Di nuovo su Tamar, e sulla sua “turpitudine”

Il post (1) precedente ci dà occasione di riprendere in mano uno dei capolavori di De Lubac, la sua sintesi magistrale sull’esegesi cattolica: abbiamo bisogno di alcuni principi ermeneutici e di punti prospettici giusti, per poter accedere al testo biblico ed esserne edificati e trarne vantaggio.

In effetti, leggere in sé stesso il capitolo 38 della Genesi rimane assai difficoltoso. Ci troviamo di fronte ad una pagina biblica assai cruda, il cui significato spirituale è arduo a rivelarsi. A proposito di tale episodio, san Girolamo non esita a parlare di «turpitudine della lettera», in un passaggio che richiama, anch’esso, un’altro testo biblico che avrebbe bisogno di essere compreso meglio: «Chiunque legga che Giuda si accostò a Tamar la prostituta e che da ella ebbe due figli, se segue la turpitudine della lettera e non si innalza alla bellezza del senso spirituale, sta bruciando le ossa del re di Edom (cf. Am 2,1)» (Girolamo, Commento ad Amos I, II).

La retta fede della Chiesa, invece di scandalizzarsi per la talvolta poco esaltante qualità morale di alcune pagine bibliche e ritenere solamente le parti preclare ed alte, scorge in tale complessità un mistero profondo, quello della condiscendenza del Verbo di Dio.  La visione dell’esegesi cattolica non disprezza la storia sacra, anche quella più cruda, in nome di un’interpretazione alta e spiritualeggiante, ma riesce a tenere insieme – cattolicamente – entrambe le dimensioni, storia e spirito, lettera e spirito, a partire dalla fede nel Dio che in Gesù Cristo tiene insieme umanità e divinità.

Ecco alcuni passaggi, illuminanti, di De Lubac:

«”Lettera” e “carne” non sono soltanto simili in quanto tutte e due sono paragonabili ad un “velo”; infatti si può dire che, secondo la stessa Scrittura, il “Verbo di Dio si è incarnato in due maniere”, giacché in sostanza lo stesso e unico Verbo di Dio – la sua stessa e unica parola – discende volta a volta, per nascondervisi e insieme per manifestarsi, nella lettera della Scrittura e nella carne della nostra umanità, in questa carne “inferma e senza bellezza”. […]

Humilitas litteramcome humilitas Filii hominis Da ambedue le parti c’è la stessa “dispensatio humilitatis”. [….]

Per i nostri esegeti “spirituali”, sia del medioevo che del tempo dei Padri, l’allegoria non era dunque, come lo fu per i moralisti pagani, “uno scampo dalla vergogna propria dei miti”. Essi non “riducevano i fatti biblici a delle allegorie, quasi per evitare ai cristiani di doverne arrossire”. Non fuggivano perciò “lo scandalo”. Non gettavano sulla lettera “un velo per coprirne l’indecenza”. Non si servivano di un mezzo comodo per “immolare senza scrupolo né reticenza il senso letterale” sopprimendo “le impudicizie, le perfidie, le crudeltà, le menzogne” che potevano sembrar loro “portare a rovina il cristianesimo”. Al contrario, tutti erano concordi nel pensare, come aveva detto San Giovanni Crisostomo a proposito della caduta di David, che ” se lo Spirito Santo non ha visto alcuna vergogna nel ricordare simili storie, molto meno noi abbiamo motivo di nasconderle».

H. De Lubac, Esegesi medievale, I, II, Milano 1988, 92-93.104-105.

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(1) http://www.sacramentumfuturi.wordpress.com/2015/11/12/tamar-e-piu-giusta-di-me-la-sorprendente-preghiera-di-un-pastore-misericordioso/

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