Ex archivis. Pagine curiose di cui nessuno vi parlerà.

Siamo ora in grado di riprodurre un documento (1) a cui avevamo accennato in un post di qualche tempo fa [ https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2015/06/16/un-biblista-bacia-la-scrittura-niente-di-strano-a-meno-che-quella-scrittura-non-sia/ ].

Si tratta del resoconto scritto di un aneddoto curioso, riguardante la ricezione di un desiderato fascicolo del testo emendato dello schema di costituzione, durante una delle adunanze della Commissione Conciliare De Liturgia. Ci pareva significativo – come parve all’estensore della lettera, il Segretario della stessa Commissione – registrare l’incosueta reazione di un vescovo biblista, che dimostrò simbolicamente di non venerare con adorazione solamente i testi Sacri dell’Antico e del Nuovo Testamento, ma di attribuire analoga importanza al testo della Costituzione liturgica, esprimendo tale venerazione, baciandone il fasicolo.

Lettera di Antonelli a Lercaro

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(1) Archivio Lercaro, AGL. A. CCCXLVIII.

Può la pericope evangelica “correggere” l’eucologia? Semplici note su un caso di studio.

L’orizzonte ampio che la preghiera esaminata nei precedenti post ci aveva aperto, non sembra rimanga tale nella colletta di questa domenica, XVII del tempo Ordinario, almeno nella versione italiana. Forse rischiamo di essere esagerati, ma la sensazione è davvero di una riduzione della prospettiva.

O Dio, nostra forza e nostra speranza, senza di te nulla esiste di valido e di santo; effondi su di noi la tua misericordia perché, da te sorretti e guidati, usiamo saggiamente dei beni terreni nella continua ricerca dei beni eterni [Protector in te sperantium, Deus, sine quo nihil est validum, nihil sanctum multipla super nos misericordia tua, ut, rector, te duce, sic bonus transeuntibus nunc utamur, ut iam possimus inhaerere mansuris]

Di sicuro, il senso dell’originale latino è stato profondamente alterato.
Una cosa, infatti, è «la continua ricerca», ben altra è l’aderire, essere congiunti, essere uniti, attaccati alle realtà che rimangono, secondo una traduzione più letterale dell’ultimo stico della preghiera: «ut iam possimus inhaerere mansuris».

La continua ricerca dei beni eterni e l’uso saggio dei beni terreni sembra essere più familiare ad un lessico filosofico che cristiano; tali espressioni si addicono meglio ad un’esortazione di uno stoico o alla presidenza di una celebrazione cristiana?
Ma senza eccedere nella polemica, vorremmo far notare alcune caratteristiche della preghiera latina, le quali, ci pare, sono state ignorate nella versione italiana.
E’ evidente nel testo originale il parallelismo antitetico presente nella parte finale:

«..sic bonis transeuntibus nunc utamur,

ut iam possimus inhaerere mansuris..»

Da una parte ci sono i bona transeuntes, i beni che passano, e dall’altra  i bona (sottinteso) mansura, i beni che non passano, che permangono.
Il traduttore interpreta questa opposizione secondo la sua comprensione, che non corrisponde alla lettera, e inoltre spezza questo parallelismo antitetico: se fosse corretto leggere con terreni quel transeuntes allora si dovrebbe leggere con celesti quel mansuris.
Allo stesso tempo pare che i due verbi siano strettamente in relazione, scelti appositamente – il legame pare rafforzato dai due avverbi nunc e iam -: i beni che passano si usano, mentre ai beni che rimangono si aderisce.

Una splendida ermeneutica di cosa ciò significhi ci viene, in questo anno B, dal brano del vangelo: Giovanni 6,1-15.
Andrea, fratello di Simon Pietro giustamente osserva che cinque pani d’orzo e due pesci non sono nulla, di fronte alla vastità della folla da sfamare. Un uso saggio di quei pochi beni avrebbe consigliato di usarli perché almeno il ragazzo e qualche altro potessero mangiare qualcosa. Un ben altro uso ne fa il Signore! Li prende, non li conserva per sé o per pochi, compie un gesto assai poco saggio e prudente, perché dimostra di essere già in possesso di beni ben più duraturi: il potere regale di donare la propria vita, saziando il bisogno di amore che ogni uomo ha, e indicando nell’obbedienza al Padre e alla sua volontà il vero cibo che non perisce: «Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’Uomo vi darà» (Gv 6,27). Con questa fiducia, di possedere già, in Cristo, di tutto quello che ci serve per la vita, possiamo mettere a disposizione anche i nostri pochi ed effimeri beni, perché di nuovo si compia la Pasqua (1), perché nel nostro poco possiamo sperimentare il molto di Dio.

Un rapido confronto con le versioni di alcune lingue europee mostra come i traduttori italiani, come dicemmo già in un altro breve commento (2), si sono presi alcune libertà, per un risultato finale che, pare, non sia del tutto soddisfacente e privo di ambiguità.

I: …we may use the good things that pass in such a way as to hold fast even now to those that ever endure..

F: ..en faisant un bon usage des biens qui passent, nous puissions dèjá nous attacher à ces qui demeurent..

S: ..de tal modo nos sirvamos de los bienes pasajeros, que podamos adherirnos a los eternos…

P: ..usemos de tal modo os bens temporais que possamos aderir desde já aos bens eternos…

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(1) Che questa domenica si verifichi una serie di tematiche convergenti è dimostrato anche dal contenuto della preghiera sulle Offerte: Accetta, Signore, queste offerte che la tua generosità ha messo nelle nostre mani, perché il tuo Spirito, operante nei santi misteri, santifichi la nostra vita presente e ci guidi alla felicità senza fine.

