita della distribuzione della salmodia riserverebbe bellissime sorprese, ad onore dei tanto vituperati periti del Consilium: non furono così scriteriati da rigettare le perle preziose della tradizione, al contrario ci hanno lasciato un tesoro incredibile.

Nei giorni in cui la salmodia delle lodi e dei vespri rimane sempre la medesima del giorno di Pasqua, è naturale fermare l’interesse sulla salmodia delle Ore minori, ossia le ore intermedie (Terza, Sesta o Nona) e l’Ufficio delle Letture. Come oggetto vogliamo qui prendere proprio l’antico ufficio vigilare, oggi riformato perché si possa pregare nell’ora più appropriata a seconda delle situazioni.

Osserviamo l’ufficiatura della domenica dell’Ottava, o Seconda di Pasqua. Abbiamo i tre consueti salmi che segnano l’inizio di un nuovo tempo liturgico o di un nuovo ciclo salmodico quadrisettimanale, ossia il salmo 1, il 2 e il 3. Nell’Ottava li abbiamo già pregati il lunedì, con le medesime antifone. Ci soffermiamo sulla terza, che riprende pressoché letteralmente il testo biblico: «Ego dormívi, et somnum cepi: et exsurréxi, quóniam Dóminus suscépit me, allelúia, allelúia. (Dormivo nel sonno della morte, e mi sono risvegliato: il Signore mi ha preso accanto a sé, alleluia)». La versione italiana del salmo non corrisponde perfettamente all’antifona: «Io mi corico, mi addormento e mi risveglio: il Signore mi sostiene» (Sal 3,6); assai più immediata è l’associazione fra antifona e testo latino: «Ego dormivi et soporatus sum exsurrexi qui Dominus suscipiet me». L’antifona e il salmo relativo è un dato tradizionale, che la Liturgia delle Ore conserva e rielabora, inserendolo sia all’inizio sia alla fine dell’Ottava pasquale.

Il tema del sonno e del risveglio è uno dei tanti aspetti del mistero pasquale. Si badi bene che non si tratta di un mero riferimento al ciclo biologico quotidiano. Il sonno è qualificato assai positivamente: non viene determinato solamente dalla fatica o dalla stanchezza, ma è un sonno sereno, calmo, serafico. Ce lo dice, curiosamente, il sabato santo: come primo salmo dell’Ufficio, proprio, abbiamo il salmo 4, con un antifona che  ne riprende l’ultimo versetto: «In pace in idípsum, dórmiam et requiéscam (Tranquillo mi addormento, e riposerò nella pace)»; la versione italiana del testo biblico recita: «In pace mi corico e subito mi addormento, perché tu solo, Signore, fiducioso mi fai riposare (Sal 4,9)»(1).

Nel sonno sereno e «fiducioso» di Cristo, nel giorno del grande silenzio sabbatico, è già annunciata la vittoria sulla tragica morte. Il sonno agitato lo ebbero gli inferi, quella notte! E dopo la mattina di Pasqua, per due volte, la liturgia ci fa ritornare su quel sonno, da cui il Signore Gesù si è risvegliato.

Certo che è davvero stravagante, la liturgia cristiana: in quelli che originariamente erano uffici vigilari, in cui davvero si «rompeva il sono», alzandosi nel cuore della notte a pregare, si parla di sonno a più non posso!

Beh, ora andiamo a dormire anche noi!

Non prima, però, di aver consigliato la lettura di una catechesi di Benedetto XVI sul Salmo 3: cf. qui, per arricchirne la preghiera: quel sonno di Cristo fu anche il sonno di Davide…


(1) Si ricorderà che il Salmo 4 è il primo salmo della compieta della notte fra il sabato e la domenica. L’antifona è: «In te confido, Signore, e in pace mi addormento».

Ancora sulle antifone

Sovente da queste pagine facciamo osservazioni e considerazioni sulle antifone che impreziosiscono la preghiera dei salmi come pure l’eucologia delle celebrazioni eucaristiche. A proposito dell’uso che ne fa la Liturgia delle Ore, è fondamentale la lettura degli articoli dei Principi e Norme per la Liturgia delle Ore, dal numero 110 al 120. Pensiamo di fare cosa gradita nel proporre alcuni paragrafi di un domenicano francese, teologo e musicista. Perdonerete la lunga citazione, e il finale rinvio ad un post datato, ma adatto a questo tempo.

