Gli estremi del cielo, luoghi divenuti praticabili!

Quand’anche tu fossi disperso fino all’estremità del cielo, di là il Signore, tuo Dio, ti raccoglierà e di là ti riprenderà (Dt 30,4).

Questo è uno dei versetti della lettura biblica dell’Ufficio delle Letture di oggi, feria V della III settimana del tempo Ordinario. «Estremità del cielo»:  qualche tempo fa, avevamo detto qualcosa a proposito dell’estremo, o meglio degli estremi, del cielo (cf. qui); si trattava della rilettura liturgica di un versetto del salmo 18(19),7: «Sorge da un estremo del cielo e la sua orbita raggiunge l’altro estremo: nulla si sottrae al suo calore».

E’ bastata una breve ricerca per scoprire che i due testi sono letti in relazione, nel Commento al Salmo 43 di Sant’Ambrogio. Non possiamo adesso descrivere tutti i passaggi dell’esegesi santambrosiana, sia sufficiente accennare a come lui interpreti questa dispersione (1) come la missione apostolica verso tutti i confini della terra, fino addirittura all’estremo del cielo. Ma la strada del cielo è possibile solo perché il Signore l’ha aperta per noi: si tratta di una via nuova, di «recente» inaugurazione.

Infatti sono stati disseminati per recare frutti nuovi, che sarebbero poi stati riposti nei granai della Chiesa, come il grano nuovo. Ma questa diaspora non si verifica a basso livello, cioè non si verifica sulla terra, ma in cielo. Lo confermano anche i comandamenti della legge, nella quale il Signore dice: Anche se la tua diaspora si estendesse da una sommità all’altra del cielo, di là io ti radunerò – dice il Signore (Dt 30,4) […] Se queste difficoltà ti disturbano, torna indietro a quanto precedentemente ha detto questo nostro profeta e sta’ a sentire chi sia quel personaggio così grande, che ha fatto gonfiare sulla terra le messi in modo tale che il loro raccolto ha toccato i granai celesti. Si tratta di quello sposo che, come un gigante, ha corso lungo questa via, tutta impraticabile agli altri, ma a lui di facile accesso. E, a partire da lui, essa ha cominciato a diventare praticabile anche per i mortali. Tuttavia per questi essa è in salita; mentre prima, per lui solo era in discesa, ed egli l’ha percorsa, perché successivamente i suoi fedeli la potessero risalire

Est autem ille sponsus, qui quasi gigans percucurrit hanc viam totam inviam aliis, sibi perviam; et ex illo coepit pervia iam esse mortalibus, ita tamen, ut isti ascenderent, solus tamen ille ipse descenderet, ut postea sancti eius mererentur ascendere.

(2)

E’ possibile il ritorno, perché il Signore è venuto a cercarci: l’uomo può rialzarsi perché Dio si è abbassato fino a lui. Senza questo movimento divino previo, sarebbe sterile, vana e ridicola – impraticabile – ogni pretesa di ascesi da parte dell’uomo.

Ma ci torneremo, su questo versetto del salmo! Quel «nulla si sottrae al suo calore» era troppo intrigante, perché i Padri non cogliessero lì l’accenno a significati più profondi.


(1) Il salmo 43(44),11-12 recita: «Ci hai fatto fuggire di fronte agli avversari e quelli che ci odiano ci hanno depredato. Ci hai consegnati come pecore da macello, ci hai dispersi in mezzo alle genti».

(2) Sant’Ambrogio, Commento al Salmo XLIII, 39-40; in Opera Omnia di Sant’Ambrogio, 8, Opere esegetiche VII/II, Commento a Dodici Salmi/2, Roma – Milano 1980.

Nemmeno una parola

Dalle ricostruzioni ad opera di alcuni protagonisti sappiamo qualcosa – manca ancora molto – delle prime vicende dell’organismo preposto alla riforma liturgica auspicata dal Concilio Vaticano II. Si intuiscono le tensioni e le incomprensioni intorno ad una Commissione per certi versi del tutto nuova e innovativa, per altri aspetti del tutto in linea con le dinamiche ecclesiali messe in moto da un evento così particolare come un concilio ecumenico. Era certamente nella logica delle cose che la guida, nell’opera di attuazione della Costituzione liturgica, non la potesse assumere un dicastero di Curia; allo stesso tempo, pare del tutto legittima e assolutamente in buona fede la pretesa o, meglio detto, l’aspettativa del personale della Congregazione dei Riti, convinto che proprio a tale organismo sarebbe stata affidata la messa in pratica delle indicazioni conciliari.

