La settimana dello Spirito. Che inizia con l’esultanza della carne!

Ogni santo lunedì di Pasqua – eccetto il lunedì dell’Ottava -, la liturgia ci ha presentato un versetto transitorio tratto dal Salmo 83: Esultano il mio cuore e la mia carne, alleluia. Nel Dio vivente, alleluia. Questo lunedì della VII settimana di Pasqua, il Salmo 83 era pure il primo salmo delle Lodi, con la sua antifona salmica: Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente, alleluia (avevamo già scritto qualcosa a proposito, qui).

Forse questa duplice occorrenza non stupirebbe più di tanto. Eppure è curiosa tale insistenza il giorno dopo, almeno in Italia, aver celebrato la sollennità dell’Ascensione al cielo del Signore Gesù. Ad essere sinceri, noi avevamo desta l’attenzione a causa della lettura di alcuni testi di Joseph Ratzinger, a proposito di questo mistero.

I testi liturgici della Chiesa d’Oriente mettono in evidenza anche un altro aspetto di quell’evento. Vi si legge: “Il Signore è risorto, per risollevare l’immagine decaduta di Adamo e per mandarci lo Spirito che santifica le nostre anime”. L’Ascensione di Cristo rivela anche l’aspetto a prima vista nascosto dell’Ecce homo. Pilato ha mostrato alla folla radunata il Gesù reietto e abbattuto, rinviandolo in tal modo al volto oltraggiato e umiliato dell’uomo come tale. “Guardate, questo è l’uomo”, aveva detto. […] L’evoluzionismo ci riporta al passato, ci mostra il risultato delle sue ricerche, l’argilla da cui è venuto l’uomo, e ci martella: questo è l’uomo. Sì, l’immagine di Adamo è decaduta; giace nella sporcizia e continuerà ad essere sporcata. Ma l’Ascensione di Cristo dice ai discepoli, dice a noi: il gesto di Pilato è solo una mezza verità, e ancor meno di questo. Cristo non è solo il volto insanguinato e trafitto; egli è il Signore di tutto il mondo. Ma la sua signoria non umilia la terra, le restituisce il suo splendore, la possibilità di parlare della bellezza e della potenza di Dio. Cristo ha risollevato l’immagine di Adamo: voi non siete solo sporcizia; vi innalzate al di sopra di tutte le dimensioni cosmiche fino al cuore di Dio. L’Ascensione di Cristo è la riabilitazione dell’uomo. […] Ci dice che l’uomo può vivere rivolto verso l’alto, che è capace dell’altezza. Di più: l’altezza che sola corrisponde alla misura dell’uomo è l’altezza di Dio stesso. A questa altezza l’uomo può vivere e solo da questa altezza possiamo comprenderlo davvero. […] Non si comprende l’uomo se ci si chiede solo da dove viene. Lo si comprende solo se ci si chiede anche dove può andare. Solo dalla sua altezza risulta chiara davvero la sua essenza. […] Solo partendo da qui si può imparare ad amare l’umanità in sé e negli altri. Per questo la parola più importante nei riguardi dell’uomo non può essere l’accusa. Certo l’accusa è necessaria, perché la colpa sia riconosciuta come colpa e sia distinta dalla vera essenza dell’uomo. […] L’antidoto più efficace contro la rovina dell’uomo risiede nella memoria della sua grandezza, non in quella della sua miseria. L’Ascensione di Cristo risveglia in noi la memoria della grandezza. Essa ci rende immuni rispetto al falso moralismo che getta discredito sull’uomo. Essa ci insegna il rispetto per l’umanità e ci restituisce la gioia di essere uomini. [J. Ratzinger, Immagini di speranza, Cinisello Balsamo 1999, 51-53]

Ritornando per un attimo ai testi della Liturgia, colpisce la diversa sfumatura che assume il Communicantes proprio della solennità dell’Ascensione della prima preghiera eucaristica rispetto alla seconda e alla terza:

In comunione con tutta la Chiesa, mentre celebriamo il giorno santissimo nel quale il tuo unigenito Figlio, nostro Signore, ha portato alle altezze della tua gloria la fragile nostra natura, che egli aveva unito a sé, ricordiamo e veneriamo….