Posta prima e dopo il salmo, l’antifona è quel canto singolare che ne offre la chiave di lettura. Si tratta in questo caso di una vera e propria invenzione dei cristiani. Già nel IV secolo Ambrogio di Milano faceva pregare i suoi in questo modo per meditare la Parola di Dio. Ogni volta che veniva celebrata una festa erano molti i salmi da cantare; come fare per comprenderli, per intenderli? L’antifona, un pò come il ritornello di una canzone, conferiva al salmo l’atmosfera del giorno. A Pasqua, a Natale, o in occasione delle feste dei santi, lo stesso salmo poteva così assumere una dimensione differente.

Spesso breve, estremamente coincisa – talora anzi si tratta semplicemente di una frase del salmo un pò rielaborata -, l’antifona illumina di nuova luce un testo già conosciuto perché sovente ripetuto. Spesso tratta dalla Scrittura, ad esempio dal vangelo stesso, mostra in fin dei conti come si operava nella liturgia la sintesi tra l’antico e il nuovo, tra i testi «del passato» e la persona di Cristo. Non bisogna esitare a parlare qui di riappropriazione cristiana dell’eredità biblica. Da questo punto di vista, la letteratura liturgica è uno strumento che permette a ciascuno di dire «io», in chiave poetica e musicale. E’ esattamento in questo senso che bisogna intendere l’antifona: essa mette in sintonia un determinato canto con la festa che si sta celebrando. Le antifone venivano cantate sempre in piedi, abitudine che i religiosi hanno conservato. Prima e dopo il salmo, ma anche, talora, nel corpo del salmo: quando i cantori e le scholae ne avevano cantati i versetti, il popolo li riprendeva. L’antifona diventava così la risposta dell’assemblea che faceva eco al canto dei solisti. In questo si evidenzia un aspetto molto importante: l’antifona è la preghiera che si ripete a memoria. Breve, con una nota per sillaba o un passaggio sobriamente ornamentale – a differenza di altri brani della liturgia -,è uno sviluppo meditativo del testo, un teso cantato semplicemente, sobriamente, festosamente dall’assemblea in risposta all’ascolto del salmo. […] [I Salmi] Sono il tesoro di un popolo di credenti. Gli sono stati donati. E’ nella carne del popolo di Israele che questa parola biblica è stata rivelata. I cristiani seguono umilmente le orme dei figli della stessa promessa. Scrittura e liturgia sono le due mammelle della fede: prima ancora che nascesse un teologia, c’era un popolo che salmodiava, un popolo che ruminava la Parola, un popolo che custodiva la memoria.

A. Gouzes, La notte luminosa. Iniziazione al mistero della Pasqua, Magnano (BI) 2015, 46-47.49.

Sarà sufficiente usare l’opzione di ricerca per trovare vari post dedicati a diverse antifone: se ne indica uno in tema ai giorni attuali del triduo pasquale: vedi qui.

Ancora sul Salmo 86. Il mirabile tessuto di interpretazioni convergenti

I tempi liturgici cosiddetti “forti” sono assai interessanti agli occhi di un liturgista, perché in essi si contempla in modo eccelso la sapiente attenzione e maestria con le quali la tradizione della madre Chiesa li ha cesellati. L’ottava di Natale rimane, in questo senso, esemplare. Già ne avevamo mostrati alcuni aspetti, soffermandoci sulla salmodia (cf. qui). Ora ne riprendiamo un dettaglio, continuando le riflessioni sull’uso del Salmo 86, di cui abbiamo detto qualcosa nel post precedente.

Così, prima di riporre il primo volume della Liturgia delle Ore – da domani riprende il Tempo Ordinario -, ne sfogliamo di nuovo le pagine, ritornando appunto all’Ottava di Natale: nello spazio di pochi giorni, il salmo in questione viene pregato due volte, entrambe nell’Ufficio delle Letture, a differenza del corso normale del salterio distribuito nelle quattro settimane, in cui il Salmo 86 è usato – come notavamo – per le Lodi.

La prima occorrenza è prevista nella domenica dopo il Natale, festa della Santa Famiglia. Essa si spiega con il fatto che la salmodia è tratta dal comune della Beata Vergine Maria, che prevede come terzo salmo dell’Ufficio appunto il nostro salmo. Sul perché quest’ultimo sia stato scelto per il comune delle feste mariane si dirà qualcosa dopo. Per il momento notiamo che l’antifona corrispondente è strettamente legata alla festa della Santa Famiglia, senza avere particolari aderenze al salmo: Giuseppe si alzò nella notte, prese con sé il bambino e sua madre, e si rifugiò in Egitto (Consurgens Ioseph accepit Puerum et Matrem eius nocte, et secessit in Aegyptum)».