(2) cf. http://www.sacramentumfuturi.wordpress.com/2015/05/13/che-liberta-questi-italiani-sapevano-quel-che-facevano-constatazioni-a-partire-da-un-semplice-responsorio-breve/

XVI settimana: una preghiera sulle offerte dagli orizzonti sconfinati.

Nel post precedente abbiamo visto come la preghiera delle Offerte della Domenica XVI del tempo Ordinario ci inviti a contemplare in unità le tante tipologie di vittime e di sacrifici del culto di Israele e dell’Antico Testamento. Ma lo sguardo che la liturgia permette di allargare arriva ancora ben più giù, fino ad Abele:

O Dio, che nell’unico e perfetto sacrificio del Cristo hai dato valore e compimento alle tante vittime della legge antica, accogli e santifica questa nostra offerta come un giorno benedicesti i doni di Abele, e ciò che ognuno di noi presenta in tuo onere giovi alla salvezza di tutti [Deus, qui legalium differentiam hostiarum unius sacrifici perfectione sanxisti, accipe sacrificium a devotis tibi famulis, et pari benedictione, sicut munera Abel, sanctifica, ut, quod singuli obutlerunt ad maiestatis tuae honorem, cunctis proficiat ad salutem].

Al proposito, prima di eventuali altre considerazioni, pensiamo sia interessante riprendere alcuni brani di una più articolata riflessione di J. Danielou, sul significato di Abele, nella Scrittura e nella liturgia.

Ora questo Abele, di cui la Scrittura e la Tradizione proclamano la santità, non appartiene al cristianesimo e nemmeno al giudaismo, ma a quel lontano periodo dell’umanità che ha preceduto l’uno e l’altro, e che, secondo l’espressione di san Paolo, Dio “non ha lasciato senza testimonianza” (At 14,17) della propria esistenza.

[…]

Abele non ha discendenti. Egli appare come estraneo alle varie generazioni che costituiscono la città terrena; e così prefigura Melchisedech, che pure è senza generazione. Egli appartiene a un’altra città. Costituisce un altro ordine. Mentre Caino inaugura la lunga serie dei persecutori, egli inaugura quella delle vittime, di coloro la cui prosperità non è carnale, ma spirituale. E’ il primo martire. Cristo stesso gli ha reso questa testimonianza e lo ha designato come prefigurazione, così come ha mostrato in Caino il prototipo dei persecutori della sua Chiesa: “Io vi invio profeti, dottori e scribi. Voi li ucciderete e crocifiggerete, affinché ricada su di voi tutto il sangue innocente sparso sulla terra, dal sangue del giusto Abele fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barcaccia (Mt 23,34-35). […] La morte di Abele introduce nella storia il mistero del sangue versato. La voce del sangue infatti parla: “La voce del sangue del tuo fratello grida a me dalla terra” (Gen 4,10). Questa voce del sangue reclama vendetta, non in nome della legge del clan, della vendetta della razza ma in nome del diritto di Dio violato. Il sangue appartiene infatti a Dio, e il sangue innocente, attraverso tutti i secoli, innalza a Dio la sua protesta. Abele morto continua a parlare, come dice la Lettera agli Ebrei (11,4). Questa voce si amplifica attraverso i secoli, è “quella di tutti coloro che sono stati immolati per la parola di Dio. Essi gridano con voce decisa: Fino a quando, o Maestro Santo e Venerabile, non farete giustizia e non richiederete il nostro sangue a tutti coloro che abitano sulla terra? (Ap 6,10). Tutto il sangue innocente versato “da quello di Abele fino a quello di Zaccaria” richiede l’espiazione. Questa espiazione si realizzerà alla fine dei tempi, per il sangue che sarà versato in riparazione di tutti i peccati degli uomini, “per il sangue dell’aspersione la cui voce coprirà la voce del sangue di Abele (Eb 13,24) e che otterrà il perdono del castigo dovuto ad ogni sangue versato dalle origini del mondo. Ma già la voce del sangue di Abele era la prefigurazione di questa voce, solo che essa nn giungeva che a Dio. Essa non attirava su Caino la vendetta, ma la grazia, perché gli strappava un grido di pentimento. La Scrittura attesta dunque che Abele è il primo di coloro che “hanno dato la vita per i loro fratelli” (1Gv 4,16).

Così alle origini della storia umana, in un mondo che è già quello del peccato, che non è ancora quello dell’alleanza giudaica, la Scrittura ci mostra che Dio ha già suscitato dei santi.  Con la sua elezione, Abele è già la prima espressione della libertà delle scelte divine che accompagneranno tutta la storia della salvezza; con la sua morte egli appare come il primo martire e prefigura il sacrificio del Cristo. La liturgia ha dunque ragione di accordare un posto a colui il cui esempio attesta che Dio non ha mai lasciato senza soccorso, perché è dalle origini dell’umanità che appare questa misteriosa protezione che continuerà durante gli immensi periodi dell’alleanza cosmica e dell’umanità pagana.

J. Daniélou, I santi pagani dell’Antico Testamento,  Brescia 1988,  37-48.

Valorizzazione, compimento o superamento: come tenere insieme queste dinamiche?

La preghiera sulle Offerte della XVI domenica del tempo Ordinario è un gioiello di teologia liturgica e un esempio senza pari di come la liturgia possa aiutare a compendiare in una sintesi mirabile numerose pagine della Sacra Scrittura.

Crediamo che a partire da questa preghiera si possano scrivere interi trattati; qui, in questi prossimi giorni, cercheremo di offrire qualche semplice elemento per apprezzarne meglio il significato e la portata.