Ricordati, Padre, della tua Chiesa… e qui convocata nel giorno glorioso dell’Ascensione in cui Cristo è stato costituito Signore del cielo e della terra…

Finiamo di nuovo con Ratzinger:

Le parole fiduciose con le quali un padre della Chiesa, l’africano Tertulliano, più di 1500 anni fa ha riassunto il senso dell’Ascensione di Cristo al cielo sono oggi attuali come allora: “Consolatevi, carne e sangue: in Cristo avete preso possesso del cielo e del regno di Dio!” (De car. Chr. 17). [J. Ratzinger, Opera Omnia VI/2, Gesù di Nazaret. Scritti di Cristologia, Città del Vaticano 2015, 276]

E noi, consolati davvero, ripetiamo: Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente!

Un salmo compiuto. Ancora sulle antifone

Con molto ritardo sull’effettiva contemporaneità della preghiera proposta dal corso della Liturgia delle Ore, vorremmo di nuovo sottolineare un piccolo particolare. Ci siamo più volte soffermati, tentando di suscitare apprezzamento e gusto per la preghiera del Salterio, anche sui minimi dettagli: aggiungiamo ora un altro esempio.

L’ufficiatura dei primi vespri della V domenica di Pasqua segue il consueto ciclo di distribuzione salmica in quattro settimane. Di proprio abbiamo, analogamente alla  Quaresima, le antifone. Il secondo salmo è il 141, Con la mia voce al Signore grido aiuto. Il titolo e la sentenza patristica aiutano a comprenderne il senso e la rilettura cristologica. L’antifona, che riprende il salmo stesso, ci aiuta a fare un altro passo. Come spesso accade, ci è di miglior ausilio il testo latino. Vediamo con calma.

Ant. V domenica di Pasqua: «Mi hai liberato dal carcere di morte: rendo grazie al tuo nome alleluia».

Il testo è modellato evidentemente sul versetto 8 del salmo stesso: «Fà uscire dal carcere la mia vita, perché io renda grazie al tuo nome». Chiara è l’intenzione di far rileggere e pregare il salmo, illuminato dalla luce pasquale di un combattimento già vinto e di una liberazione compiuta. Ancora più stringente è la correlazione teologica fra antifona e salmo se guardiamo la versione latina:

Ant. Eduxísti de custódia ánimam meam ad confiténdum nómini tuo, allelúia.

Sal. Educ de custódia ánimam meam ad confiténdum nómini tuo

Nella piccola variazione di un modo verbale è racchiusa una teologia ricchissima: Davide e la sua angoscia “quando era nella caverna” (così dice il testo della Scrittura) erano prefigurazioni di un’altra angoscia, quella di Cristo nella Passione (così dice, fra l’altro, la sentenza patristica del salterio). E’ il Signore Gesù il vero orante del Salmo, e nella sua preghiera offre anche a noi ancora pellegrini la certezza della liberazione e della vittoria. E’ Lui che può dire, come Capo del corpo: Mi hai liberato dal carcere di morte. Noi, come membra di Lui, possiamo già partecipare della sua vittoria e, nella fede, possiamo fare nostra la sua esultanza. Ma come ogni buon cristiano sa, il mistero della salvezza, ricapitolato e compiuto in Cristo, si deve compiere escatologicamente in ciascuno. La liberazione pasquale sarà completa quando l’ultimo nemico sarà sconfitto. Ecco perché San Francesco, nel suo pio transito, come ultima preghiera volle proclamare il salmo 141:

…L’uomo a Dio carissimo comandò che gli portassero il libro dei Vangeli e chiese che gli leggessero il passo di Giovanni, che incomincia: “Prima della festa di Pasqua…”. Egli, poi. come poté, proruppe nell’esclamazione del salmo: “Con la mia voce al Signore io grido, con la mia voce il Signore io supplico ” e lo recitò fin al versetto finale: “Mi attendono i giusti, per il momento in cui mi darai la ricompensa”. Quando, infine, si furono compiuti in lui tutti i misteri, quell’anima santissima, sciolta dal corpo, fu sommersa nell’abisso della chiarità divina e l’uomo beato s’addormentò nel Signore. (Fonti Francescane, Leggenda maggiore,1242-1243)

Con questa citazione edificante, terminiamo queste poche righe, con l’augurio di una proficua preghiera della Liturgia delle Ore, domani, 14 maggio 2020, festa di San Mattia apostolo.