Molto più significativa è la seconda occorrenza, nella solennità di Maria santissima Madre di Dio. In questo caso antifona e salmo sono intimamente connesse, rendendo evidente l’interpretazione cristologica, e mariana allo stesso tempo, del salmo. Ciò parrebbe indice di antichità; purtroppo non siamo in grado, ora, di approfondire quanto ci lascia intravedere la relazione della commissione incaricata della distribuzione dei salmi, citata nel nostro post indicato, che giustificava la presenza del Salmo 86 nell’Ottava di Natale con il fatto che tale salmo fosse tradizionale dell’Ufficio natalizio proprio della Basilica di Santa Maria Maggiore, il santuario romano legato al mistero di Betlemme. Una pista assai interessante, che qui possiamo solamente indicare. Tornando, invece, all’antifona, ne rimaniamo affascinati per la mirabile ed ispirata composizione, che naturalmente prende le mosse dal testo latino del salmo nella versione della Vulgata: «Un Uomo è nato in lei: l’Altissimo ha consacrato la sua dimora (Homo natus est in ea, et ipse fundavit eam Altissimus)». Ad una lettura cristiana e credente, quell’«homo» non poteva essere che il nuovo nato nella stirpe di Davide, il Messia promesso, il Figlio di Dio, di cui il Natale celebra l’Incarnazione.

Tornando infine alla presenza del salmo nel comune della Beata Vergine Maria, ci aiuta a capirne la motivazione ancora un’antifona, questa volta dell’Ufficio della Solennità dell’Immacolata Concezione, l’otto dicembre. Come terzo salmo dell’Ufficio delle Letture troviamo ancora il salmo 86, preceduto dal testo antifonale: «Meraviglie si cantano di te, città di Dio: il Signore ti ha costruita sulla santa montagna».

Si rimane davvero stupiti di come l’interpretazione mariana del salmo prevalga nel tempo proprio del Natale, completando e affiancando l’altro filone esegetico che ne fa un salmo ecclesiologico – così vedevamo a proposito della presenza di esso nell’Ufficio delle Lodi nella distribuzione quadrisettimanale. Con ciò si dimostra, anche nei testi della liturgia, la verità di quanto bene affermava Isacco della Stella: «quel che si dice in modo speciale della vergine madre Maria, va riferito in generale alla vergine madre Chiesa; e quanto si dice d’una delle due, può essere inteso indifferentemente dell’una e dell’altra. Anche la singola anima fedele può essere considerata come Sposa del Verbo di Dio, madre figlia e sorella di Cristo, vergine e feconda. […] Eredità del Signore in modo universale è la Chiesa, in modo speciale Maria, in modo particolare ogni anima fedele. Nel tabernacolo del grembo di Maria Cristo dimorò nove mesi, nel tabernacolo della fede della Chiesa sino alla fine del mondo, nella conoscenza e nell’amore dell’anima fedele per l’eternità (Disc. 51)».


P.S. Queste brevi considerazioni hanno avuto il loro spunto nella preghiera personale del Salterio, ma hanno trovato conferma e fondamento grazie al sempre utilissimo lavoro di Felix M. Arocena e José A. Goñi, Psalterium Liturgicum. Psalterium crescit cum psallente Ecclesia, I, Roma 2005.

 

“Mattinar lo sposo”: elogio della sposa per celebrarne il consorte

Può essere di qualche aiuto tentare di rispondere ad una questione sortaci mentre – ahimè! l’irrequieta fantasia dove ci porta! – si pregavano le Lodi dello scorso giovedì della III settimana del Salterio: come mai, al primo posto della sezione salmodica della liturgia, è stato posto il salmo 86(87)?  Che c’entra questo salmo che canta Sion come madre di tutti i popoli con il carattere mattinale che, di solito e facilmente, incontriamo nel primo dei salmi delle Lodi? E’ noto che dal tradizionalissimo, e universalmente riconosciuto quale «proprio» ed esemplare delle Lodi, Salmo 62 («O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco…»), i curatori della nuova Liturgia delle Ore, dopo il Concilio Vaticano II, hanno fatto discendere un criterio basilare: come primo salmo delle Lodi è bene che vi sia un testo che esprima un qualche legame con l’ora della preghiera; la «verità dell’ora» dovrebbe infatti coinvolgere tutti gli elementi della celebrazione, non solo gli Inni o le preghiere, ma anche – in qualche modo – i Salmi.