Non vogliamo qui ricostruire tutta la storia, ma solamente apportare un nuovo dettaglio, un curioso particolare, scoperto grazie alla possibilità di consultare le carte di un testimone qualificato.

Se nel periodo conciliare ad essere contrariato e deluso fu Bugnini, già Segretario della Commissione Preparatoria De Liturgia, perché estromesso dal ruolo di Segretario della Commissione Conciliare De Liturgia (1), dopo l’approvazione della Costituzione liturgica si ebbe un curioso rovesciamento. E, a quanto pare, alcuni protagonisti non la presero affatto bene.

Si può con probabile certezza individuare nell’entourage del Prefetto della Congregazione dei Riti chi volle sostituire il religioso vincenziano. Qualche tempo dopo, fu il medesimo Cardinale Larraona a vedersi sopravanzato dal Cardinale Lercaro nel ruolo di Presidente del Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia. Nei primi e preliminari incontri di questo nuovo organismo si cercò di non turbare gli animi e di non provocare inutili tensioni e gelosie (2), ma quando si tenne la prima riunione plenaria alla presenza dei membri (11 marzo 1964), era già evidente che l’influenza della Congregazione dei Riti era stata di molto ridimensionata. Attiva e propositiva era la nuova Commissione creata ad hoc,  mentre l’antica istituzione curiale diventava spettatrice passiva di quanto ormai si sarebbe deciso fra Santa Marta (dove era la Segreteria e la sede del Consilium) e il Palazzo Apostolico. In verità, gli equilibri non furono mai così statici e netti, eppure nei primi mesi del 1964 tale era la situazione.

Di tutto ciò abbiamo un’immagine assai eloquente negli appunti personali di mons. H. Jenny, vescovo di Cambrai. Nell’annotare le impressioni sulla prima riunione plenaria del Consilium, la primissima  cosa che scrive – ed è significativo che le sue note esordiscano in tal modo – è una frase lapidaria, che sintetizza in modo chiaro le impressioni di un estraneo alle dinamiche curiali:

«Le Card. Larraona ni a pa dit un mot» (3)

Non sappiamo il motivo di tale silenzio. Possiamo solo affermare che fu una scelta volontaria: altri cardinali presenti, oltre naturalmente al cardinale Presidente, Lercaro, intervennero sovente nella discussione. Larraona aveva, ovviamente, pure lui facoltà di parlare, ma preferì non avvalersene. Non disse una parola, nemmeno una parola soltanto. Nec verbum tantum!


(1) cf., ad esempio, qui.

(2) Il primo incontro fra i tre Cardinali incaricati e il Segretario avvenne nell’Ospizio Pontificio di Santa Marta, in una stanzetta messa a disposizione dalla Segreteria generale del Concilio, il 15 gennaio 1964. Il secondo incontro «per deferenza, si tenne nell’appartamento del card. Larraona, in via Servitori, 10»: A. Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975), (Bibliotheca Ephemerides Liturgicae Sussidia 30), Roma 1997, 64. Cf. anche qui.

(3) H. Jenny, Notes personnelles après notre I reunion (Rome 11.3.1964), 1: Archivio Diocesano di Cambrai, Fondo Jenny, 3A2 – 2.1

Solo tre lettere, ma quanto preziose! Appunti sull’eucologia della II Domenica del tempo Ordinario

La formula n. 1049 del Sacramentario Veronense è la fonte ispiratrice di due testi dell’odierno Messale Romano. La prima è di derivazione diretta dall’antico testo, mentre la seconda è la rilettura del testo del Veronense fatta dal Sacramentario Gregoriano (GrH 382). Ancora, la prima è la preghiera dopo la comunione per la II domenica del tempo Ordinario, la seconda è pure una preghiera dopo la comunione, per la solenne Veglia Pasquale.

Spiritum nobis, Domine, tuae caritatis infunde, ut, quos uno caelesti pane satiasti, una facias pietate concordes.