Noi – dobbiamo confessarlo – non celebreremo alcuna giornata universale di preghiera contro la pandemia insieme a tutti i «fratelli» del mondo e di ogni credenza religiosa. Noi, con santa Madre Chiesa celebreremo la festa di San Mattia. Pregando, come ogni giorno da qualche tempo, per la liberazione dalla pandemia, ma non solo.

Una correzione che ci fa felici

Qualche giorno fa abbiamo ricevuto una mail da p. Antonio Montanari, patrologo, professore alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, ora cappellano all’Abbazia  Notre-Dame de Bon-Secours in Provenza. Le sue note ci rimproverano una libertà che ci siamo presi con troppa leggerezza. Avevamo riportato un paragrafo di Pascher (1) senza verificarne attentamente ed integralmente il contenuto: troppo concentrati su un’aspetto che intendevamo enfatizzare, ci è sfuggita un’affermazione, attinta dall’articolo del liturgista tedesco, ma che nel testo del nostro post abbiamo fatta nostra con troppa disinvoltura.

Ora il nostro benevole lettore ci corregge, e noi siamo ben felici di accogliere le sue precisazioni, facendone occasione per imparare e fare tesoro dell’altrui sapienza. Una critica davvero costruttiva, e una correzione dallo sbocco positivo (cf. Eb 12,11)

Tali censori saranno sempre benvenuti! Anche a nome di tanti altri lettori, ringraziamo p. Antonio per il suo appunto.

Il post cui p. Montanari si riferisce è quello relativo all’antifona d’introito della Messa di Pasqua (cf. qui). Ma ecco il cuore della correzione:

Ho letto stamattina il suo articolo Apparuit Simoni? che rimandava a un testo del 26 marzo 2016, a proposito dell’introito pasquale “Resurrexi et aduc tecum sum” nel quale afferma che si tratta di «una versione corrotta del salmo138». A questo riguardo cita Pascher, il quale definisce l’Introito di Pasqua un’ «antifona, che conserva l’errore di traduzione».

Nella stessa pagina riporta due bei testi di Benedetto XVI, che di liturgia se ne intende, il quale, nel Messaggio per la Pasqua 2008 scrive: «“Resurrexi et adhuc tecum sum – Sono risorto e sono ancora e sempre con te”. Queste parole, tratte da un’antica versione del Salmo 138 (v. 18b)». Giustamente, come ricorda Benedetto XVI, il versetto del Salmo 138 utilizzato come antifona d’Introito è tratto da un’antica versione latina del Salterio, condotta sul testo greco della Settanta, rimasta in uso nella liturgia anche dopo la Vulgata di san Girolamo”.

Dunque, non si tratta di una «versione corrotta» e tanto meno di un «errore di traduzione» del Salmo. L’anomalia sta invece nella versione attuale del Salterio, ripresa dal testo masoretico, senza tener conto della lunga tradizione liturgica che l’ha preceduta. Fino alla riforma liturgica successiva al Vaticano II non solo i testi della liturgia, ma la stessa Bibbia cristiana non è mai stata quella ebraica, bensì la Bibbia greca dei Settanta, dalla quale sono state ricavate le versioni antiche e non solo quella latina. È a partire dal testo greco della Settanta che i Padri e i loro successori hanno elaborato la liturgia e la loro teologia. È noto inoltre che la versione del Salterio che san Girolamo ha tradotto dall’ebraico non è mai stata utilizzata nella liturgia, che si serviva invece del Salterio gallicano, tradotto dal greco. Come si intuisce, il problema sta nella mancanza di memoria di chi ha imposto una novità – la nuova traduzione dall’ebraico del Salterio – che ha reso incomprensibili le antiche riletture cristologiche, consentite dal testo greco, che aveva tradotto l’ebraico Messia con il termine Christos, predisponendo in questo modo una lettura cristiana.


(1)  J. Pascher, «Il nuovo ordinamento della salmodia nella Liturgia romana delle Ore», in Liturgia delle Ore. Documenti ufficiali e Studi (Quaderni di Rivista Liturgica 14), Leumann (TO) 1972, 161-184.