Così, ad es., nel lunedì della prima settimana, come primo Salmo delle Lodi, incontriamo il Sal 5 (cf. v. 4: «Al mattino ascolta la mia voce, fin dal mattino t’invoco e sto in attesa»); per il giovedì della I settimana è previsto il Sal 56(57) (cf. vv. 8-9: «Voglio cantare, a te voglio inneggiare: svegliati, mio cuore…voglio svegliare l’aurora); passando al lunedì della IV settimana, incontriamo il Sal 89(90) (cf. v. 14: «Saziaci al mattino con la tua grazia…») o al martedì seguente, il Sal 100(101) (cf. v. 8: «Sterminerò ogni mattina tutti gli empi del paese») etc.

Chi avrà modo di soffermarsi con questa prospettiva sui salmi adottati giorno per giorno noterà riferimenti anche meno espliciti e più sfumati al tema della prima ora del nuovo giorno (ricordiamo che il risveglio mattutino è analogicamente connesso al risveglio di Cristo dal sonno della morte). Ma, allo stesso tempo, non di tutti i salmi la presenza può esserne spiegata con questo unico criterio. Fra essi, appunto il salmo 86. Vediamo cosa ne dice uno dei periti che lavorò alla riforma del salterio: anche se p. Raffa non lavorò direttamente e specificamente alla nuova distribuzione quadrisettimanale del salterio, la sua parola è assolutamente autorevole:

«I salmi 83 e 86, attraverso la Sion antica, che ne forma il soggetto, richiamano la comunità di culto e della lode che è la Chiesa, sottolineando anche la vera prospettiva della lode ecclesiale, che è quella escatologica. […] Se vogliamo riassumere sinteticamente alcuni criteri di assegnazione dei salmi all’inizio della triade possiamo farlo con queste espressioni: salmi mattutini, tradizionali, programmatici per la giornata, riferiti al mistero della vittoria di Cristo, oggetto celebrativo delle Lodi. Inoltre: salmi escatologici, penitenziali, sulla legge. Salmi di rendimento di grazie per il nuovo giorno, per lo meno considerati nel contesto liturgico concreto. Infine: salmi scelti fra i più belli e facili in considerazione della destinazione anche popolare delle Lodi. Nei salmi di Sion possiamo vedere in filigrana la Chiesa, la nuova città santa, la “Sposa” (“pronta come sposa adorna per il suo sposo: Ap 21), che sorge a “mattinar lo sposo”» (1).

Da notare assolutamente il dotto riferimento che il liturgista orionino incastona alla fine del paragrafo. Si tratta di una citazione del decimo Canto del Paradiso, della Divina Commedia (2). Non si tratta di un vezzo enciclopedico, perché questo collegamento – lungi dall’essere una mera e sterile esibizione culturale – riporta la considerazione al tema centrale in modo assolutamente originale e affascinante. Dante associa poeticamente il sorgere mattiniero della chiesa nella sua liturgia l’immagine della sposa che sveglia dolcemente lo sposo.

Mattinar lo sposo perché l’ami!! A nessuno di tanti e bravi professoroni di liturgia sarebbe mai venuta in mente una così bella descrizione della Liturgia delle Lodi mattutine.

Ritornando al nostro Salmo, ricollocandolo a partire da queste suggestioni, pare finalizzato ad aiutare chi lo prega nel diventare di nuovo e di più consapevole e grato della propria appartenenza alla celeste Gerusalemme; rendendosi conto – anche un in un qualsiasi ed ordinario giovedì mattina – di essere in certo modo la Sposa di cui lo Sposo «dice cose stupende», sarà facile entrare nella lode e infiammarsi d’amore per cotanto Consorte!


(1) V. Raffa, La liturgia delle Ore. Presentazione storica, teologica e pastorale (Collana di teologia e di spiritualità, 8), Milano 1990³, 114. Un’altra importante indicazione la troviamo nel prezioso Cuadernos Phase 83, in cui P. Farnés commenta così l’inserimento del salmo 86 fra quelli della prima serie, quella «mattinale»: «Se trata de un salmo escatologico referido a la futura ciudad mesianica inaugurata con la resurrecion de Jesucristo» (25).

(2) «Indi, come orologio che ne chiami / ne l’ora che la sposa di Dio surge / a mattinar lo sposo perché l’ami»: Dante Alighieri, Paradiso, X, 139-141.

La liturgia, ovvero la mente aperta per comprendere le Scritture

«Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture» (Lc 24,44-45).

Diversi esegeti hanno sottolineato come i versetti lucani proclamati nel vangelo del quinto giorno dell’Ottava di Pasqua siano interessanti per la rivendicazione di Cristo a riguardo del senso delle Scritture e, qui in particolare, dei Salmi. La liturgia, tuttavia, si mostra assai ben più docile e pronta a fare propri gli insegnamenti di Gesù rispetto ad altre branche della teologia. Una prova?