Spiritum nobis, Domine, tuae caritatis infunde, ut, quos sacramentis paschalibus satiasti, tua facias pietate concordes

Come si vede, il testo della preghiera è strutturalmente identico; possiamo inoltre dire che i due sintagmi, caelesti pane e sacramentis paschalibus, siano equivalenti. La prima espressione, caelesti pane, al singolare, attira l’aggettivo numerale uno, qui con la sfumatura di significato uno solo, l’unico, il medesimo, lo stesso. Si crea così un parallelismo con l’aggettivo numerale, questa volta di genere femminile, che qualifica l’ablativo pietate. Nella versione del Sacramentario Gregoriano, che è quella usata dal Messale Romano per la post-communio della notte di Pasqua il riferimento alla comunione eucaristica viene indicato con il plurale sacramentis paschalibus, facendo saltare il parallelismo uno/una: l’aggettivo unito al sostantivo pietas diventa quindi un possessivo, tua (nel senso di te, genitivo oggettivo), che forma, a sua volta, un parallelismo con la prima parte della preghiera, tuae caritatis infunde. Queste considerazioni non sembrano essere state, appunto, molto considerate nella versione italiana del Messale.

Se la preghiera della vegli pasquale sembra conservare meglio il senso dell’originale, in quella per la II Domenica del tempo per annum si altera tutta la sintassi della seconda parte: non paiano, queste, osservazioni tecnicamente formali ed oziose, poiché financo il senso è modificato. Ad un rapido confronto con alcune altre traduzioni, quella italiana – paradossalmente – sembrerebbe quella che ha perso più affinità con lo stile e la struttura dell’originale latino (1).

Infondi in noi, o Padre, lo Spirito del tuo amore, perché nutriti con l’unico pane di vita formiamo un cuor solo e un’anima sola.

Infondi in noi, o Padre, lo Spirito della tua carità, perché nutriti con i sacramenti pasquali, viviamo concordi nel vincolo del tuo amore.

Una traduzione più letterale non sembrerebbe così ostica e difficile: Infondi in noi, o Signore, lo spirito della tua carità, perché quanti hai saziato con l’unico pane del cielo, tu li renda concordi in un’unica pietà; Infondi in noi, o Signore, lo spirito della tua carità, perché quanti hai saziato con i sacramenti pasquali, tu li renda concordi nel tuo amore. In entrambe le formule, nel latino si sente molto di più che il protagonista è il Signore e il suo Spirito: è detto esplicitamente, con la forma verbale personale, che è Dio a saziare i fedeli e a rendere possibile la concordia. Nell’italiano non è così chiaro: «un cuor solo e un’anima sola», pur essendo un’espressione di sapore biblico, non toglie il rischio di un’interpretazione troppo orizzontale. «Vincolo del tuo amore», pur aggiungendo un termine forse non necessario (vincolo), riesce a rendere esplicito la richiesta che l’assemblea sia concorde nell’amare il Signore, l’unione di inenti chiesta nella preghiera della II domenica è notevolmente più vaga. Forse esageriamo, ma un cuore solo è un’anima sola la hanno pure i tifosi di una squadra di calcio nel sostenere i loro beniamini, o anche due innamorati!

E’ pure vero che si tratta di due preghiere distinte, ma il traduttore – crediamo – avrebbe potuto trarre suggerimenti interessanti dal confronto fra i due testi: la lettura di quell’una pietate sarebbe stata certamente meglio compresa se letta insieme all’altra, tua pietate!

Comunque, almeno per quest’anno, l’ascolto attento della seconda lettura (ciclo C) dovrebbe evitare il pericolo di intendere la concordia e l’unità ad un livello superficiale e solamente umano: «Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti…» (1 Cor 12,4).


(1) Pour on us, o Lord, the Spirit of your love, and in your kindness make those you have nourished by this one heavenly Bread one in mind and heart;

Pénètre-nous, Seigneur, de ton esprit de charité, afin que soient unis par ton amour ceux que tu as nourris d’un même pain;

Derrama, Señor, sobre nosotros tu espiritu de caridad para que, alimentados con el mismo pan del cielo, permanezcamos unidos en el mismo amor;

Infundi em nós, Senhor, o espÍrito da vossa caridade, para que vivam unidos num só coraçao e numa só alma, aqueles que saciastes com o mesmo pão do Céu.