Cominciamo dalla lettera stessa del testo. Ma non sembri facile la questione, perché sull’interpretazione e traduzione di un solo verbo si decidono comprensioni delicate. Ecco la prima parte del testo latino: «Deus qui legalium differentiam hostiarum unius sacrifici perfectione sanxisti, …»

La versione italiana ufficiale recita: «O Dio, che nell’unico e perfetto sacrificio di Cristo hai dato valore e compimento alla tante vittime della legge antica…». Il traduttore italiano, quindi, riconosce la complessità di quel «sanxisti», tanto da renderlo con una duplice espressione. La soluzione però apre altre domande: se una realtà deve essere portata a compimento perché abbia valore, allora che senso può avere in sé stessa? Il compimento, che è una realtà altra, come può avvalorare la prima realtà, senza  manifestarla come passata e, quindi, ormai caduca? Eppure, non sembra che nella liturgia abbia spazio una sorta di marcionismo, ossia la negazione in toto degli elementi anticotestamentari dall’ambito della fede cristiana (1). Prima di continuare, vediamo pure le traduzioni in alcune altre lingue europee:

F. Dans l’unique et parfait sacrifice de la croix, tu as porté à leur achèvement, Seigneur, les sacrifices de l’ancienne loi…

S. Oh Dios, que has llevado a la perfección del sacrificio único los diferentes sacrificios de la antigua alianza..

P. Senhor, que levastes à plenitude os sacrifícios da Antigua Lei no único sacrifício de Cristo..

I. O God, who in the one perfect sacrifice brought to completion various offerings of the law..

Al momento non riusciamo a reperire la versione tedesca. Una nota interessante l’abbiamo tuttavia trovata in alcune riflessioni del benedettino Burkhard Neunheuser, in un articolo sul sacrificio. Lui introduce un termine tedesco: su wikipedia si trova una definizione interessante: «Aufheben o Aufhebung è una parola tedesca che assume diversi significati, alcuni dei quali sembrano contraddittori, tra cui “sollevare”, “sopprimere”, o “sublimare”. Il termine può anche essere tradotto con “preservare” e “trascendere.”». Di nuovo troviamo l’apparente contraddizione: sopprimere e trascendere….

Ci aiuteranno a trovare una pista per la soluzione sia il testo di Neunheuser sia, poi, una riflessione magistrale di Benedetto XVI, che pur nel nascondimento del recinto di San Pietro, continua a dispensare sintesi eccezionali: anche se il discorso è più generale sulla missione e sui rapporti fra cristianesimo e religioni, la profondissima sintesi del Papa emerito ci aiuterà a trovare una strada. Le osservazioni qui riportate sono solo spunti iniziali, ma hanno tutto il loro valore già da ora! Potrebbero essere certamente meglio approfondite e ampliate, ma sono di per sé assai gustose.

..tutti questi sacrifici hanno trovato il loro ultimo compimento e di conseguenza anche il loro superamento (Aufhebung) nella morte sacrificale di Gesù Cristo, come afferma in termini classici la preghiera sulle offerte della domenica XVI per annum del nuovo Messale Romano: “O Dio, che alla tante vittime della legge antica hai dato valore e compimento nell’unico e perfetto sacrificio del Cristo…” […] Nella visuale di questa interpretazione “il sacrificio di Gesù sulla croce segna il compimento e l’abolizione di tutti i sacrifici antichi”. Abolizione, qui, significa certamente la fine, il superamento definitivo del culto sacrificale anteriore, ma contemporaneamente e soprattutto il suo più vero compimento. Quel che in tale culto era prefigurato in maniera vaga, ora è verità e realtà perfetta. Noi perciò possiamo già sentire e presagire quel che il sacrificio di Cristo è, guardando alle prefigurazioni umbratili che Dio che ce na ha dato nella storia del popolo di Israele

B. Neunheuser, «Sacrificio», in D. Sartore – A. M. Triacca (edd.), Nuovo Dizionario di Liturgia, Cinisello Balsamo (MI) 1995, 1200-1201.

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L’opinione comune è che le religioni stiano per così dire una accanto all’altra, come i Continenti e i singoli paesi sulla carta geografica. Tuttavia questo non è esatto. Le religioni sono in movimento a livello storico, così come sono in movimento i popoli e le culture. Esistono religioni in attesa. Le religioni tribali sono si questo tipo: hanno il loro momento storico e tuttavia sono in attesa di un incontro più grande che le porti alla pienezza. Noi, come cristiani, siamo convinti che, nel silenzio, esse attendano l’incontro con Gesù Cristo, la luce che viene da Lui, che sola può condurle alla loro verità. E Cristo attende loro. L’incontro con Lui non è l’irruzione di un estraneo che distrugge la loro propria cultura e la loro propria storia. E’, invece, l’ingresso in qualcosa di più grande, verso cui esse sono in cammino. Perciò quest’incontro è sempre, a un tempo, purificazione e maturazione. Peraltro, l’incontro è sempre reciproco. Cristo attende la loro storia, la loro saggezza, la loro visione delle cose. Oggi vediamo sempre più nitidamente anche un altro aspetto: mentre nei Paesi della sua grande storia il cristianesimo per tanti versi è divenuto stanco e alcuni rami del grande albero cresciuto dal granello di senape del Vangelo sono divenuti secchi e cadono a terra, dall’incontro con Cristo delle religioni in attesa scaturisce nuova vita. Dove prima c’era solo stanchezza, si manifestano e portano gioia nuove dimensioni della fede.

La religione in sé non è un fenomeno unitario. In essa vanno sempre distinte più dimensioni. Da un lato c’è la grandezza del protendersi, al di là del mondo, verso l’eterno Dio. Ma, dall’altro, si trovano in essa elementi scaturiti dalla storia degli uomini e dalla loro pratica della religione. In cui posso rinvenirsi senz’altro cose belle e nobili, ma anche basse e distruttive, laddove l’egoismo dell’uomo si è impossessato della religione e, invece che in un’apertura, l’ha trasformata in una chiusura del proprio spazio.

Per questo, la religione non è mai semplicemente un fenomeno solo positivo o solo negativo: in essa l’uno e l’altro aspetto sono mescolati. Ai suoi inizi, la missione cristiana percepì in modo molto forte soprattutto gli elementi negativi delle religioni pagani nelle quali s’imbattè. Per questa ragione, l’annuncio cristiano fu in un primo momento estremamente critico della religione. Solo superando le loro tradizioni che in parte considerava pure demoniache, la fede poté sviluppare la sua forza rinnovatrice. Sulla base di elementi di questo genere, il teologo evangelico Karl Barth mise in contrapposizione religione e fede, giudicando la prima in modo assolutamente negativo quale comportamento arbitrario dell’uomo che tenta, a partire da se stesso, di afferrare Dio. Dietrich Bonhoeffer ha ripreso questa impostazione pronunciandosi a favore di un cristianesimo “senza religione”. Si tratta  senza dubbio di una visione unilaterale che non può essere accettata. E tuttavia è corretto affermare che ogni religione, per rimanere nel giusto, al tempo stesso deve anche essere sempre critica della religione. Chiaramente questo vale, sin dalle sue origini e in base alla sua natura, per la fede cristiana, che, da un lato, guarda con rispetto alla profonda attesa e alla profonda ricchezza delle religioni, ma, dall’altro, vede in modo critico anche anche ciò che è negativo. Va da sé che la fede cristiana deve sempre di nuovo sviluppare tale forza critica anche rispetto alla propria storia religiosa. Per noi cristiani Gesù Cristo è il Logos di Dio, la luce che ci aiuta a distinguere tra la natura della religione e la sua distorsione.

Benedetto XVI, Messaggio per l’Intitolazione dell’Aula Magna a Sua Santità il Papa Emerito Benedetto XVI,

Città del Vaticano, 21 Ottobre 2014, I.

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(1) In uno studio di solito molto preciso e valido, troviamo una versione alquanto differente di una possibile traduzione italiana: «Dio, che ponesti fine alla molteplicità delle vittime della Legge antica con la perfezione di un unico sacrificio..»: M. F. T. Lovato, Messale Romano. Le orazioni proprie del tempo, nuova versione con testo latino e fonti, Reggio Emilia 1991, 401.

Domus Sanctae Marthae: chi non vi entrò mai, e chi ne prese il posto

Può darsi che si tratti di un dettaglio pratico di minor conto oppure, invece, che sia un gesto simbolico significativo, dalle conseguenze non previste: sembra che la decisione di alloggiare o meno a Santa Marta sia stata già controversa parecchi anni prima che Papa Francesco rifiutasse l’Appartamento papale nel Palazzo Apostolico.

Ci spieghiamo.

Fra alcune carte spurie raccolte in un faldone dell’Archivio Lercaro, abbiamo avuto occasione di trovare alcune pagine dattiloscritte, indirizzate al Cardinale Lercaro con tutta probabilità da Bugnini, aventi come oggetto alcune ipotesi sulla Commissione che avrebbe dovuto essere costituita per trarre le conseguenze applicative dai principi generali esposti nella Costituzione Conciliare. Senza poter entrare adesso nella complessa storia – in parte ancora da studiare e scrivere – delle origini del Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, registriamo solamente un passaggio interessante:

«Prima soluzione: Isituire ex novo la Commissione.

Avrebbe il vantaggio di poter scegliere i membri liberamente, con ampia facoltà e secondo le compentenze: ciò favorirebbe il lavoro dinamico e sicuro. La Commissione potrebbe aver sede a S. Marta dove sono gli Uffici di tutti le Commissioni Conciliari. La Commissione liturgica non ha mai occupato quegli uffici, preferendo restare alla SRC» (1)

Se questo documento dice il vero, la Commissione Liturgica Conciliare non si radunò negli Uffici predisposti a Santa Marta per tutte le Commissioni incaricate di rivedere gli schemi secondo le osservazioni e le proposte dei Padri Conciliari, ma preferì utilizzare i locali della Sacra Congregazione dei Riti. Una scelta che ha una sua logica e pure comprensibile in ordine di praticità. Il Presidente della Commissione e il Segretario, infatti, erano di casa alla Congregazione dei Riti, essendone il Prefetto, il primo, e Promotore generale della Fede, il secondo.  Tuttavia, occorre considerare che la nomina del segretario della Commissione Conciliare nella persona del padre. F. Antonelli, «suscitò stupore e apprensioni nei componenti la Commissione, come testimonia il P. Martimort: “La sua nomina inattesa suscitò timore e malumore non per la sua persona ma perché era preconizzato a quell’incarico il P. Bugnini, già Segretario della Commissione preparatoria, cosicché la mancata conferma di questi fu considerata un affronto e un’offensiva della Curia romana contro l’operato della Commissione preparatoria..”» (2)

Date queste premesse, la scelta di riunire gli esperti della Commissione Conciliare in uno dei Palazzi classici della Curia Romana, quando era stata prevista un’altra sistemazione, forse non fu una semplice decisione pratica e neutrale. Per di più, parrebbe che la Commissione Conciliare de Liturgia sia stata l’unica commissione conciliare a non stabilire a Santa Marta la sede dei suoi lavori. Di questo non abbiamo altri riscontri, mentre del fatto che le adunanze, almeno le prime, nello stesso edificio della Sacra Congregazione dei Riti non furono certo senza difficoltà e malumori: «Oggi, domenica, alle 10.30 si è riunita per la prima volta [21 ottobre 1962, ndr] la Commissione Conciliare di Sacra Liturgia, nella sala del Congresso, nei locali della Sacra Congregazione dei Riti. Il Card. Larraona ha nominato due Vice-Presidenti, il Card. Giobbe e il Card. Jullien. Ciò destò una certa sorpresa, specialmente per il fatto che ambedue erano membri della curia; però il Card. Lercaro, che era il solo Cardinale eletto direttamente dalla Congregazione Generale e che godeva di ottima stima come esperto liturgista, era stato ignorato. Ha comunicato poi la nomina del Segretario nella persona del sottoscritto e ha annunziato che chiamerà diversi periti, anche non liturgisti, ma giuristi e teologi..» (3).

Cardinali curiali ed esperti giuristi, e non insieme agli altri periti e membri delle commissioni conciliari a Santa Marta, ma nel palazzo della Congregazione: un inizio alquanto singolare, per la Commissione liturgica.

Non tantissimi mesi dopo, un nuovo trasferimento e una nuova Commissione: «La prima adunanza generale del “Consilium” fu celebrata a Roma, l’11 marzo 1964, pochi giorni dopo la sua istituzione. Si tenne nel Palazzo S. Marta, in un corridoio del 1° piano….» (4).

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(1) Appunto riservato «Per la realizzazione della “Commissione postconciliare della Riforma Liturgica”, potrebbero prospettarsi tre soluzioni»,1: Archivio Lercaro, A. CCCXLVIII (1962-1968).

(2) N. Giampietro, Il Card. Ferdinando Antonelli e gli svilpuppi della riforma liturigca dal 1948 al 1970 (Studia Anselmiana 121 Analecta liturgica 21), Roma 1998, 106.

(3) Giampietro, Il Card. Ferdinando Antonelli, 107.

(4) A. Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975) (Bibliotheca «Ephemerides Liturgicae» «Subsidia» 30), Roma 1997², 150.

Il piede destro. Divagazioni estive…

Ci si perdonerà questo post forse eccessivamente leggero e stravagante, ma la stagione estiva e la calura di Roma rende difficile una concentrazione maggiore.

Si stava ritornando in questi giorni (1) sull’asse spaziale destra – sinistra, riprendendo post più datati che ad esso avevamo dedicato. Ad uno fra questi, rispose un’autorevolissimo lettore del nostro blog, il prof. Felix Maria Arocena. Riporto qui per esteso il suo commento, in uno spagnolo che si potrà comprendere senza troppa difficoltà:

[….], recuerda el himno “Sol ecce surgit” (Laudes de los jueves I y III, segunda estrofa) del Canto de Cathemerinon:
Tandem facessat cæcitas,
quæ nosmet in præceps diu
lapsos “sinistris” gressibus
errore traxit devio.
Se disipa, por fin, la ceguera que desde hacía tiempo nos empujaba hacia el precipicio con mal pie y avieso engaño.
Los pasos siniestros, o sea izquierdos, son los pasos del pecado. En la antigüedad, al pie derecho se le atribuía un simbolismo de felicidad y el izquierdo de desgracia. De ahí que se debiera entrar en los templos con el pie derecho. Y de ahí también la antigua rúbrica de la liturgia romana, según la cual, el sacerdote debe acceder al altar con el pie derecho. Esta precisión es un vestigio de la antigua mentalidad que se refleja en el dicho español ―que también existe en alemán y en otras lenguas― de: “entrar con el pie derecho” o, “entrar con buen pie” (2).

Oggi pomeriggio ci siamo piacevolmente sorpresi nel ritrovare un’eco di quest’antica tradizione in un contesto davvero inaspettato. Il capitano della squadra di calcio della capitale d’Italia, Francesco Totti, in un’intervista rilasciata il 10 luglio, rispondeva alla domanda se ci fossero dei gesti scaramantici da lui praticati prima delle partite. Totti ha risposto: “Non sono scaramantico, anche se ho un rito: entro in campo prima con il piede destro”!

Una reminiscenza curiosa: la liturgia ha plasmato la cultura in modo davvero incredibile, molto di più di quello che normalmente si possa pensare. Anche Francesco Totti lo dimostra. D’altronde questo straordinario sportivo non ha mai nascosto trovare nella fede cattolica un riferimento, accompagnato da un profondo rispetto per il Santo Padre (3).

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(1) http://www.sacramentumfuturi.wordpress.com/2015/07/08/ad-orientem/

(2) http://www.sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/11/19/alla-destra-o-alla-sinistra-del-re-matteo-2531-46-e-alcuni-dettagli-liturgici/#comments

(3) Cf. alcune sue dichiarazioni pubbliche: http://www.collactio.com/documenti/stampa/roma-papa-benedetto-xvi-e-il-capitano-francesco-totti.html ; http://www.gazzetta.it/Calcio/Serie%20A/Primo%20Piano/2005/04-Aprile/05/tottimar.shtml.

Ad orientem?

La controversia intorno alle coordinate spaziali dell’assemblea liturgica è, a torto o a ragione, quasi del tutto assorbita dalla questione sull’orientamento. La parola, in se stessa, contiene il riferimento al punto cardinale est, oriente: orient-amento. Ma la dialettica a proposito della posizione dell’altare e del sacerdote e dei fedeli non esaurisce la ricchezza del simbolismo spaziale nella liturgia. Lo stesso contrasto oriente ed occidente è assai ben testimoniato anche nel contesto dei riti battesimali della rinuncia a satana.

Ma, dicevamo, nella liturgia altri simbolismi sono altrettanto importanti, almeno lo erano. Attorno al contrasto destra – sinistra si è venuta articolando una tradizione che, partendo dalle parole stesse del Signore Gesù, arriva a permeare, anche se in filigrana, varie usanze e vari testi. Di essi abbiamo dato qualche prova in post precedenti (1).

Oggi evidenziamo un testo, che la Liturgia delle Ore ci offriva nell’Ufficio delle Letture di sabato scorso (XIII sett. del t. ordinario).

Acquistate attraverso la fede il pegno dello Spirito Santo, perché possiate essere accolti nelle dimore eterne. Accostatevi al mistico contrassegno, perché vi si possa distinguere bene fra tutti. Siate annoverati nel gregge di Cristo, santo e ben ordinato, così che posti un giorno alla sua destra possiate ottenere la vita preparata come vostra eredità.

Quelli infatti ai quali rimane ancora attaccata, come fosse una pelle, la ruvidezza dei peccati, prendono posto alla sinistra, per il fatto che non si sono accostati alla grazia di Dio, che viene concessa, per Cristo, nel lavacro di rigenerazione.

Cirillo di Gerusalemme,  Catechesi I, 2-3.5-6

Se da una parte è comprensibile l’attenzione al simbolismo dell’orientamento ad oriente, considerate anche le sue implicanze cosmiche, sorprende che altri simbolismi spaziali, così presenti nella tradizione liturgica, siano quasi del tutto dimenticati. Pare invece interessante la dialettica destra – sinistra e il suo influsso nella strutturazione rituale dell’antica prassi penitenziale: sarebbe curioso che proprio oggi che da alcune parti si vorrebbe riportare in auge qualcosa di quel sistema, si volesse ignorare il ricchissimo simbolismo biblico da cui esso era permeato.

Non solo ad orientem, quindi dovremmo «guardare» se volessimo recuperare l’antico simbolismo, ma pure a destra e a sinistra.

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(1) Si veda, ad esempio,  www.sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/11/19/alla-destra-o-alla-sinistra-del-re-matteo-2531-46-e-alcuni-dettagli-liturgici/ ; http://www.sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/11/29/ancora-la-destra-ma-non-si-puo-dire-in-italiano/ ; http://www.sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/11/23/il-posto-giusto-una-preghiera/ ;

Antico Testamento ai nostri giorni? Ebbene sì!

Mettiamo insieme due citazioni assai diverse, nella categoria tematica del nostro blog “Storia”. Si tratta di testi differenti per argomento, stile ed autore, ma che convergono nel metterci in guardia da un rischio che corriamo: l’evaporazione del contenuto della nostra fede in modo così grave da non capire più né l’agire di Dio nella storia né la Sua opera nella storia.

La prima citazione è tratta da un libro di agiografia. Ma di agiografia seria e bene scritta, con aperture e sottolineature indovinate e stimolanti, quella del carmelitano Antonio Maria Sicari, autore dei riuscitissimi Ritratti di Santi. La santa in questione è Santa Giovanna d’Arco

Il secondo testo è un saggio magistrale di J. Ratzinger, «Cristo e la Chiesa. Problemi attuali di teologia e conseguenze per la catechesi», pubblicato nel volume Cantare al Signore un canto nuovo. Saggi di cristologia e liturgia, Milano 2005², 39-47.

110380

Una ragazza non ancora ventenne è stata elevata all’onore degli altari per aver svolto con fedeltà, fino alla morte più terribile, una missione che lei sosteneva di aver ricevuto da Dio: liberare una delle nostre nazione europee da eserciti stranieri, impedendo così che tale nazione scomparisse dalla carta geopolitica: ciò che sarebbe stato altrimenti inevitabile.
Sembrerebbe questo un avvenimento comprensibile solo a patto di essere ancora ai tempi dell’Antico Testamento, quando il popolo eletto combatteva le sue battaglie guidato da eroi (a volte anche da “eroine”) inviati da Dio. Si era invece ormai nella metà del secolo XV. Un cronista francese del tempo scrisse: “Con questa giovinetta pura e senza macchia Dio ha salvato la parte più bella della cristianità: questo è il fatto più solenne che sia accaduto da cinque secoli”.
A parte il riconoscibile orgoglio di un figlio della Francia, l’avvenimento a cui egli si riferisce ha esattamente il senso che gli è attribuito.
Messa in questione, ne esce proprio un’idea che si è data troppo per scontata: che il Nuovo Testamento si distingua dall’Antico per una sorta di spiritualizzazione, che con la venuta di Gesù le promesse di “salvezza” siano state ben ripulite d qualsiasi carattere “mondano”, che l’interesse “cristiano” riguardi esclusivamente l’anima o, al massimo, la “persona” umana.
Si dice che il Nuovo Testamento abbia fatto saltare i confini delle nazioni e dei popoli, a favore di un universalismo nel quale avrebbe in fondo poca importanza essere italiano o francese o qualsiasi altra cosa. Si dice che gli interventi dei profeti e degli inviati di Dio, nel campo delle scelte politiche, economiche e sociali appartengono a una fase superata della storia della salvezza e molte altre cose ancora.
In tutte queste affermazioni c’è indubbiamente anche qualcosa di vero, ma resta tuttavia un nucleo dimenticato eppure bruciante: non è proprio con Nuovo Testamento che Dio entra nella nostra storia, assume la nostra carne, si fa partecipe delle vicende umane?
C’è qualcosa che, in linea di principio, gli debba essere impedita, se veramente Egli si è incarnato? Anzi, non dovremmo attenderci piuttosto il contrario, cioè una maggiore e più abituale compromissione di Dio con i fatti della storia?
E’ possibile affermare che Dio con la storia fatta dai cristiani c’entri assai meno di quanto c’entrasse con la storia fatta dal suo antico popolo eletto? Anche perché, a ben guardare, questi fatti continuano indisturbati a prodursi e a determinare la nostra vita.

M. Sicari, Il grande libro dei Ritratti di Santi Dall’antichità ai giorni nostri, Milano 1997, 108-109.

Ecco ora Ratzinger:

Ma interroghiamoci circa i motivi di questa presa di posizione nel presente. Ce ne sono ovviamente molti. Un primo, non molto appariscente, ma assai efficace, sta nella costruzione di un «Gesù storico» dietro al Gesù dei Vangeli. Esso viene distillato secondo i parametri della cosiddetta visione del mondo contemporanea, e della forma di storiografia ispirata dall’illuminismo, la quale parte dalle fonti e si rivolta poi contro le fonti stesse. C’è il presupposto secondo cui nella storia può accadere solo ciò che fondamentalmente è sempre accaduto. Il presupposto secondo cui il contesto causale normale non viene mai interrotto, e che perciò non è sto­rico ciò che va a urtare contro queste leggi a noi note.
Così il Gesù dei Vangeli non può essere il Gesù reale. Bisogna trovarne uno nuovo, dal quale deve venir tolto tutto ciò che è comprensibile solo a partire da Dio. Il principio di costruzione in base a cui questo Gesù deve venir edificato esclude perciò da Lui il divino, alla maniera illuministica: questo Gesù storico può essere solo un non-Cristo, un non-Figlio. Così all’uomo d’oggi, che nella sua lettura della Bibbia si affida alla guida di questo tipo di interpretazione, parla non più il Gesù dei Vangeli, ma quello degli illuministi, un Gesù «illuminato».
Con ciò crolla da sé anche la Chiesa. Essa può essere soltanto un’organizzazione fatta da uomini, che con maggiore o minore destrezza, con maggiore o minore cordialità nei confronti degli uomini cerca di servirsi di questo Gesù.
Naturalmente crollano poi anche i sacramenti. Come potrebbe esserci una presenza reale di questo «Gesù storico» nella Eucaristia? Ciò che resta sono segni della edificazione della comunità, rituali che tengono assieme la comunità e la stimolano all’azione nel mondo.
È divenuto chiaro che dietro questo depotenziamento di Gesù, rappresentato nella parola-chiave «Gesù storico», ci sta una decisione di fondo filosofica, che si può riassumere nella parola-chiave «moderna immagine del mondo». Dovremmo ritornarci sopra più avanti.
[….]
Tutto questo, la riduzione del mondo a ciò che è dimostrabile e la riduzione della nostra esistenza a ciò che è sperimentabile, riposa ultimamente su una terza causa, su di un terzo decisivo evento: lo sbiadirsi dell’immagine di Dio, che progredisce costantemente a partire dall’illuminismo.
Il deismo si è praticamente imposto nella coscienza comune. Non ci si può più raffigurare un Dio che si preoccupa del singolo uomo e che è in grado di intervenire nel mondo. Dio può aver dato avvio al big bang, se c’è stato, ma di più non gli rimane nel mondo illuminista. Sembra quasi ridicolo immaginarsi che lo interessino i nostri fatti e misfatti, noi che siamo così piccoli nei confronti del grande universo. Appare mitologico attribuirgli delle azioni nel mondo. Di cose inspiegabili possono certo essercene, ma per queste si cercano altre cause. La superstizione sembra più fondata che la fede, gli dèi – cioè le potenze non illuminate nel corso della nostra vita, con le quali ci si deve incontrare marginalmente – più credibili di Dio.
Ma se Dio ultimamente non ha nulla a che fare con noi, allora crolla anche l’idea di peccato. Che un’azione umana possa offendere Dio è divenuta per molti un’idea del tutto insostenibile. Così per la redenzione nel senso classico della fede cristiana non sussiste più alcun appiglio, poiché quasi a nessuno viene in mente di cercare nel peccato la causa della miseria del mondo e della propria esistenza.
Perciò naturalmente non ci può essere neppure nessun Figlio di Dio che venga nel mondo per redimerci dal peccato, e che per questo muoia in croce.
A partire di qui si spiega ancora una volta la fondamentale mutazione nella comprensione di culto e liturgia verificatasi negli ultimi tempi (da lungo preparati): il loro soggetto primo non è Dio, e nemmeno Cristo, ma il «noi» dei celebranti. E la liturgia non può nemmeno avere l’adorazione come senso primario; per essa anzi non c’è alcuna motivazione, in una concezione deistica di Dio.
Così pure non si può parlare di espiazione, di sacrificio, di remissione dei peccati. Si tratta piuttosto di questo, che i celebranti si assicurino della loro comunione fraterna e così escano dall’isolamento in cui l’esistenza moderna rinchiude il singolo. Si tratta di trasmettere esperienze di liberazione, di gioia, di riconciliazione, di denunciare ciò che è dannoso e di dare impulsi per l’azione.
Per questo è la comunità che deve costruire da sé la sua liturgia, e non riceverla da tradizioni divenute incomprensibili. Essa presenta se stessa e celebra se stessa.
A dire il vero non si può trascurare nemmeno un movimento in direzione opposta, che proprio nelle giovani generazioni diviene sempre più evidente: la banalità e il razionalismo infantile della liturgia fatta da sé, con la sua teatralità artificiosa, vengono evidenziati sempre più nella loro ingenuità; la loro nullità diventa manifesta. La piena autorità del mistero è scomparsa, e le piccole auto conferme, con cui ci si vuol sbarazzare di questa perdita, alla lunga non possono soddisfare nemmeno i funzionari, e tanto meno coloro che si dovrebbero sentire interpellati da simili celebrazioni.
Così cresce la ricerca di reale presenza di redenzione. Essa conduce certamente in direzioni completamente opposte. I grandi festival rock sono scatenamenti dell’esistenza, selvagge antiliturgie, in cui l’uomo viene strappato da sé e può dimenticare la mancanza di splendore e l’abitudinarietà della vita quotidiana. Anche la droga sta su questa direzione. Dall’altra parte il magico e l’esoterico attirano sempre più, come luogo in cui apparentemente il mistero afferra l’uomo.
In fin dei conti si può dire che là dove la liturgia è rischiarata dal mistero sorgono nuovamente nuovi luoghi di fede.

cf. la bolla di canonizzazione di Giovanna d’Arco: http://www.w2.vatican.va/content/benedict-xv/it/bulls/documents/hf_ben-xv_bulls_19200516_divina-disponente.html

Un titolo e l’incipit davvero accattivanti, insieme ad alcuni scivoloni. Note su una lettura estiva.

E’ nella liturgia che la Scrittura è maggiormente a casa propria (1).

L’introduzione massiccia della Scrittura nel Messale […] costituisce indubbiamente il rinnovamento più spettacolare di tutto ciò che il Concilio ha fatto per la liturgia.

Queste due espressioni, la seconda delle quali è una citazione di A. Nocent (2), si trovano nelle prime pagine di un saggio dal titolo intrigante.

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Purtroppo dobbiamo segnalare già alcune imprecisioni, e neanche di poco conto: “Per tradurre in pratica le riforme liturgiche prescritte dalla costituzione, il concilio istituì nel gennaio 1964 una commissione denominata Consilium” (3). Non è proprio così: il Consilium, e la sua particolare struttura, fu una decisione di Paolo VI.

L’autore dice in verità di non volere presentare uno studio storico approfondito, e descrive in modo sintetico passaggi importanti e significativi; ma quell’errore è macroscopico. Siamo fiduciosi, tuttavia, che il proseguimento del libro riserverà annotazioni utili ed interessanti.

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(1) N. Bonneau, Il Lezionario Domenicale. Origine struttura teologia, Bologna 2012, 7.

(2) cit. A. Nocent, «La parole de Dieu et Vatican II», in P. Jounel – R. Kaczynski – G. Pasqualetti (edd.), Liturgia, opera divina e umana. Studi sulla riforma liturgica offerti a S.E. mons. Annibale Bugnini in occasione del suo 70° compleanno, Roma 1982, 36.

(3) Bonneau, Il Lezionario…,36.

Rapporti non completamente risolti: non contro ma oltre. Una via per la continuità nella riforma.

Massima è l’importanza della Sacra Scrittura nella celebrazione liturgica. Da essa infatti vengono tratte le letture da spiegare nell’omelia e i salmi da cantare, del suo afflato e del suo spirito sono permeate le preci, le orazioni e gli inni liturgici, e da essa prendono significato le azioni e i segni. Perciò, per favorire la riforma, il progresso e l’adattamento della sacra liturgia, è necessario che venga promossa quella soave e viva conoscenza della Sacra Scrittura, che è attestata dalla venerabile tradizione dei riti sia orientali sia occidentali (Sacrosanctum Concilium 24)

«Nessuno oggi oserebbe pensare – come ci è stato insegnato – che i rapporti tra Bibbia e Liturgia siano completamente risolti con SC 24. Oggi, andando oltre e non contro SC 24, è stato evidenziato e mostrato che il rapporto tra Bibbia e Liturgia si trova non solo per la loro presenza reciproca (la Bibbia nella Liturgia, la Liturgia nella Bibbia), ma primariamente perché hanno l’origine identica e simultanea: il fatto salvifico della Pasqua ebraica, così come è narrato da Es 12, lo dimostra. Sempre andando oltre e non contro SC 24 è stato evidenziato che la presenza della Bibbia nella Liturgia incomincia ben prima delle letture, i salmi, l’afflato che permea l’eucologia, i carmi liturgici, le azioni e i simboli. La presenza della Bibbia nella Liturgia si ha già nelle “strutture bibliche” che organizzano i riti stessi sia a livello di rito in genere sia di eucologia in specie: la berît, l’alleanza che scandisce ogni celebrazione in momento della Parola e momento del segno; la todàh o preghiera di richiesta di perdono, la berakàh o benedizione, il rîb o processo bilaterale con il perdono del colpevole che si riconosce tale, ecc. Chi avrebbe mai detto, poi, che il sacramento della Penitenza ha avuto anche nel Medio-Evo una liturgia della Parola, non proclamata ma “rappresentata” ritualmente e, quindi, molto più ampia e coinvolgente di quanto lo sia oggi nell’Ordo Penitentiae?», R. De Zan, «Tra Memoria e Profezia: il dinamismo di una tradizione», in Ecclesia orans 29 (2012) 154.