Guardiamo l’ufficiatura dell’Ottava, e scopriremo dati significativi. Ci soffermiamo sulle sezioni salmodica dell’Ufficio delle Letture, tralasciando qui quelle delle due Ore principali – Lodi e Vespri – che si ripetono invariate dalla Pasqua alla Domenica in Albis.

Nei giorni dell’Ottava troviamo antifone e salmi propri, che cioè non seguono il consueto e ripetitivo schema delle quattro settimane, ma sono selezionati in base a richiami letterali o comunque tematicamente riferiti al mistero pasquale. E se il lunedì dell’Ottava parrebbe simile a qualsiasi lunedì della prima settimana del salterio (vi sono i salmi 1, 2 e 3), le antifone fugano ogni dubbio e ci ricordano che siamo davanti a qualcosa di unico. La sapienza della Chiesa, nella sua tradizione liturgica, ha elaborato infatti delle antifone davvero speciali, rileggendo i salmi in chiave eminentemente cristologica. La liturgia – poggiando sulle parole del Maestro – attribuisce in modo eminente a Lui i salmi, ritoccandone i versetti, perché diventino ancora più esplicitamente parole sue. Non si tratta di interventi indebiti e arbitrari, ma di espressione di fede pasquale e di obbedienza all’insegnamento del Signore.

In uno specchietto, ciò a cui ci si è riferiti:

foto documento pasqua

Un’ultima cosa, degna di nota, è il fatto che la composizione di queste antifone e di questi salmi è antichissima. Si tratta, infatti, del Mattutino di Pasqua testimoniato già nell’Ordo Romanus XXVIII. A detta di Righetti possiamo datarla all’VIII secolo (1). La riforma liturgica – ebbene sì, non furono così devastori i periti del Consilium – conservò questo tesoro e lo ricollocò nel primo giorno dell’Ottava. Insomma, una bella pagina di fedeltà alla tradizione ecclesiale e una professione di fede cristologica che ha pochi pari: attraverso la liturgia, oggi, il Maestro ci insegna ad aprire la mente alle Scritture e ci aiuta a leggere nei salmi «ciò che si riferisce a Lui».


(1) M. Righetti, Manuale di storia liturgica, II. L’anno liturgico – Il Breviario, Milano 1998 (ed. anastatica), 280.

Cosa nostra

Con questo post singolare vorremmo ritornare su alcuni aspetti della parabola del figliol prodigo, o come la si voglia chiamare. Ne riproporremo un’interpretazione che, forse, necessita la rilettura del post immediatamente precedente a questo (qui).

La preghiera meditata dell’Ufficio delle Letture del giovedì della IV settimana di Quaresima ci ha suggerito alcuni agganci interessanti fra la pericope di Luca 15 e quanto predicò San Leone Magno, e che è proposto appunto come seconda lettura dell’Ufficio del giorno. Quindi si tratta non tanto di un elogio alla mafia siciliana – «cosa nostra» -, quanto piuttosto un riconoscimento della geniale predicazione leoniana.

Ci perdoni però il grande papa se rileggiamo le sue parole, superando sicuramente l’intentio auctoris, quanto Leone voleva realmente trasmettere; lo facciamo perché ci pare che possa aiutarci a cogliere sempre di più la ricchezza della parabola, che di certo lui aveva ben compresto. Faremo pertanto delle notazioni lungo il testo dell’omelia, sperando di non commettere un sacrilegio eccessivo.

Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa
(Disc. 15 sulla passione del Signore, 3-4; Pl 54, 366-367)