Riletture di riletture: dalla geografia all’astronomia, ma è liturgia, autentica!

Siamo, evidentemente, fuori tempo, ma può essere utile – a titolo esemplificativo – tornare ad alcuni testi del proprio del tempo di Avvento e Natale, per mostrare la libertà che la liturgia si prende nell’usare e nel citare la Sacra Scrittura, dalla quale però è totalmente ispirata e imbevuta, assumendo da essa le parole che poi rielabora in proprio: il risultato è una mirabile ricchezza.

Il primo caso è la qualifica geografica di Betlemme. E’ celebre la profezia di Michea a riguardo, ripresa – rielaborata – dall’evangelista Matteo. Ebbene, quel processo di citazione riadattata inziato nel Nuovo Testamento si conclude nella liturgia, che riprende un testo di Prudenzio (1) e lo propone come Inno nella liturgia delle Ore. Così, Betlemme passa ad essere non solo non più così piccola nè, ancora, non davvero l’ultima, ma finalmente grande!

E tu, Betlemme di Efrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti [et tu Bethlehem Epurata parvulus es in milibus Iuda ex te mihi egredietur qui sit dominator in Israhel et egressus ius ab initio a diebus aeternitatis] (Mi 5,2)

E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te in fatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele [et tu Bethlehem terra Iuda nequaquam minima es in principibus Iuda ex te enim exit dux qui reget populum meum Israhel] (Mt 2,6)

Betlemme, tu sei grande fra le città di Giuda: in te è apparso al mondo il Cristo Salvatore [O sola magnarum urbium maior Bethlem, cui contigit ducem salutis caelitus incorporatum gignere] (Liturgia delle Ore, Inno dell’Ufficio delle Letture e Lodi per il tempo di Natale dalla solennità dell’Epifania)

Abbiamo evidenziato anche il verbo uscire, perché echeggia un altra strofa di un inno importante, strofa che però – un vero peccato -, non è stata conservata nell’attuale liturgia. Essa è parte dell’Inno, attribuibile con certezza al genio di sant’Ambrogio, Intende, qui regis Israel (cf. qui e anche qui). Nell’odierna Liturgia delle Ore una versione ridotta ci viene proposta come Inno per l’Ufficio delle Letture per il tempo di Avvento dopo il 16 dicembre. Il simbolismo del sole e del suo corso è rimasto comunque nell’Inno: si è perso invece il riassunto dell’intera opera salvifica di Gesù Cristo che Ambrogio sviluppa a partire dall’arco dell’orbita solare.

Basterebbe poco, tuttavia, perché la rilettura della Scrittura, di cui i Padri sono stati maestri, possa arrivare fino a noi, e non come testi lontani ed estranei, ma come ricchezze ricevute dalla tradizione da gustare e da far risplendere. Questo dovrebbero fare i liturgisti!

Sorge da un estremo del cielo e la sua orbita (corsa) raggiunge l’altro estremo: nulla si sottrae al suo calore [a summo caeli egressio eius et occursus eius usque ad summum eius nec est qui se abscondat a calore eius] (Sal 18,7)

La sua uscita dal Padre, e il suo ritorno al Padre, la sua discesa fino agli inferi e il suo ritorno al regno di Dio [Egressus eius a Patre, regressus eius ad Patrem ; excursus usque ad inferos recursus ad sedem Dei]


(1) Cf. qui.

Adamo ed Eva alla grotta di Betlemme: ancora intrecci di alberi.

Nel precedente post (1) terminavamo evidenziando come la versione italiana dell’Inno della Liturgia delle Ore Radix Iesse floruit abbia introdotto un elemento di evocazione simbolica, arricchendo il richiamo alla profezia di Isaia, della radice di Iesse che porterà un nuovo frutto, con un allusione all’albero della vita, presumibilmente quindi con le prime pagine del libro della Genesi.

