Argumentum ad “rossettum”. Divagazioni intorno a Sacrosanctum Concilium

Avendo tempo e possibilità – lo scoglio del latino forse spaventa molti -, è interessante rileggere gli interventi in aula durante la fase sinodale del Concilio Vaticano. Si troveranno spunti importanti e argomentazioni alte, come pure schermaglie dialettiche forse esagerate, o comiche (il cronista annota anche le risate dei Padri sinodali, oppure il mormorio, o qualcuno che implora che l’oratore di turno finisca finalmente). Ci è capitato varie volte di immaginare la scena, o le facce dei Padri durante qualche intervento sopra le righe, apprezzando la pazienza e il grande lavoro di quegli anni. Davvero sorprendente fu la libertà di spirito che caratterizzò la macchina sinodale, e la varietà degli argomenti – anche quelli apparentemente più deboli o bizzarri – evidenzia una franchezza e una parresia che forse oggi non possediamo più (anche in queste settimane registriamo timidezze, piaggerie, silenzi e tentativi di silenziare che contraddicono il tanto sbandierato stile sinodale).

Al Vaticano II la discussione fu reale, franca e fino all’ultimo argomentare. E proprio una delle ultime argomentazioni, ci pare quella espressa dall’allora cardinale di Westminster, W. Godfrey, per rigettare la proposta della reintroduzione della Comunione sotto le due specie.

Il testo proposto all’attenzione dei padri conciliari era, nella redazione provvisoria, il n. 42: «Communio sub utraque specie, sublato fidei periculo, pro certis casibus a Sancta Sede bene determinatis, uti, v.g. in Missa sacrae Ordinationis, iudicio Episcoporum, tum clericis et religiosis, tum laicis concedi potest» (1).

Il cardinale inglese non era favorevole. La questione principale – e da un lato si capisce, essendo lui vescovo in una terra in cui il confronto con diverse confessioni cristiane era vivo e problematico – gli pareva dottrinale: introdurre di nuovo la pratica della comunione al calice poteva sembrare un implicito riconoscimento che la Chiesa Cattolica avesse commesso un errore nel renderla sempre più rara fino a non prevederla più. Strano ragionamento, diremmo noi: per non rischiare di mostrarsi perfettibili, facciamo finta di niente e continuiamo come abbiamo sempre (no, non sempre: da qualche tempo) fatto. Il secondo argomento – più condivisibile – fu che senza una regolamentazione chiara, si sarebbe creata confusione e disparità fra luoghi in cui forse la pratica sarebbe stata frequentamente accolta e luoghi in cui lo sarebbe stato meno. Si pone, inoltre, una questione igienica.

Il cardinale però volle strafare e non contento delle precedenti argomentazioni a sfavore dell’articolo proposto dalle bozze della Costituzione, ne citò altri, sinceramente più folcloristici.

I Padri si potevano forse dimenticare che le gentili Signore, come pure molte ragazze, usano ornarsi le labbra, tingendole di rosso?!

Un’altra questione pratica si solleverebbe nel caso di molti e molti fedeli da comunicare, senza dimenticare poi che ve ne sono che non amano bere sostanze alcoliche (il numero di tali persone, secondo la nostra esperienza, in Inghilterra non dovrebbe essere poi così rilevante, o forse i tempi sono cambiati…).

Comunque, al di là di quello che se ne possa pensare, abbiamo pensato di scrivere queste righe a testimonianza della franchezza e dell’autenticità delle discussioni conciliari. Ogni determinazione venne considerata da più parti, accuratamente.

Quando qualcuno vorrà di nuovo ripetere il motivo monotono del colpo di mano di pochi riformatori, cui i Padri inconsapevolmente cedettero, saprò contraddirlo, esemplificando, anche con l’argumentum ad rossettum!!

Ecco il testo dell’intervento:

De Communione sub utraque specie. Imprimis est difficultas doctrinalis, quia non desunt qui protestantur contra nostram praxim distributionis sacrae Communionis sub unica specie. Si praesens praxis mutaretur, periculum esset ne interpretetur tamquam admissio erroris ex parte nostra in materia doctrinali.

Difficultates etiam sunt practicae, quia si talis fiat mutatio, uti censeo quod limitatio stricte fieri deberet pro tota Ecclesia occidentali, secus, si relinquatur episcopis, habebitur magna confusio, ex praxi diversa in diversis regionibus necnon dioecesibus.

Deinde si sumatur sacra species ex calice, nemo est qui non videt difficultates et obiectiones posse oriri propter rationes hygienicas. Ulterius cogitandum est de mulieribus et puellis accedentibus ad sacram synaxim quarum labia tincta sunt notis illis ornamentis hodiernis rubri coloris. Difficultas evidens est.

Clarum etiam est quod administratio sacrae Communionis sub utraque specie magno fidelium numero crearet magnam difficultatem.

Denique meminisse iuvat quod sunt qui vinum vel alcoholica in quacumque circumstantia sumere nolunt.

Quibus de causis standum est praesenti praxi in Ecclesia latina.

Cf. Constitutio de Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium (Concilii Vaticani II Synopsis in ordinem redigens schemata cum relationibus necnon Patrum orationes atque animadversiones), F. Gil Hellin (ed.), Città del Vaticano 2003, 547.


(1) Cf. Gil Hellin, Constitutio…, 164-166.

…né capo, né profeta…né sacrificio…né luogo…

Pregare le lodi, in questo martedì della quarta settimana della quaresima dell’anno del Signore 2020 ha fatto uno strano effetto: le strofe del cantico biblico, incastonato fra i due salmi, ci hanno folgorato come non mai, in particolare questa:

Ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né sacrificio, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovare misericordia (Dan 3, 38)

Abbiamo subito pensato: ecco, noi siamo ora in questa situazione! Daniele parla di noi! E’ vero, e lo sappiamo, che il santo sacrificio viene celebrato quotidianamente, non mancano occasioni in cui tantissime parrocchie si sono mobilitate per far sentire la vicinanza dei pastori e della loro catechesi ai fedeli, costretti ad un estranea lontananza dai luoghi consueti della comunità cristiana e dalla liturgia. E’ vero, e lo sappiamo bene, come il culto dei cristiani sia un culto esistenziale e spirituale, e come la liturgia pubblica ed esteriore sia solo un aspetto – e neanche il principale – della vita cristiana, globalmente e interamente liturgica, se autentica. Eppure, tutte queste considerazioni non possono cancellare il contraccolpo emotivo e spirituale che le parole di Daniele suscitano in un anima ancora minimamente sensibile. Ci riferiamo, certamente, alla privazione dalla vita sacramentale ordinaria – se qualora la quarantena fosse prolungata anche fino e oltre i giorni della settimana santa, sarebbe ancora più stridente la questione -, ma pure al senso di smarrimento che si prova nel faticare a trovare una parola “profetica” che aiuti a vivere questi giorni difficili; e, ancora, ci riferiamo al fatto che le guide del gregge hanno lasciato interdetti molti, nell’ondivaga determinazione di chiudere e di riaprire almeno alla preghiera individuale le chiese parrocchiali. Possibile che non ci sia stato nessun vescovo, almeno qui in Italia, che si sia alzato a far notare la curiosa circostanza che sia consentito – e lo riteniamo giusto – recarsi dal tabaccaio per acquistare sigarette, mentre sia passibile di multa chi si reca in parrocchia a pregare davanti al tabernacolo?

Tornando al cantico di Daniele, che la liturgia ci fa pregare, assumendo nella preghiera cristiana un testo veterotestamentario, facciamo notare alcune altre espressioni, che pare invece siano scomparse dall’universo concettuale di tanti: “Tu sei giusto in tutto ciò che hai fatto”; “noi abbiamo peccato, abbiamo agito da iniqui, allontanadoci da te, abbiamo mancato in ogni modo”; “ora siamo umiliati per tutta la terra a causa dei nostri peccati”; “potessimo essere accolti con il cuore contrito e con lo spirito umiliato”.

Se non vogliamo diventare marcionisti, con questi versetti dobbiamo fare i conti.

Ma, adesso, prepariamoci ad assistere partecipando, o a partecipare assistendo (!?), alla liturgia celebrata da Papa Francesco sul sagrato della Basilica di San Pietro, in questo venerdì della IV settimana di quaresima dell’anno del Signore 2020, in quarantena. Nell’attesa del collegamento, possiamo rileggere alcuni brani a commento della preghiera di Azaria, che Daniele riporta nel suo cantico.

Ci sono state stagioni della storia in cui Israele non ha avuto più né principi (cioè re-pastori che lo guidassero per conto di Dio), né tempio (la roccia salda della presenza della Gloria di Dio in mezzo al popolo). In quei momenti Dio ha comunque mandato dei profeti, perché il popolo non rimanesse privo della sua Parola e della sua guida. Invece Azaria sottolinea che ora, nell’esilio in Babilonia, non ci sono più nemmeno quelli! Non ci sono i profeti. Che rimane da fare? Nient’altro che presentarsi a Dio con un cuore contrito e lo spirito umiliato, che Dio gradirà «come olocausti di montoni e di tori, come migliaia di grassi agnelli. Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a te» (3,39-40). È bello questo passaggio della preghiera. Ci vedo un po’ di sfacciataggine giovanile, un presentarsi davanti a Dio con la propria nuda vergogna. E voi giovani, mi raccomando: presentatevi davanti a Dio con la vostra nuda vergogna. Vi farà bene. Non solo a voi, a tutti noi. Un po’ come quando si “tira la corda” della pazienza dei genitori e dei nonni, ben sapendo di essere molto amati. Ma qui l’intuito dei tre giovani ha visto giusto: niente smuove la misericordia di Dio come il nostro cuore realmente contrito e umiliato. È una cosa grande, questa. Anzi, il figlio più giovane della parabola del Padre misericordioso, un esperto di questa sfacciataggine giovanile, sa che verrà accolto anche se il suo pentimento non è esattamente come dovrebbe essere. “Mi alzerò e andrò da mio padre”. Dietro tutto questo c’è una fiducia, una fede: «non c’è delusione per coloro che confidano in te» (3,40).

Lectio Divina di Papa Francesco all’Università Lateranense, 26/03/2019; per il testo completo: qui.

 

2. La persecuzione è considerata da questo Cantico come una giusta pena con cui Dio purifica il popolo peccatore: «Con verità e giustizia tu ci hai inflitto tutto questo – confessa Azaria – a causa dei nostri peccati» (v. 28). Siamo così in presenza di una preghiera penitenziale, che non sfocia nello scoraggiamento o nella paura, ma nella speranza.

Certo, il punto di partenza è amaro, la desolazione è grave, la prova è pesante, il giudizio divino sul peccato del popolo è severo: «Ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né sacrificio, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovar misericordia» (v. 38). Il tempio di Sion è distrutto e il Signore non sembra più dimorare in mezzo al suo popolo.

3. Nella situazione tragica del presente, la speranza ricerca la sua radice nel passato, cioè nelle promesse fatte ai padri. Si risale, quindi, ad Abramo, Isacco e Giacobbe (cfr v. 35), ai quali Dio aveva assicurato benedizione e fecondità, terra e grandezza, vita e pace. Dio è fedele e non smentirà le sue promesse. Anche se la giustizia esige che Israele sia punito per le sue colpe, permane la certezza che l’ultima parola sarà quella della misericordia e del perdono. Già il profeta Ezechiele riferiva queste parole del Signore: «Forse che io ho piacere della morte del malvagio o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?… Io non godo della morte di chi muore» (Ez 18,23.32). Certo, ora è il tempo dell’umiliazione: «Siamo diventati più piccoli di qualunque altra nazione, ora siamo umiliati per tutta la terra, a causa dei nostri peccati» (Dn 3,37). Eppure l’attesa non è quella della morte, ma di una nuova vita, dopo la purificazione.

4. L’orante si accosta al Signore offrendogli il sacrificio più prezioso e accetto: il «cuore contrito» e lo «spirito umiliato» (v. 39; cfr Sal 50,19). È proprio il centro dell’esistenza, l’io rinnovato dalla prova che viene offerto a Dio, perché lo accolga in segno di conversione e di consacrazione al bene.

Con questa disposizione interiore cessa la paura, si spengono la confusione e la vergogna (cfr Dn 3,40), e lo spirito si apre alla fiducia in un futuro migliore, quando si compiranno le promesse fatte ai padri.

La frase finale della supplica di Azaria, così come è proposta dalla liturgia, è di forte impatto emotivo e di profonda intensità spirituale: «Ora ti seguiamo con tutto il cuore, ti temiamo e cerchiamo il tuo volto» (v. 41). Si ha l’eco di un altro Salmo: «Di te ha detto il mio cuore: “Cercate il suo volto”; il tuo volto, Signore, io cerco» (Sal 26,8).

Ormai è giunto il momento in cui il nostro cammino sta abbandonando le strade perverse del male, i sentieri tortuosi e le vie oblique (cfr Pr 2,15). Ci avviamo alla sequela del Signore, mossi dal desiderio di incontrare il suo volto. E il suo non è irato, ma colmo di amore, come si è rivelato nel padre misericordioso nei confronti del figlio prodigo (cfr Lc 15,11-32).

5. Concludiamo la nostra riflessione sul Cantico di Azaria con la preghiera stilata da san Massimo il Confessore nel suo Discorso ascetico (37-39), dove prende spunto proprio dal testo del profeta Daniele. «Per il tuo nome, Signore, non abbandonarci per sempre, non disperdere la tua alleanza e non allontanare la tua misericordia da noi (cfr Dn 3,34-35) per la tua pietà, o Padre nostro che sei nei cieli, per la compassione del tuo Figlio unigenito e per la misericordia del tuo Santo Spirito… Non trascurare la nostra supplica, o Signore, e non abbandonarci per sempre.

Noi non confidiamo nelle nostre opere di giustizia, ma nella tua pietà, mediante la quale conservi la nostra stirpe… Non detestare la nostra indegnità, ma abbi compassione di noi secondo la tua grande pietà, e secondo la pienezza della tua misericordia cancella i nostri peccati, affinché senza condanna ci avviciniamo al cospetto della tua santa gloria e siamo ritenuti degni della protezione del tuo unigenito Figlio».

San Massimo conclude: «Sì, o Signore padrone onnipotente, esaudisci la nostra supplica, poiché noi non riconosciamo nessun altro all’infuori di te» (Umanità e divinità di Cristo, Roma 1979, pp. 51-52).

Giovanni Paolo II, Udienza generale del mercoledì, 14/05/2003; per il testo completo, cf. qui.

Un’antifona “stagionale”

La ricchezza e la varietà della liturgia sono davvero inesauribili. E non si finirà mai di esprimere la gratitudine per questo enorme tesoro che abbiamo ereditato.

Il dettaglio che questa volta, un volta ancora, ci ha mosso tali pensieri e sentimenti, lo abbiamo trovato nell’ufficio dei Primi Vespri della solennità dell’Annunciazione del Signore. In particolare nella prima antifona salmica.

Egrediétur virga de radíce Iesse, et flos de radíce ascéndet, et requiéscet super eum Spíritus Dómini (1). Niente di strano, fin qui. Si tratta infatti di una citazione dei versetti 1 e 2 del capitolo 11 del profeta Isaia. Un testo che la liturgia usa varie volte, in testi dalle diverse caratteristiche. Ad esempio, come lettura breve, nelle Lodi del sabto della prima settimana di Avvento (Is 11,1-3a), oppure, nel Messale, come antifona di Introito nel formulario del 20 dicembre: Egredietur virga de radice Iesse, et replebitur omnis terra gloria Domini, et videbit omnis caro salutare Dei (un testo un poco più complesso, con una citazione articolata di tre versetti – Is 11,1; Is 40,5; Lc 3,6).

E’ interessante notare, però, come siano normalmente tradotti in italiano i primi due versetti di Isaia 11: Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore,… così la lettura breve segnalata sopra;  così l’antifona di ingresso del 20 dicembre: Dalla radice di Iesse spunterà un germoglio, tutta la terra sarà piena della gloria del Signore, e ogni uomo vedrà la salvezza di Dio.

Invece, nel nostro caso, il curatore della versione italiana della liturgia delle Ore, si prende una licenza poetica. Il 25 marzo, nel nostro emisfero, siamo in primavera: ecco la gemma, che poi fiorirà. La tradizione liturgica e la Sacra Scrittura qui coinvolgono anche il cosmo, la natura che si sta risvegliando. Questa licenza ci pare del tutto logica e consentita, e ben venga questa unica e particolare traduzione, attinente alla liturgia , e alla teologia, della solennità e, mirabilmente, pure alla stagione in cui la si celebra. Del resto, tornando al tempo liturgico per un attimo messo da parte dalla ricorrenza mariana, questi sono i giorni in cui tutto rifiorisce (cf. qui).