Colui che vuole onorare veramente la passione del Signore deve guardare con gli occhi del cuore Gesù Crocifisso, in modo da riconoscere nella sua carne la propria carne.
Tremi la creatura di fronte al supplizio del suo Redentore. Si spezzino le pietre dei cuori infedeli, ed escano fuori travolgendo ogni ostacolo coloro che giacevano nella tomba. Appaiano anche ora nella città santa, cioè nella Chiesa di Dio, i segni della futura risurrezione e, ciò che un giorno deve verificarsi nei corpi, si compia ora nei cuori.
A nessuno, anche se debole e inerme, è negata la vittoria della croce, e non v’è uomo al quale non rechi soccorso la mediazione di Cristo. Se giovò a molti che infierivano contro di lui, quanto maggiore beneficio apporterà a coloro che a lui si rivolgono! 
L’ignoranza dell’incredulità è stata cancellata. E` stata ridotta la difficoltà del cammino. Il sacro sangue di Cristo ha spento il fuoco di quella spada, che sbarrava l’accesso al regno della vita. Le tenebre dell’antica notte hanno ceduto il posto alla vera luce.
Il popolo cristiano è invitato alle ricchezze del paradiso. Per tutti i battezzati si apre il passaggio per il ritorno alla patria perduta, a meno che qualcuno non voglia precludersi da se stesso quella via, che pure si aprì alla fede del ladrone. [Qui c’è l’esperienza del figlio minore, ritornato nella casa paterna, dopo l’esilio volontario nella terra della sua alienazione; e c’è il rischio del fratello maggiore, che sdegnato non vorrebbe avere niente in comune con un fratello – nella cui carne dovrebbe invece riconoscere la propria carne – né con un padre così remissivo e indulgente ad una festa ai suoi occhi ingiusta e ingiustificata.] Procuriamo che le attività della vita presente non creino in noi o troppa ansietà o troppa presunzione sino al punto da annullare l’impegno di conformarci al nostro Redentore, nell’imitazione dei suoi esempi. Nulla infatti egli fece o soffrì se non per la nostra salvezza, perché la virtù, che era nel Capo, fosse posseduta anche dal Corpo«Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14) nessuno lasciando privo della misericordia, ad eccezione di chi rifiuta di credere. E come potrà rimanere fuori della comunione con Cristo chi accoglie colui che ha preso la sua stessa natura e viene rigenerato dal medesimo Spirito, per opera del quale Cristo è nato? Chi non lo riterrebbe della nostra condizione umana sapendo che nella sua vita c’era posto per l’uso del cibo, per il riposo, il sonno, le ansie, la tristezza, la compassione e le lacrime?
Proprio perché questa nostra natura doveva essere risanata dalle antiche ferite e purificata dalla feccia del peccato, l’Unigenito Figlio di Dio si fece anche Figlio dell’uomo e riunì in sé autentica natura umana e pienezza di divinità. E’ cosa nostra ciò che giacque esanime nel sepolcro, che è risorto il terzo giorno, che è salito al di sopra di tutte le altezze alla destra della maestà del Padre. [E’ cosa nostra!! «Figlio… tutto ciò che è mio è tuo», diceva il padre dei fratelli al maggiore; e, poi, «questo tuo fratello era morto…», a ricordargli che quell’incauto scialaquatore delle paterne sostanze non era solamente un figlio di un padre troppo arrendevole – «questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi» -, ma pur sempre suo fratello. Leone Magno ha ben capito che occorre sul serio appropriarsi delle sostanze autentiche del Padre. Il figlio minore pretendeva le sostanze piccole, i beni materiali, il maggiore era pieno di risentimento per un capretto non concesso benché nemmeno richiesto….entrambi non hanno compreso come il Padre volesse far parte con loro di beni molto più preziosi: la sua natura, il suo amore, la sua vita. Proprio perché Cristo è diventato cosa nostra, proprio perché il vitello grasso è stato finalmente immolato, possiamo essere sicuri che la misericordia di Dio sia anch’essa cosa nostra, sia per noi per primi, investa la nostra debolezza; e poi cosa nostra diventa pure un fratello che cade, da riaccogliere con gioia.]

Nostrum est quod exanime in sepulcro iacuit, et quod die tertia resurrexit!

 

 

Maiali, capretti, vitelli, agnelli. Non pare affatto una domenica quaresimale…

Dopo aver ascoltato vari commenti e letto qua e là, su libri e sul web, a proposito della Liturgia della Parola della IV domenica del tempo quaresimale, quest’anno secondo lo schema C, diciamo qualcosa pure noi. O, meglio, riportiamo le parole del grande Romano il Melode, il quale, sebbene si firmasse umile Romano – in modo acrostico nelle strofe dei suoi testi -, riesce spesso a sorprenderci per la ricchezza delle sue immagini interpretative. Il nostro autore ci aiuta a ricentrare il brano evangelico in tutta la sua portata cristologica, per non rischiare di perdere aspetti importanti avendone sottolineato eccessivamente altri.

In effetti, se non ci lascia prendere subito da considerazioni morali e psicologiche intorno ai due fratelli e al loro padre, fanno specie, in una domenica di Quaresima, letture così «carnali», con un’insistenza ripetuta sul mangiare e sulle carni, per di più. La prima lettura ribadisce solennemente, a proposito del popolo di Israele arrivato finalmente nella terra promessa: «mangiarono i prodotti della terra…mangiarono i frutti della terra di Canaan». Ma è poi il vangelo ad essere molto esplicito nel farci immaginare carni succulente e consumate in festosa convivialità: un capretto desiderato per una festa e un vitello grasso «cotto e mangiato», si direbbe a sottolineare il repentino giungere dell’occasione giusta, per la quale inconsapevolmente (?) era stato foraggiato. Da non dimenticare il contesto ampio delle letture, la celebrazione sacramentale dell’eucarestia, e segnatamente le parole prima della comunione: Ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi. Beati qui ad cenam Agni vocati sunt (1).

