La liturgia, ovvero la mente aperta per comprendere le Scritture

«Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture» (Lc 24,44-45).

Diversi esegeti hanno sottolineato come i versetti lucani proclamati nel vangelo del quinto giorno dell’Ottava di Pasqua siano interessanti per la rivendicazione di Cristo a riguardo del senso delle Scritture e, qui in particolare, dei Salmi. La liturgia, tuttavia, si mostra assai ben più docile e pronta a fare propri gli insegnamenti di Gesù rispetto ad altre branche della teologia. Una prova?

Guardiamo l’ufficiatura dell’Ottava, e scopriremo dati significativi. Ci soffermiamo sulle sezioni salmodica dell’Ufficio delle Letture, tralasciando qui quelle delle due Ore principali – Lodi e Vespri – che si ripetono invariate dalla Pasqua alla Domenica in Albis.

Nei giorni dell’Ottava troviamo antifone e salmi propri, che cioè non seguono il consueto e ripetitivo schema delle quattro settimane, ma sono selezionati in base a richiami letterali o comunque tematicamente riferiti al mistero pasquale. E se il lunedì dell’Ottava parrebbe simile a qualsiasi lunedì della prima settimana del salterio (vi sono i salmi 1, 2 e 3), le antifone fugano ogni dubbio e ci ricordano che siamo davanti a qualcosa di unico. La sapienza della Chiesa, nella sua tradizione liturgica, ha elaborato infatti delle antifone davvero speciali, rileggendo i salmi in chiave eminentemente cristologica. La liturgia – poggiando sulle parole del Maestro – attribuisce in modo eminente a Lui i salmi, ritoccandone i versetti, perché diventino ancora più esplicitamente parole sue. Non si tratta di interventi indebiti e arbitrari, ma di espressione di fede pasquale e di obbedienza all’insegnamento del Signore.

In uno specchietto, ciò a cui ci si è riferiti:

foto documento pasqua

Un’ultima cosa, degna di nota, è il fatto che la composizione di queste antifone e di questi salmi è antichissima. Si tratta, infatti, del Mattutino di Pasqua testimoniato già nell’Ordo Romanus XXVIII. A detta di Righetti possiamo datarla all’VIII secolo (1). La riforma liturgica – ebbene sì, non furono così devastori i periti del Consilium – conservò questo tesoro e lo ricollocò nel primo giorno dell’Ottava. Insomma, una bella pagina di fedeltà alla tradizione ecclesiale e una professione di fede cristologica che ha pochi pari: attraverso la liturgia, oggi, il Maestro ci insegna ad aprire la mente alle Scritture e ci aiuta a leggere nei salmi «ciò che si riferisce a Lui».


(1) M. Righetti, Manuale di storia liturgica, II. L’anno liturgico – Il Breviario, Milano 1998 (ed. anastatica), 280.

Cosa nostra

Con questo post singolare vorremmo ritornare su alcuni aspetti della parabola del figliol prodigo, o come la si voglia chiamare. Ne riproporremo un’interpretazione che, forse, necessita la rilettura del post immediatamente precedente a questo (qui).

La preghiera meditata dell’Ufficio delle Letture del giovedì della IV settimana di Quaresima ci ha suggerito alcuni agganci interessanti fra la pericope di Luca 15 e quanto predicò San Leone Magno, e che è proposto appunto come seconda lettura dell’Ufficio del giorno. Quindi si tratta non tanto di un elogio alla mafia siciliana – «cosa nostra» -, quanto piuttosto un riconoscimento della geniale predicazione leoniana.

Ci perdoni però il grande papa se rileggiamo le sue parole, superando sicuramente l’intentio auctoris, quanto Leone voleva realmente trasmettere; lo facciamo perché ci pare che possa aiutarci a cogliere sempre di più la ricchezza della parabola, che di certo lui aveva ben compresto. Faremo pertanto delle notazioni lungo il testo dell’omelia, sperando di non commettere un sacrilegio eccessivo.

Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa
(Disc. 15 sulla passione del Signore, 3-4; Pl 54, 366-367)

Colui che vuole onorare veramente la passione del Signore deve guardare con gli occhi del cuore Gesù Crocifisso, in modo da riconoscere nella sua carne la propria carne.
Tremi la creatura di fronte al supplizio del suo Redentore. Si spezzino le pietre dei cuori infedeli, ed escano fuori travolgendo ogni ostacolo coloro che giacevano nella tomba. Appaiano anche ora nella città santa, cioè nella Chiesa di Dio, i segni della futura risurrezione e, ciò che un giorno deve verificarsi nei corpi, si compia ora nei cuori.
A nessuno, anche se debole e inerme, è negata la vittoria della croce, e non v’è uomo al quale non rechi soccorso la mediazione di Cristo. Se giovò a molti che infierivano contro di lui, quanto maggiore beneficio apporterà a coloro che a lui si rivolgono! 
L’ignoranza dell’incredulità è stata cancellata. E` stata ridotta la difficoltà del cammino. Il sacro sangue di Cristo ha spento il fuoco di quella spada, che sbarrava l’accesso al regno della vita. Le tenebre dell’antica notte hanno ceduto il posto alla vera luce.
Il popolo cristiano è invitato alle ricchezze del paradiso. Per tutti i battezzati si apre il passaggio per il ritorno alla patria perduta, a meno che qualcuno non voglia precludersi da se stesso quella via, che pure si aprì alla fede del ladrone. [Qui c’è l’esperienza del figlio minore, ritornato nella casa paterna, dopo l’esilio volontario nella terra della sua alienazione; e c’è il rischio del fratello maggiore, che sdegnato non vorrebbe avere niente in comune con un fratello – nella cui carne dovrebbe invece riconoscere la propria carne – né con un padre così remissivo e indulgente ad una festa ai suoi occhi ingiusta e ingiustificata.] Procuriamo che le attività della vita presente non creino in noi o troppa ansietà o troppa presunzione sino al punto da annullare l’impegno di conformarci al nostro Redentore, nell’imitazione dei suoi esempi. Nulla infatti egli fece o soffrì se non per la nostra salvezza, perché la virtù, che era nel Capo, fosse posseduta anche dal Corpo«Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14) nessuno lasciando privo della misericordia, ad eccezione di chi rifiuta di credere. E come potrà rimanere fuori della comunione con Cristo chi accoglie colui che ha preso la sua stessa natura e viene rigenerato dal medesimo Spirito, per opera del quale Cristo è nato? Chi non lo riterrebbe della nostra condizione umana sapendo che nella sua vita c’era posto per l’uso del cibo, per il riposo, il sonno, le ansie, la tristezza, la compassione e le lacrime?
Proprio perché questa nostra natura doveva essere risanata dalle antiche ferite e purificata dalla feccia del peccato, l’Unigenito Figlio di Dio si fece anche Figlio dell’uomo e riunì in sé autentica natura umana e pienezza di divinità. E’ cosa nostra ciò che giacque esanime nel sepolcro, che è risorto il terzo giorno, che è salito al di sopra di tutte le altezze alla destra della maestà del Padre. [E’ cosa nostra!! «Figlio… tutto ciò che è mio è tuo», diceva il padre dei fratelli al maggiore; e, poi, «questo tuo fratello era morto…», a ricordargli che quell’incauto scialaquatore delle paterne sostanze non era solamente un figlio di un padre troppo arrendevole – «questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi» -, ma pur sempre suo fratello. Leone Magno ha ben capito che occorre sul serio appropriarsi delle sostanze autentiche del Padre. Il figlio minore pretendeva le sostanze piccole, i beni materiali, il maggiore era pieno di risentimento per un capretto non concesso benché nemmeno richiesto….entrambi non hanno compreso come il Padre volesse far parte con loro di beni molto più preziosi: la sua natura, il suo amore, la sua vita. Proprio perché Cristo è diventato cosa nostra, proprio perché il vitello grasso è stato finalmente immolato, possiamo essere sicuri che la misericordia di Dio sia anch’essa cosa nostra, sia per noi per primi, investa la nostra debolezza; e poi cosa nostra diventa pure un fratello che cade, da riaccogliere con gioia.]

Nostrum est quod exanime in sepulcro iacuit, et quod die tertia resurrexit!

 

 

Maiali, capretti, vitelli, agnelli. Non pare affatto una domenica quaresimale…

Dopo aver ascoltato vari commenti e letto qua e là, su libri e sul web, a proposito della Liturgia della Parola della IV domenica del tempo quaresimale, quest’anno secondo lo schema C, diciamo qualcosa pure noi. O, meglio, riportiamo le parole del grande Romano il Melode, il quale, sebbene si firmasse umile Romano – in modo acrostico nelle strofe dei suoi testi -, riesce spesso a sorprenderci per la ricchezza delle sue immagini interpretative. Il nostro autore ci aiuta a ricentrare il brano evangelico in tutta la sua portata cristologica, per non rischiare di perdere aspetti importanti avendone sottolineato eccessivamente altri.

In effetti, se non ci lascia prendere subito da considerazioni morali e psicologiche intorno ai due fratelli e al loro padre, fanno specie, in una domenica di Quaresima, letture così «carnali», con un’insistenza ripetuta sul mangiare e sulle carni, per di più. La prima lettura ribadisce solennemente, a proposito del popolo di Israele arrivato finalmente nella terra promessa: «mangiarono i prodotti della terra…mangiarono i frutti della terra di Canaan». Ma è poi il vangelo ad essere molto esplicito nel farci immaginare carni succulente e consumate in festosa convivialità: un capretto desiderato per una festa e un vitello grasso «cotto e mangiato», si direbbe a sottolineare il repentino giungere dell’occasione giusta, per la quale inconsapevolmente (?) era stato foraggiato. Da non dimenticare il contesto ampio delle letture, la celebrazione sacramentale dell’eucarestia, e segnatamente le parole prima della comunione: Ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi. Beati qui ad cenam Agni vocati sunt (1).

Una domenica di banchetti, quindi. Ecco perché ci pare faccia bene il Melode ad attardarsi su uno dei protagonisti della parabola, oltre ai celebri componenti della trilogia familiare, il padre e i due fratelli: il vitello grasso!

Orsù, apprestateci il santissimo banchetto, sacrificate senza esitazione il vitello messo al mondo da una Madre vergine. […] Per il peccatore, ve l’ho già ordinato, sacrificate subito il vitello, il virgineo Figlio della Vergine che non si assoggettò al giogo del peccato, ma cammina spedito avanti a quanti lo vorrebbero trascinare. Egli infatti non si ribella di fronte al sacrificio, ma spontaneamente piega il capo a quanti si apprestano ad ucciderlo. Trascinate, immolate il Dispensatore della vita, che è sacrificato, ma non è messo a morte, e dona la vita a tutti gli ospiti dell’Ade, colui che noi mangiamo per essere nel gaudio. […] Sacerdoti, miei fedeli servitori, immolate questo vitello e a tutti i meritevoli del mio banchetto, datelo a mangiare, vitello senza macchia, puro alla perfezione, nutrito dalla terra non seminata che egli stesso creò. Offrite a loro anche la preziosa bevanda, il sangue e l’acqua che sgrogano dal suo fianco per tutti i credenti. Tutti, e in ogni tempo, mangiatene: smembrato che egli sia, non è per questo spartito, né diviso, né consumato, ma per l’eternità sazia gli uomini tutti. Egli si offre in cibo santissimo nel suo amore per gli uomini, lui, Padrone dei secoli e Signore. Mentre la schiera dei commensali era in festa e tutti cantavano nella gioia inni a Dio, il padre per primo dette un segnale agli invitati, dicendo: Gustate e vedete che sono il Cristo. Dopo di lui, il Salmista, accompagnandosi con la cetra, intona con voce dolcissima: Presto, portate vittime pure e benedette sull’altare consacrato; sacrificate un vitello con azioni di grazie. Poi Paolo ad alta voce pronuncia: La nostra Pasqua è stata immolata, Gesù Cristo, il Padrone dei secoli e Signore. Gli angeli che prestavano servizio al banchetto, vedendo che i presenti si rallegravano e cantavano armoniosamente, vollero imitarli intonando il loro inno. Qual’è questo inno? Ascoltiamolo, di grazia: Santo sei, Padre, che oggi hai accettato che sia immolato per gli uomini il vitello senza macchia. Santo è anche il tuo Figlio volontariamente sgozzato alla stregua di un vitello immacolato, che santifica coloro che sono battezzati nell’acqua salutare della piscina. Santo è anche lo Spirito, accordato in dono ai credenti dal Padrone dei secoli e Signore (2)

Infine, la poetica ispirata di Romano azzarda un happy end di cui solitamente non si dice nulla:

Così, figlio mio, rallegrati con tutti gli invitati al banchetto, e unisciti nel canto a tutti gli Angeli, perché tuo fratello era perduto ed eccolo ritrovato, era morto e, contro ogni attesa, eccolo risuscitato. A queste parole, l’altro fratello si lasciò convincere, si felicitò con il fratello e prese a salmodiare così: Elevate acclamazioni, tutti! Beati quelli ai quali i peccati sono stati condonati, e le colpe dei quali sono state arrestate e cancellate! Ti benedico, o Amico degli uomini, che hai salvato anche mio fratello, tu Padrone dei secoli e Signore (3)


(1) Prima o poi si dovrà chiarire l’improvvida inversione della versione italiana, che peggiora ulteriormente una già triste omissione: è una cena di nozze, quella dell’Agnello!

(2) Romano il Melode, Inni (Letture cristiane delle origini 13), XXXII,1.8-11, Milano 1981, 306.308-309.

(3) Ibid., XXX,21, 312.