Di questa sovrapposizione non possiamo certo affermare di averne trovato la fonte diretta, ma di sicuro possiamo indicarne un lontanissimo precedente. Si tratta del secondo Inno della Natività di Romano il Melode (2). In esso, l’autore mette in scena Adamo ed Eva che, alla nascita di Gesù, vengono verso la grotta e chiedono a Maria di difendere la loro causa e di intercedere presso il Figlio. Il tema patristico del Nuovo Adamo e della Nuova Eva è illustrato da Romano il Melode in modo davvero originale e curioso, si potrebbe dire pure simpatico: Eva ode il canto di Maria, che culla il frutto del suo seno piena di stupore. La prima donna intuisce che è giunta la salvezza, e chiede ad Adamo di andare insieme alla grotta di Betlemme. Il Progenitore teme che si ripeta l’inganno primordiale, e diffida della donna. Ma come al principio, Adamo alla fine cede ad Eva, questa volta con un esito ben più felice; giunti al cospetto della Vergine Maria,  ad essa chiedono di farsi avvocata presso il Figlio: la Madre ottiene la promessa di grazia e di perdono, e Adamo ed Eva felici della buona notizia si dispongono ad attendere la Pasqua.

In questo intreccio di tematiche, era forse inevitabile che si intrecciassero pure i germogli, i rami e i frutti della storia della salvezza, attraversando senza troppa difficoltà i libri della Sacra Scrittura, che soggiaciono in filigrana nella poetica liturgica del Melode.

 

Colui che, il Padre, prima dell’aurora senza intervento di madre generò, si è incarnato oggi sulla terra da te, senza intervento di padre. Perciò un astro istruisce i Magi, gli angeli con i pastori inneggiano al tuo inverosimile concepimento, o Piena di grazia.

La vigna che aveva prodotto il grappolo senza coltura, lo portava sulle braccia come sul tralcio e diceva: “Tu sei il mio frutto, tu sei la mai vita.. […] O voi della terra, mettete fine alle vostre tristezze, contemplando la gioia sbocciata nel mio immacolato seno, quando mi sono sentita chiamare Piena di grazia”. Mentre Maria era intenta a cantare colui che aveva messo al mondo ed accarezzava il bambino dato alla luce da sola, la donna che aveva invece partorito nei dolori, udendola disse con gioia ad Adamo: “Chi ha colpito le mie orecchie con l’annuncio sperato, di una Vergine che mette al mondo il riscatto dalla maledizione, la sola voce della quale può mettere fine alle mie miserie ed il cui parto ferisce colui che mi aveva ferita? E’ colei che il figlio di Amos ha prefigurata come il ramo di Iesse dal quale nasce il virgulto di cui mangerò il frutto senza pericolo di morire, colei che è Piena di grazia. O Adamo, al sentire il grido della rondine che annuncia l’aurora, scuoti il tuo sonno di morte e alzati. Ascoltami, sono la tua sposa: io, che sono stata la prima a provocare la caduta dei mortali, oggi mi rialzo. Considera i prodigi, mira l’ignara di nozze che guarisce la nostra piaga col frutto del suo parto. Il Serpente una volta mi sorprese e si rallegrò, ma la vedere ora la mia discendenza, fuggirà strisciando”. […] Ai discorsi della Sposa, Adamo scacciò di colpo l’oppressione che gli appesantiva le palpebre, alzò il capo come chi esce dal sonno e, aprendo le orecchie rese sorde dalla disubbidienza, così parlò: “Sento un dolce gridare, un canto incantevole; ma la voce del modulatore non mi adescherà questa volta: è la voce di una donna, per questo ne ho paura. Ho esperienza e diffido di ogni femmina. La voce mi piace, perché è tenera, ma il mezzo mi allarma: sta forse cercando di ingannarmi un’altra volta portandomi il disonore la Piena di grazia? […] Riconosco la primavera, o donna, e aspiro alle delizie da cui decademmo allora. Scorgo un nuovo, diverso paradiso: la Vergine che porta in grembo il legno della vita, lo stesso legno sacro che custodivano i Cherubini per impedirci di toccarlo. Ebbene, guardando crescere questo intoccabile legno, ho avvertito, o mia sposa, il soffio vivificante che fa di me, polvere e fango immoti, un essere animato. Adesso, rinvigorito dal suo profumo, voglio andare dove cresce il frutto della nostra vita, dalla Piena di grazia.


(1) Cf. qui.

(2) Cf. l’edizione curata da G. Gharib: Romano il Melode, Inni (Letture cristiane delle origini 13), Roma 1981, 178-184. Cf. anche qui e qui.

Il frutto di quale albero?

A chi osservasse con attenzione la disposizione  testuale degli Inni del tempo di Natale (fino alla solennità dell’Epifania) nell’edizione italiana della Liturgia delle Ore sarebbe sufficiente un solo sguardo per notare una particolarità. La versione italiana dell’Inno dei Vespri, delle Lodi e delle Ore minori è seguita da un corrispettivo testo latino, al quale la versione italiana in certo qual modo può essere ricondotta. Per l’Inno dell’Ufficio delle Letture, invece, non si ha nessun testo originale di riferimento.

Il confronto con il testo dell’edizione tipica, il volume I della Liturgia Horarum ci fa scoprire un Inno che sembra dimenticato dal Salterio italiano: all’Ufficio delle Letture è infatti proposto l’Inno Candor aeternae Deitatis alme. Una rapida lettura fa intuire che l’inno italiano per l’Ufficio delle Letture non può essere neanche una lontanissima traduzione. La Liturgia delle Ore, anche qui, si discosta dall’edizione tipica. Ma non ci vuole molto ad accorgersi che nemmeno si tratta di una composizione del tutto originale. Infatti, nonostante il testo latino non sia mai riportato nella versione italiana del Salterio, l’Inno Fiorì il germoglio di Iesse è la resa, nella lingua di Dante, dell’Inno latino Radix Iesse floruit, proposto dalla Liturgia Horarum all’Ufficio delle Letture del primo Gennaio, Solennità di Maria Ss. Madre di Dio.

In sostanza, il curatore dell’edizione italiana ha ritenuto che l’Inno previsto per l’ultimo giorno dell’Ottava fosse proposto per ogni giorno del tempo di Natale, almeno fino all’Epifania. Senza voler comparare e mettere in questione la qualità dei due Inni, registriamo il fatto, notando alcuni dettagli, da sommare ad altri di cui ci eravamo già accorti (cf. qui): sembra infatti che si sia voluto accentuare, in certo qual modo, il tono mariano del tempo di Natale. Radix Iesse floruit, pur contemplando il mistero cristologico dell’Incarnazione, ripetutamente menziona la Madre.

Un’operazione, quella della sostituzione dell’Inno previsto dall’edizione tipica, ad opera di qualcuno che – inconsciamente o consapevolmente – ha voluto enfatizzare maggiormente la venerazione per la Madonna?

Lasciando in sospeso, per ora, tale domanda, vogliamo infine notare un altro slittamento, soffermandoci più da vicino sul testo.

Abbiamo detto che Fiorì il germoglio di Iesse non è, formalmente, una composizione originale; eppure la resa italiana dell’originale latino appare   assai libera: i connotati non sono cambiati, ma sono introdotte alcune novità. Innanzitutto una strofa di quattro stichi è resa con due strofe di tre stichi. Ma il cambio più ardito riguarda un aspetto «botanico»: i primi due stichi del testo latino si riferiscono, palesemente, alla profezia di Isaia 11,1: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici [et egredietur virga de radice Iesse et flos de radice ius ascendet]. Sullo sfondo vi può essere certamente, anche per commistioni con i vangeli apocrifi e con la tradizione interpretativa dei Padri, anche il testo dei Numeri relativo al bastone di Aronne (Nm 17,16-26; la nuova traduzione della Bbbia rompe la continuità con la più classica verga di Aronne).

La versione italiana decidere di non esplicitare il riferimento alla verga di Iesse, introducendo un non meglio specificato «albero della vita». Sembra che dall’originale Isaia siamo trasferiti nel libro della Genesi, nel centro del giardino di Eden: «Che ora egli non stenda la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva per sempre!» (Gen 3,22).

Siamo forse esagerati nel vedere qui una nuova ed inaudita sovrapposizione? E’ solo un vezzo di botanici o di liturgisti perditempo dissertare sul frutto e sulla sua origine?

Fiorì il germoglio di Iesse, l’albero della vita ha donato il suo frutto. Maria, figlia di Sion, feconda e sempre vergine, partorisce il Signore.

Radix Iesse floruit, et virga fructum edidit; fecunda partum protulit, et virgo mater permanet.

E’ fiorita ora la radice di Iesse, e la verga ha prodotto il frutto, la Madre feconda ha partorito rimanendo vergine (una traduzione più fedele).