Una domenica di banchetti, quindi. Ecco perché ci pare faccia bene il Melode ad attardarsi su uno dei protagonisti della parabola, oltre ai celebri componenti della trilogia familiare, il padre e i due fratelli: il vitello grasso!

Orsù, apprestateci il santissimo banchetto, sacrificate senza esitazione il vitello messo al mondo da una Madre vergine. […] Per il peccatore, ve l’ho già ordinato, sacrificate subito il vitello, il virgineo Figlio della Vergine che non si assoggettò al giogo del peccato, ma cammina spedito avanti a quanti lo vorrebbero trascinare. Egli infatti non si ribella di fronte al sacrificio, ma spontaneamente piega il capo a quanti si apprestano ad ucciderlo. Trascinate, immolate il Dispensatore della vita, che è sacrificato, ma non è messo a morte, e dona la vita a tutti gli ospiti dell’Ade, colui che noi mangiamo per essere nel gaudio. […] Sacerdoti, miei fedeli servitori, immolate questo vitello e a tutti i meritevoli del mio banchetto, datelo a mangiare, vitello senza macchia, puro alla perfezione, nutrito dalla terra non seminata che egli stesso creò. Offrite a loro anche la preziosa bevanda, il sangue e l’acqua che sgrogano dal suo fianco per tutti i credenti. Tutti, e in ogni tempo, mangiatene: smembrato che egli sia, non è per questo spartito, né diviso, né consumato, ma per l’eternità sazia gli uomini tutti. Egli si offre in cibo santissimo nel suo amore per gli uomini, lui, Padrone dei secoli e Signore. Mentre la schiera dei commensali era in festa e tutti cantavano nella gioia inni a Dio, il padre per primo dette un segnale agli invitati, dicendo: Gustate e vedete che sono il Cristo. Dopo di lui, il Salmista, accompagnandosi con la cetra, intona con voce dolcissima: Presto, portate vittime pure e benedette sull’altare consacrato; sacrificate un vitello con azioni di grazie. Poi Paolo ad alta voce pronuncia: La nostra Pasqua è stata immolata, Gesù Cristo, il Padrone dei secoli e Signore. Gli angeli che prestavano servizio al banchetto, vedendo che i presenti si rallegravano e cantavano armoniosamente, vollero imitarli intonando il loro inno. Qual’è questo inno? Ascoltiamolo, di grazia: Santo sei, Padre, che oggi hai accettato che sia immolato per gli uomini il vitello senza macchia. Santo è anche il tuo Figlio volontariamente sgozzato alla stregua di un vitello immacolato, che santifica coloro che sono battezzati nell’acqua salutare della piscina. Santo è anche lo Spirito, accordato in dono ai credenti dal Padrone dei secoli e Signore (2)

Infine, la poetica ispirata di Romano azzarda un happy end di cui solitamente non si dice nulla:

Così, figlio mio, rallegrati con tutti gli invitati al banchetto, e unisciti nel canto a tutti gli Angeli, perché tuo fratello era perduto ed eccolo ritrovato, era morto e, contro ogni attesa, eccolo risuscitato. A queste parole, l’altro fratello si lasciò convincere, si felicitò con il fratello e prese a salmodiare così: Elevate acclamazioni, tutti! Beati quelli ai quali i peccati sono stati condonati, e le colpe dei quali sono state arrestate e cancellate! Ti benedico, o Amico degli uomini, che hai salvato anche mio fratello, tu Padrone dei secoli e Signore (3)


(1) Prima o poi si dovrà chiarire l’improvvida inversione della versione italiana, che peggiora ulteriormente una già triste omissione: è una cena di nozze, quella dell’Agnello!

(2) Romano il Melode, Inni (Letture cristiane delle origini 13), XXXII,1.8-11, Milano 1981, 306.308-309.

(3) Ibid., XXX,21, 312.

Povero Natan, da profeta di Dio a giornalista d’inchiesta. Ovvero dell’autorità che pare mancare nella Chiesa

Non volevamo crederci, e abbiamo atteso che qualche commentatore si facesse avanti. Pare, invece, che sia passato sotto silenzio l’azzardato parallelismo fra la missione di Natan presso l’adultero e omicida Re Davide e il lavoro dei giornalisti nella ricerca e denuncia dei drammatici casi di abusi (1). Non ce ne voglia la categoria: non si nega l’importanza e, talvolta, il ruolo decisivo di inchieste giornalistiche nel smascherare casi complicati e occulti, ma che da quella simbolica e profonda vicenda biblica venga assunto questo parallelismo pare un insolito e assai riduttivo appiattimento a categorie mondane.

Il testo della Scrittura lo evidenzia in modo ripetuto: quella di Natan è una missione profetica ispirata da Dio; Natan è sì «inviato speciale», ma non nel senso in cui le testate giornalistiche presentano gli articoli di loro collaboratori, mandati sul campo per capire meglio e raccontare fatti e notizie particolari («dal nostro inviato speciale n.n….»), a meno che non si vogliano intendere le redazioni e i direttori dei mezzi di informazione come «padreterni». Ad essere sinceri, immaginiamo che alla smisurata opinione di sé, che alcuni di loro posseggono, l’accostamento solleticherebbe… Ma torniamo a Natan: i primi versetti del capitolo 12 del secondo libro di Samuele, concettualmente consequenziali agli ultimi del cap. 11, sono quelli tipici e preclari di una chiamata divina: «Il Signore mandò il profeta Natan a Davide, e Natan andò da lui e gli disse…»; Natan parla e agisce con l’autorità divina, con finezza proverbiale smaschera Davide e il male da lui compiuto, in modo che il re possa prenderne coscienza e possa distaccarsene, pentendosi ed essendo disposto a portarne le conseguenze. E proprio per questo, al termine del dialogo con Natan, Davide potrà udire, da parte dello stesso profeta, sorprendenti parole di perdono e misericordia: «Natan rispose a Davide: «Il Signore ha rimosso il tuo peccato…» (2Sam 12,13). Questa dinamica è resa di nuovo evidente dalla prime parole del più celebre dei salmi penitenziali: «Al maestro del coro. Salmo. Di Davide.  Quando il profeta Natan andò da lui, che era andato con Betsabea» (Sal 51,1-2). La missione di Natan è un atto di misericordia, nonostante le parole da lui pronunciate siano terribili e dure. La sua denuncia è una correzione; la riparazione della giustizia infranta dal peccato di Davide sarà il cuore contrito del re peccatore.

C’è dunque ben altro rispetto al mero svelamento di un peccato occulto! Tanto che il meglio della scienza (2) biblica ha individuato in questa vicenda l’esemplificazione principe  di una dinamica giudiziale presente nel popolo di Israele, che nella Sacra Scrittura in più pagine è testimoniata, il cosiddetto rîb. Lo schema e le categorie sono assunte dal mondo forense e del diritto violato, ma traspare in modo altrettanto netto il sottofondo teologico della chiamata alla conversione e dell’offerta della misericordia.

Sono le stesse dinamiche che – crediamo di averlo dimostrato (3) – soggiacciono alle intenzioni di riforma del nuovo rito della penitenza. In questo aspetto, assai più di altri, il Concilio Vaticano II attende ancora di essere attuato!

Se quindi si parla di Natan, ci si inoltra in un contesto penitenziale, nel senso più eminente ed ampio, incluso anche quello sacramentale: la figura del profeta che denuncia il male commesso da Davide reca con sé un portato e una ricchezza teologica e spirituale così rilevante che ci pare davvero un peccato il fatto che possa essere ridotta ad un’immagine ad effetto. Quella che ci pare davvero una banalizzazione mostra fra l’altro – almeno fino a prova contraria – la mancanza di una comprensione del fenomeno alla luce della fede e, in misura ancora più drammatica, la latitanza sconcertante di chi avrebbe l’autorità per parlare come Natan; di quanti, rivestiti di una potestà e di un ministero, dovrebbero accusare con chiarezza il male e chi lo compie, mossi dallo stesso desiderio di Dio, che venga ristabilita la giustizia, che i peccatori si convertano e che le ferite possano essere risanate.

Si chiede giustamente che si rompa il silenzio: che tristezza non sperare che siano profeti e uomini di Dio a farlo! Che sconfitta dover confidare nelle inchieste dei mezzi di informazione!


(1) Cf. il testo ufficiale del Discorso di Papa Francesco alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, qui. I mezzi di informazione non hanno avuto alcun dubbio nell’attribuirsi in toto la citazione papale, che di per sé non è del tutto univoca. Non è del resto giunta nessuna precisazione o smentita del senso che la stampa ha attribuito a quella parte del testo.

(2) Si veda, ad es., https://liturgiaebibbia.com/2015/03/05/amore-eo-accusa-dalla-bibbia-nuova-luce-sul-perdono-e-sulla-sua-celebrazione-sacramentale/

(3) Si possono vedere alcuni post pubblicati da tempo, con gli ulteriori altri rimandi: