(Dis)sapori protestanti? Reazioni curiali? No, la Cattolica tutti tiene in sé.

Nel post precedente [www.sacramentumfuturi.wordpress.com/2015/06/23/la-costituzione-vuole-anche-gli-insospettabili-inciampano-sullermeneutica-di-sacrosanctum-concilium/] abbiamo sottolineato una questione di metodo, ora possiamo soffermarci un pochino anche sul contenuto di quanto p. Antonelli osservava a proposito delle celebrazioni della Parola di Dio. Senza però addentrarci in problematiche liturgico-teologiche, preferiamo ora accostare indizi e testimonianze di tipo storico, per far luce su alcune delle dinamiche che più infiammarono, nell’ambito liturgico, il periodo successivo all’approvazione di Sacrosanctum Concilium: la questione dei rapporti fra la Sacra Congregazione dei Riti e il nuovissimo istituto del Consilium ad exsequendam Constitutionem de sacra Liturgia.

Nell’ottava sezione dell’opera di Bugnini sulla riforma liturgica (1), abbiamo tracciata, per sommi capi, la storia della redazione della prima Istruzione per l’applicazione di SC, l’Istruzione Inter Oecumenici. Le bozze dell’Istruzione furono preparate dal Consilium e dai suoi esperti, e il 21 giugno 1964 furono presentate a Paolo VI, il quale, dopo qualche giorno le consegnò al prefetto dei Riti, perché anche la Congregazione ponesse le sue osservazioni. La risposta fu consegnata al Papa il 23 luglio, in un dossier di 34 pagine. Ovviamente, le osservazioni furono portate a conoscenza del Consilium.

Bugnini, di questo dossier, riporta una sintesi e alcuni passaggi, fra i quali qualche riga relativa alla nostra questione:

«Si mostrava perplessità per le celebrazioni della parola di Dio, al cui riguardo si osservava: “Nei paesi di fede cattolica devono essere regolate con prudenza, perché facilmente possono svolgersi in un’atmosfera di sapore protestante. Per togliere questa impressione e per terminare fruttuosamente, secondo lo spirito della Chiesa, queste celebrazioni, sarebbe opportuno chiuderle con la benedizione eucaristica. Basterebbe aggiungere alla fine di questo n. 36: ‘Praestat ut hae verbi Dei celebrationes eucharistica benedictione absolvantur’.”» (2).

Bugnini riporta in nota un’altra importante informazione: «Il Papa segnò questa osservazione con due punti interrogativi e dei punti esclamativi e cancellando con due righe trasversali l’ultimo periodo» (3).

Chissà in quale archivio sarà conservato il fascicolo con le annotazioni del Papa!

Noi abbiamo avuto la possibilità di visionare il dossier con le controproposte e le osservazioni del Consilium a quanto la Congregazione aveva rilevato:

«n. 36 SRC: Le celebrazioni della parola di Dio “facilmente possono svolgersi in un’atmosfera di sapore protestante”;” sarebbe opportuno chiuderle con la benedizione eucaristica”.

Risposta: Dire che una celebrazione della parola di Dio senza la benedizione eucaristica ha “sapore protestante” ci sembra… troppo! Fissare per legge che debbano terminare con la benedizione eucaristica, non sembra necessario. Qualche volta potrà farsi; qualche volta come in Quaresima, potrebbero chiudersi con un atto di adorazione alla S. Croce; altre volte, senza particolari aggiunte. E’ preferibile lasciare elasticità di adattamento secondo le circostanze» (4).

Confrontando tutti i documenti e tutte le testimonianze parrebbe possibile individuare in p. Antonelli (5) l’autore delle osservazioni circa il sapore protestante delle celebrazioni della Parola senza l’auspicata benedizione eucaristica. La sua proposta, sappiamo, non venne recepita nel testo dell’Istruzione.

Eppure, nel suo commento alla Costituzione conciliare che abbiamo citato nel post precedente, era lui stesso a stigmatizzare la sottovalutazione della Sacra Scrittura nella vita liturgica, vista come reazione post-tridentina ai Protestanti!

Ci fermiamo qui, alle citazioni dei testi e dei documenti, senza avventurarci in giudizi che non possiamo e non vogliamo dare. Non possiamo pensare che Antonelli sia stato un reazionario né che Bugnini sia stato un protestante. Crediamo che abbiamo cercato di servire come meglio possibile la liturgia della Chiesa, e che nell’iter faticoso delle discussioni e delle proposte, il Papa Paolo VI sia riuscito a tenere insieme collaboratori e istituzioni con diverse prospettive e sensibilità, armonizzandole cattolicamente. Altroché sapore protestante, in queste discussioni che talora ebbero il sapore, persino, di piccole ripicche e gelosie, noi vediamo risplendere lo splendore della Madre Chiesa Cattolica e universale.

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(1) A. Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975) (Bibliotheca «Ephemerides Liturgicae» «Subsidia» 30), Roma 1997².

(2) Bugnini, La riforma…, 800-801.

(3) Bugnini, La riforma..., 801.

(4) CONSILIUM AD EXSEQUENDAM CONSTITUTIONEM DE SACRA LITURGIA (prot. n. 1925/64), Rilievi alle osservazioni della Sacra Congregazione dei Riti circa Instructio ad exsecutionem Constitutionis de sacra Liturgia rete ordinanda, (31 agosto 1964), Archivio Lercaro, AGL.A. CCCXLVII (1961-1968), f. 15.

(5) Padre Antonelli allora era Promotore generale della Fede nella Sacra Congregazione dei Riti.

“La Costituzione vuole…”. Anche gli insospettabili inciampano sull’ermeneutica di Sacrosanctum Concilium

Spesso si è accusata una parte o un’altra di dedurre dal testo conciliare sulla liturgia quanto il testo di per sé non dice o non suggerisce. E’ un rischio reale, ed occorre la massima vigilanza per non interpretare un testo normativo alla luce della propria e particolare sensibilità, che pure deve esserci, senza che però ecceda fino a confondersi con il testo stesso, non distinguendo più quanto è autorevolmente stabilito dal Concilio e quanto si potrebbe suggerire e auspicare a partire dalla propria visione delle cose. Capita anche su questioni generalmente apprezzate, come il maggior spazio riconosciuto alla Parola di Dio, che poi si introducano elementi che di per sé sarebbero estranei al testo. Si deve riconoscerlo, anche se a farlo è il Segretario della Commissione Conciliare.

«Uno dei punti più importanti della Costituzione è stata la rivalutazione della Parola di Dio. Il P. Antonelli accenna alle ragioni storiche di un atteggiamento diffidente verso la Bibbia e offre alcune indicazioni pratiche desumendole dal testo liturgico in esame: ‘Reazione post-tridentina ai Protestanti, con una sottovalutazione della Sacra Scrittura nella vita liturgica. Si era giunti al punto di proibire le traduzione del Messale. Le prime traduzioni risalgono alla seconda metà del secolo scorso. La liturgia è intessuta di Sacra Scrittura. La Costituzione vuole:

1. Che si siamo ampie pericopi scritturali nella Messa (art. 51) e nell’Ufficio Divino (art. 90a), anzi in tutte le celebrazioni liturgiche (art. 35,1);

2. obbligatoria l’Omelia, come parte dell’azione liturgica (art. 52);

3. le celebrazioni della Parola di Dio (art. 35,4). Utili, come devono essere fatte. Chiuderle con la benedizione eucaristica…”» (1).

Non vogliamo davvero mettere in dubbio la buona volontà dell’Antonelli, nel cercare di concretizzare alcune delle indicazioni che il testo della Sacrosanctum Concilium offre. Tuttavia appare una forzatura raccogliere sotto l’espressione «La Costituzione vuole» l’ultima parte del punto 3: «Chiuderle (le celebrazioni della Parola di Dio) con la benedizione eucaristica».

Ricordiamo cosa dice la lettera dell’articolo 35,4: «Si promuova la sacra celebrazione della parola di Dio nella vigilia delle feste più solenni, in alcune ferie dell’avvento e della quaresima, nelle domeniche e nelle feste, soprattutto nei luoghi dove manca il sacerdote; nel qual caso un diacono o altra persona delegata dal vescovo dirigerà la celebrazione». La storia della redazione della Costituzione ci testimonia che il paragrafo 4 non era nella versione dello schema di Costituzione distribuito ai Padri all’inizio della fase sinodale. L’aggiunta di tale paragrafo fu chiesta da due vescovi, entrambi del Sud America, che citano il caso di comunità in cui la presenza del sacerdote è resa difficile dalla vastità delle zone di missione e dalla scarsità di clero (2). Non pare che nei loro interventi venga esplicitata la benedizione eucaristica a chiusura della celebrazione; il senso dei loro discorsi è, più in generale, un apprezzamento del valore della Parola di Dio nella formazione della fede e nella conoscenza della rivelazione cristiana, e quindi dell’efficacia pastorale di una celebrazione della Parola specialmente laddove la presenza e l’opera dei sacerdoti è non è molto frequente.

Tale proposta venne recepita dalla Commissione Conciliare, che la presentò fra gli emendamenti proposti in vista dell’approvazione definitiva della Costituzione.

Non abbiamo controllato riga per riga la mole di documentazione che raccoglie tutti gli interventi dei Padri conciliari, e quindi siamo aperti a rettifiche che ci saranno eventualmente segnalate, tuttavia da altri indizi e riscontri possiamo ritenere che il tema della benedizione eucaristica finale non fu sollevato in aula conciliare né in seno alla Commissione.

Forse a noi oggi pare curioso, ma fece più difficoltà una questione terminologica: nei due interventi citati si usano espressioni come «speciali Liturgia Verbi», «Liturgia Verbi Dei», «Liturgica celebratio verbi Dei». A questo modo di parlare si oppose, tramite un intervento scritto, un altro vescovo: «Questa sacra celebrazione della parola di cui si parla mi piace quanto alla sostanza ma per nulla quanto al nome, perché presso i fedeli il significato di questo termine “celebrazione” può originare qualche confusione. Forse è meglio parlare di “actio paraliturgica” o “Rito della Parola”» (3). Se ne discusse in Commissione, e Giampietro di offre una sintesi di tale questione: «Mons. Calewaert, Preside della VI Sottocommissione per l’esame dei nn. 16-31 del I cap., prosegue la lettura della relazione del n. 20 in poi. Tutti gli emendamenti proposti dalla Sottocommissione vengono approvati all’unanimità. Al n. 25 (testo emendato: 27) la Sottocommissione propone l’aggiunta di un paragrafo relativo alla celebrazione della Parola di Dio, le cosiddette veglie bibliche. Viene fatta l’obiezione prima dal Card. Jullien e poi dal Segretario alla parola “liturgica” aggiunta: “liturgico” è proprio solo di ciò che è contenuto nei libri liturgici, il resto è da includersi nei “pia exercitia“. Anche sulla soppressione della parola “liturgica”, sostituita con “sacra” la Commissione si trova concorde» (4).

Non c’è traccia dunque della questione della benedizione eucaristica finale. Che pare una più che legittima e, da un certo punto di vista, ragionevole proposta. Ma che deve essere iscritta a p. Antonelli e non alla Costituzione, né alla sua lettera né al suo spirito. Davvero curioso che il paragrafo citato all’inizio sia parte di un testo che ha come titolo: La Costituzione liturgica nella lettera e nello spirito (5)!! E la forzatura ermeneutica, in questo caso, non è ascrivibile alla parte che è generalmente accusata di tale peccato!

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(1) N. Giampietro, Il Card. Ferdinando Antonelli e gli sviluppi della riforma liturgica dal 1948 al 1970 (Studia Anselmiana 121, Analecta liturgica 21), Roma 1998, 210.

(2) Furono i vescovi G. Kremer (Posada, Argentina), il cui testo scritto fu controfirmato da altri 4 vescovi, e A. Devoto (Goya, Argentina): cf. Acta Synodalia I/1, Città del Vaticano 1970, 520-522.525

(3) cf. Acta Synodalia II/V, Città del Vaticano 1973, 855.

(4) Giampietro, Il Card. Ferdinando Antonelli…, 122.

(5) F. Antonelli, La Costituzione liturgica nella lettera e nello spirito, lezioni di liturgia, 8 settembre 1964: citato in Giampietro, Il Card. Ferdinando Antonelli…, 208ss.

“Che tanto sforzo non sia vano!”: tentativi vani (?) intorno a questa preghiera.

Non è solo l’uomo ad avere in sé l’inquietudine costitutiva verso Dio, ma questa inquietudine è una partecipazione all’inquietudine di Dio per noi. Poiché Dio è inquieto nei nostri confronti, Egli ci segue fin nella mangiatoia, fino alla Croce. “Cercandomi ti sedesti stanco, mi hai redento con il supplizio della Croce: che tanto sforzo non sia vano!”, prega la Chiesa nel Dies irae. (1)

Abbiamo appena citato un passaggio dell’Omelia di Benedetto XVI nella solennità dell’Epifania del 2013. In essa viene citata una strofa del Dies Irae, e il Papa ne offre una traduzione in italiano. Una traduzione, potremmo dire, ufficiosa.

Un’altra ipotesi di versione italiana, più fedele al testo latino e per questo ricca di espressioni assai rare nell’italiano corrente, l’abbiamo trovata in un fascicolo spurio di un faldone (2) dell’archivio Lercaro. Si tratta di un testo, di cui non si può identificare l’autore, che propone al Cardinale una serie di tentativi di traduzione di testi biblici e innici usati nella liturgia. Il Cardinale Lercaro in quegli anni infatti era il Cardinale Presidente del Consilium ad exsequendam Constitutionem de sacra liturgia, e l’anonimo traduttore intendeva prestare il proprio contributo ai lavori di adempimento della riforma conciliare. Per ora non abbiamo trovato altri riscontri di questo tentativo, che riportiamo a testimonianza del fermento creativo e dello sforzo, a vari livelli, che in quegli anni si andava facendo, per offrire ai fedeli le ricchezze della liturgia della chiesa. Non sappiamo cosa il Cardinale rispose a questa proposta o con chi ne parlò e quale fu effettivamente l’esito di tale tentativo, che magari oggi possiamo apprezzare maggiormente, rispetto ad allora.

Già altre volte ci eravamo occupati del Dies Irae (3), per questo, ora, ne offriamo solamente quest’interessante traduzione in italiano.

[A Sua Eminenza il Cardinal Giacomo Lercaro, Bologna, nell’intento di essere utile per la versione italiana dei testi liturgici.]

Sequenza della messa dei defunti Dies Irae

Giorno d’ira a suon di squilla:
l’universo andrà in favilla:
scrivon Davide e Sibilla.

Qual tremore vi sarà:
quando il Giudice verrà,
tutto al fin giudicherà.

Spanderan le trombe i suoni
sui sepolcri e le nazioni:
tutti aduneranno al trono.

Stupiran Natura e Morte
al veder le genti morte
al giudizio in piè risorte.

Dal gran libro spalancato,
dove tutto è registrato,
tutto il mondo è giudicato.

Quando il Giudice verrà,
quanto è ascoso apparirà:
nulla impune resterà.

Miserello, che dirò?
Qual patrono invocherò?
Solo il giusto invidierò.

Re tremendo di maestà,
che gli eletti salverai,
salva me per tua bontà.

Oh ricorda, Gesù buono,
che per me ti festi uomo,
non negarmi il tuo perdono.

Stanco sei per me seduto,
croce e morte hai sostenuto,
tanto vuol non sia perduto.

Giusto Giudice d’ulzione,
fammi don di remissione
anzi il dì della ragione.

Versò lacrime quel rio,
colpa arrossa il volto mio:
salva il supplice, mio Dio.

Maddalena tua assolvesti,
al Ladrone ascolto desti:
anche a me speranza testi,

Per mie preci non son degno,
ma Tu, buono, dammi pegno
che non bruci in tetro regno.

Per gli agnelli un loco appresta,
e dai capri mi sequestra;
stabiliscimi alla destra.

Condannati i maledetti,
nelle fiamme por costretti,
chiama me coi benedetti.

Prego supplice e prostrato,
cuor contrito ed umiliato:
abbi cura del mio stato.

Lacrimevol dì sarà,
e dal fuoco sorgerà
al giudizio l’uomo rio.
Or me dunque salva, o Dio.

O Gesù, Signor pietoso,
da’ l’eterno a lor riposo.

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(1) Per il testo completo dell’omelia, cf. http://www.w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2013/documents/hf_ben-xvi_hom_20130106_epifania.html

(2) Si tratta del faldone classificato AGL.A. CCCXLVIII (1962-1968)

(3) Cf. http://www.sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/11/19/alla-destra-o-alla-sinistra-del-re-matteo-2531-46-e-alcuni-dettagli-liturgici/; http://www.sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/11/26/per-meta-o-per-un-terzo-il-dies-irae-e-la-gratuita-della-salvezza/; www.sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/12/03/dalla-memoria-viva-della-liturgia-elementi-che-ritornano-ancora-esempi/

Un biblista bacia la Scrittura? Niente di strano, a meno che quella Scrittura non sia….

Per una storia della riforma liturgica, per quanto possibile oggettiva e non parziale, occorre ancora molto lavoro. Si tratta di un opera complessa, per integrare fonti e dati, accostando protagonisti e reazioni, non accontentandosi di interpretazioni e pregiudizi di parte.

La consultazione degli archivi è, in questo, imprescindibile, nonostante sia abbastanza faticosa e impegnativa. Può capitare che passino ore prima di imbattersi nella testimonianza cercata o in qualche testo fondamentale. Succede pure, tuttavia, che da una pagina spuria e apparentemente non di prima importanza, possano essere colte indicazioni curiose e utili, seppur frammentarie.

Un esempio, capitatoci qualche giorno fa, mentre stavamo controllando un faldone dell’Archivio Lercaro, a Bologna.

Dell’attività della Commissione Conciliare sulla sacra Liturgia abbiamo parecchie notizie nel lavoro di N. Giampietro (1), che pubblica i verbali della Commissione, redatti dal Segretario, p. Ferdinando Antonelli. La descrizione dell’Adunanza del 21 novembre 1963 è riportata alle pagine 192-194, nello stile asciutto di un verbale. In esso si dice, fra le altre cose:

Alle ore 17.00 presso la Sacra Congregazione dei Riti si riunisce la Commissione conciliare della Sacra Liturgia. […] In attesa delle bozze della Costituzione, viene preso in esame un testo, preparato dal Perito Martimort, relativo alle assemblee episcopali, di cui si parla spesso nella Costituzione. […] Distribuito nel frattempo il testo delle bozze della Costituzione….

Questi gli appunti del verbale dell’Antonelli. Lo stesso Antonelli, in una lettera al cardinale Lercaro scritta il giorno dopo, racconta la stessa cosa, aggiungendo un dettaglio, che a noi, conoscitori del personaggio, ha destato interesse particolare:

Sacrosanctum Oecumenicum Concilium Vaticanum II

Commissio de Sacra Liturgia

22.XI.63

Eminenza Rev.ma,

Ieri sera avemmo le bozze del testo della Costituzione. Le note non sono ancora del tutto in ordine e le bozze stesse devono essere rivedute accuratamente, ciò che faremo oggi. Ma intanto credo opportuno inviare subito il fascicolo a V. Eminenza per Sua buona informazione.

Ieri sera, in adunanza, S. Ecc. Mons. Jenny, quando ha veduto il fascicolo lo ha baciato! Questo dice il clima di gioia della Commissione.

Con devotissimi ossequi

di V. Eminenza Reverendissima

Fr. F. Antonelli

A S. Eminenza Reverendissima

il Signor Cardinale Lercaro

Davvero buffa la scena del bacio delle bozze di Costituzione! Ma, per quanto conosciamo di lui (2), potevamo aspettarcelo: era sì un biblista, ma l’amore alla liturgia non gli era affatto estraneo.

Per inciso, abbiamo, sia nel verbale (3) sia nella lettera a Lercaro, un riferimento alla questione delle note: in questi giorni su alcuni siti si è discusso sul tema di alcune note mancanti. Evidentemente è un tema da approfondire, si spera senza sterili polemiche e prese di posizioni irrispettose. Il nostro è davvero un piccolissimo contributo, una segnalazione ulteriore per continuare l’analisi senza fermarsi a facili giudizi sommari.

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(1) N. Giampietro, Il Card. Ferdinando Antonelli e gli sviluppi della riforma liturgica dal 1948 al 1970, (Studia Anselmiana 121, Analecta Liturgica 21), Roma 1998.

(2) Si digiti “Jenny” nella barra “Cerca” del nostro blog, per leggere quanto già scritto sul dinamico vescovo francese.

(3) «Distribuito nel frattempo il testo delle bozze della Costituzione, il Segretario domanda alla Commissione se le note devono porsi in calce ad ogni pagina oppure al termine del documento? Alla prima soluzione sarebbero favorevoli Mons. Rossi. La Commissione si pronunzia per la seconda soluzione»: Giampietro, Il Cardinale Ferdinando Antonelli…, 193; come si vede non si trattò del contenuto delle note, ma della loro posizione nel testo. Non fu dunque questo il passaggio decisivo per l’omissione di alcune note, ma comunque, nella ricostruzione della vicenda, anche questo piccolo tassello è importante.

XI domenica del tempo Ordinario, Anno B. Più che la senape, Domenica “del Cedro”?

Per un curioso scherzo di coincidenze, ma anche per una scelta voluta, pare che la Domenica dell’XI settimana del tempo Ordinario, nel ciclo B del lezionario liturgico, abbia una connotazione botanica importante.

Le due parabole evangeliche, sulla forza intrinseca del seme di grano e sul granellino di senape, ci introducono in panorami di campagna e di vita agricola. Ma ancora più curioso il finale della seconda similitudine, che apre collegamenti inaspettati. Infatti, il termine ultimo dell’analogia non sottolinea soltanto il contrasto piccolo-grande dello sviluppo del seme fino alla pianta, più grande di tutte le piante dell’orto, ma si apre ad elementi che non dovrebbero essere presenti in un “orto”. In una piantagione di frutta o di ortaggi è più frequente e normale incontrare spaventapasseri che nidi per gli uccelli del cielo!

La pianta di senape è presa come immagine parabolica del Regno di Dio non solamente per il rovesciamento delle dimensioni ma anche per un aspetto nuovo e inaspettato: pare che Gesù ammiri non tanto la grandezza, in se stessa, della pianta, o la rigogliosità e l’abbondanza del frutto, quanto la capacità di fare così tanta ombra, che gli uccelli del cielo possano farvi nidi!

Amplificando: come se nel valutare la qualità di un ciliegio, non si guardasse ai fiori o ai frutti, ma si cercasse quanti nidi di merli vi siano: normalmente, il volo e il canto di un merlo nei paraggi dovrebbe far sussultare il coltivatore di frutta, perché ciò significa perdita sicura, o almeno rovina, della frutta. Gesù invece si aspetta addirittura i nidi di uccelli, che non sarebbero per nulla graditi ad una considerazione umana.

Quindi, sembra che ad essere apprezzata nella pianta di senape sia proprio la capacità di fare ombra. In questo pare possa intravedersi anche il collegamento con la prima lettura: “Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà” (Ez 17,23b). Chi sia questo “lui”, lo abbiamo sentito poco prima, il Cedro del Libano.

Non ci si scambi per cabalisti oziosi, ma è un dato di fatto che il cedro viene nominato anche nel salmo responsoriale: «Il giusto fiorirà come palma, crescerà come cedro del Libano» [Sal 91(92), 13]. La scelta di tale salmo appare non casuale (1). Meno intenzionale è più fortuita invece è la terza occorrenza del cedro nella liturgia odierna. Nel terzo salmo delle lodi si è pregato: «Lodate il Signore dalla terra…alberi da frutto e tutti voi, cedri» [Sal 149(148) 9]. Ad essere precisi, c’è da dire che qui probabilmente si fa riferimento al cedro come albero da frutto e non al cedro del Libano, una conifera di tutt’altra famiglia e dimensione. Curiosa, tuttavia, questa insistenza sul cedro, che in questa domenica ha una nota positiva, rispetto ad altri passaggi della Sacra Scrittura in cui il cedro è simbolo dell’alterigia e dell’arroganza orgogliosa (cf. Ez 31; Sal 28(29),5; Is 2,13).

Il cedro ha dunque una parte importante, nella Parola di Dio proclamata e pregata in questa domenica.

Ma, in generale, nella liturgia, nei suoi testi, il cedro ha una sua parte? Ad una prima, superficiale ricerca non pare che nell’eucologia romana classica compaia alcuna occorrenza del nostro albero.

Tuttavia nella sequenza Laetabundus, di tradizione gallicana, presente anche nel Messale di Sarun (2), troviamo una significativa strofa, nel contesto del mistero dell’Incarnazione:

Cedrus alta Libani, [The great tree of Lebanon]

conformatur hyssopo [Hyssop’s lowliness puts on]

valle nostra.[In our valley]

Il tema dell’Incarnazione, e dell’umiliazione ed esaltazione pasquale di Cristo, ritorna anche in un’omelia, attribuita a San Giovanni Crisostomo, a commento della parabola del granellino di senape: Cristo è il seme che ha dissipato le tenebre e rinnovata la Chiesa.

La liturgia riesce a vedere insieme, mirabilmente, la piccolezza del semino di senape e la maestosa imponenza del Cedro del Libano!

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(1) Il titolo della prima lettura riassume il contenuto della pericope con queste parole: «Exaltavi lignum humile»: cf. Félix María Arocena (ed.), Psalterium liturgicum. Salterio crescita cum psallente Ecclesia. Vol II, Psalmi in Missalis Romani Lectionario, Città del Vaticano 2000, 69. 

(2) Non possiamo, qui, dire di più: per il testo e la melodia, cf. http://www.cantualeantonianum.com/2009/01/laetabundus-sequenza-natalizia.html.

Un genere, due sostanze (e due specie). Sembra filosofia ma è liturgia!

Riscontriamo una curiosa terminologia, nel latino della preghiera sulle Offerte della domenica XI del tempo Ordinario, mentre la traduzione italiana semplifica forse la sintassi, ma esaspera la prassi!

Sia chiaro che non intendiamo offrire un’analisi completa e serrata della storia, della struttura stilitica e della teologia di questa preghiera. Ci piace giocare un pò con le parole, lasciando che esse echeggino liberamente, destando pensieri nascosti.

Deus, qui humani generis utramque substantiam praesentium munerum et alimento vegetas et renovas sacramento, tribue, quaesumus, ut eorum et corporibus nostris subsidium non desit et mentibus.

O Dio, che nel pane e nel vino (?) doni all’uomo il cibo che lo alimenta e il sacramento che lo rinnova, fà che non ci venga mai a mancare questo sostegno del corpo e dello spirito.

Interessante che la preghiera affermi che l’uomo (qui il genere umano) sia composto di due sostanze: esse, nell’amplificazione, sono solamente sottintese (l’una e l’altra sostanza), poi, nello scopo della domanda (finis petitionis) sono invece esplicitate (il corpo e l’anima, in latino corpus et mens). Naturalmente la preghiera non intende fare una lezione di antropologia, benché usi – casualmente? – termini che richiamano la filosofia aristotelica (genere e sostanza). Se ricollochiamo la preghiera nel contesto primitivo (il digiuno di dicembre) appare evidente che gli oranti avessero ben presenti questa loro duplice componente: mentre stavano celebrando la liturgia eucaristica e si predisponevano a ricevere il sacramento dell’eucaristia nel segno del pane e del vino, i morsi della fame causati dal digiuno ricordavano loro che un disincantato e angelico spiritualismo è contrario alla fede cristiana, e che Dio nella sua ammirabile e divertente sapienza ha legato la sua grazia più eccelsa ad un atto umilmente materiale quale è l’assumere pane e vino.

Quindi, evitiamo di derivare dal teso della preghiera considerazioni di antropologia o di dogmatica: non si può stabilire un legame, né stilistico né teologico, fra la duplice sostanza del genere umano e la doppia consistenza delle offerte eucaristiche, il pane e il vino: non ci è permesso intravedere, qui, nella specie del pane o del vino una corrispondenza precisa con una o l’altra della componente strutturale dell’uomo, il corpo e l’anima.

Nel testo della preghiera le offerte da consacrare e da ricevere come sacramento non paiono contemplate nella loro differenza materiale, di pane e vino, ma sempre come un tutto (munera praesentium….eorum subsidium), senza differenze. Proprio per questo appare un pò paradossale che la traduzione italiana abbia voluto esplicitamente specificare i doni, anche se con una locuzione più generale (nel pane e nel vino).

A tal proposito, dobbiamo registrare un’inversione a cui si dovrebbe finalmente – in qualche modo – rimediare compiutamente. Abbiamo visto che il latino non dettagliava le offerte eucaristiche, rimanendo generico. Possiamo, poi, con buona probabilità pensare che al tempo della primitiva preghiera tutti i fedeli comunicassero al pane e al vino consacrati, senza la distinzione fra clero e fedeli laici. Ora, senza tirare in ballo la dottrina della sufficienza della sola specie del pane per una valida e piena comunione, vorremmo semplicemente chiederci se sia davvero necessario nominare, nella versione italiana, le diverse specie del pane e del vino, quando si continua a non offrire a tutti i fedeli la pienezza del segno sacramentale sotto le due specie eucaristiche.

Non sarebbe convenuto rimanere – perciò – più generici, se non si vogliono offrire poi le due specie?

Infine, un’altra curiosa osservazione. Nel testo della preghiera l’aggettivo uterque (uterque, utraque, utrumque) è riferito al termine substantia (per cui l’accusativo femminile utramque). Nel latino ecclesiastico odierno, uterque è assai più frequentemente associato al termine species:  guarda caso proprio per designare la questione della comunione al pane e al vino consacrati, appunto la communionem sub utraque specie!!!

Scherzi della liturgia, che sembra davvero una realtà viva, capace di sorprenderci con i suoi continui intrecci e legami imprevedibili!

Il Martimort che non ci si aspetta. O meglio detto: Il Martimort che qualcuno non si aspetterebbe. Piccolissimo contributo all’ermeneutica della riforma liturgica.

Martimort

Già avevamo mostrato, qualche tempo fa (1), un piccolissimo esempio del clima in cui si lavorava nella commissione che coordinava i lavori di riforma della Liturgia delle Ore. Almeno per il Segretario di quel gruppo di esperti era assai chiaro come fossero a servizio dei Pastori e della Chiesa intera, e non al di sopra, in forza dei loro studi e delle loro competenze. Le decisioni definitive e normative venivano lasciate ad altri, mentre il loro compito era preparare soluzioni ai problemi e alle questioni sulle quali veniva chiesta la loro consulenza propositiva. Non possiamo dire se fu sempre così, ma per quel che abbiamo visto sulla riforma del Breviario, la documentazione fotografa una realtà ben diversa da quanto qualcuno vorrebbe insinuare, immaginando Cardinali e Vescovi che per timore reverenziale accettarono senza discutere le proposte degli esperti. Oggi possiamo mostrare un altro dettaglio, per certi versi ancora più significativo ed eloquente. Si tratta di un passaggio di un documento, la cui importanza è così descritta da Bugnini nelle sue memorie:

In preparazione della VII adunanza generale del “Consilium” (autunno 1966), il can. Martimort inviò ai suoi collaboratori verso la fine di luglio un ampio esposto di 40 fitte pagine, il più ampio di quanti ne abbia scritti sull’argomento, in cui trattava cinque problemi fondamentali: salmi imprecatori e storici; se dire tre ore minori oppure una sola; struttura di lodi e vespri; se proporre uno o due breviari; se ritenere o no gli elementi corali. La relazione si basava sulle risposte al questionario del 16 dicembre 1965, sui desideri e sulle proposte ricevute direttamente dal relatore, sulla documentazione riguardante l’ufficio divino presso altre comunità non cattoliche. L’esposto è di una ricchezza storica e liturgica sorprendente. I singoli punti sono approfonditi alla luce della pastorale e nella cornice dei documenti conciliari (2).

Ci troviamo di fronte, quindi, ad un documento che testimonia una fase critica e decisiva nella dinamica di riforma della preghiera delle Ore, nel suo impianto generale e nei singoli elementi. Secondo la volgata avversa alla riforma e oggi, in qualche modo, di nuovo, per la maggiore, ci si immaginerebbe la parte degli esperti del Consilium in fermento inquieto, innervosita dalla lentezza estenuante delle decisioni e dei ripensamenti dei Padri, agitata da irrequietezza e desiderosa di imporre i propri punti di vista come assoluti. Il fascicolo di Martimort, invece, si distingue per equilibrio, offrendo per ogni questione una sintesi delle diverse opinioni e un’argomentare pacato e prudente, capace di mostrare pro e contro delle diverse opzioni. Manca, insomma, quell’unilateralismo che si è gettato come un sospetto ormai radicato sull’opera di riforma.
Da uno dei più grandi liturgisti del tempo, impegnato in prima persona in tantissimi progetti di riforma, potrebbero sembrare strane e del tutto inaspettate le dichiarazioni che alleghiamo più sotto. Ma come spesso accade, le fonti ci obbligano a rivedere posizioni precostituite e precomprensioni parziali.
Ancora una piccola precisazione: il riferimento a Baumstark – che si vedrà più sotto – si riferisce alla differenza, riportata alla luce dal grande studioso tedesco, fra Ufficio monastico (le ore di preghiera e il tipo di salmodia proprie di assemblee di monaci) e Ufficio di Cattedrale (le ore di preghiera e il tipo di salmodia proprie di assemblee liturgiche del popolo riunito con il proprio vescovo e il clero locale): tale differenziazione rischiava di essere talvolta assolutizzata e usata in modo arbitrario, come prova storica, per appoggiare proposte estreme e non mediate.
Lasciamo dunque la parola a Martimort, grati alla sua sapiente opera di equilibrio e moderazione, auspicando che tale moderazione sia concessa anche a quei liturgisti odierni che paiono ugualmente scontenti della riforma liturgica pur partendo da prospettive opposte: chi ritiene la riforma troppo audace e innovatrice e chi la ritiene troppo prudente e conservativa si ritrova paradossalmente accumunato su posizioni simili, che potrebbero facilmente essere superate con uno studio serio sui documenti.

Par parenthèse, il faut mettre en garde contre tous ces projets de réforme liturgique qui sont l’ouvre de professeurs, moines ou autres, n’ayant aucune expérience du ministère tel qu’il est vécu par les curés de campagne, les prêtres de la ville et les missionnaires.
Ces diverses considérations mettent en garde contre le mirage des reconstitutions historiques. A. Baumstark, s’il vivait, serait le premier à protester contre l’emploi abusif des lois historiques qu’il a découvertes et définies. (3)

Nostra Traduzione: Per inciso, si deve mettere in guardia contro tutti questi progetti di riforma liturgica, opera di professori, monaci o altri, che non hanno alcuna esperienza di ministero pastorale, così come è vissuto dai sacerdoti di campagna, di città o missionari.
Queste diverse considerazioni mettono in guardia contro l’illusione di ricostruzioni storiche. Lo stesso A. Baumstark, se fosse in vita, sarebbe il primo a protestare contro l’abuso delle leggi storiche che lui ha scoperto e definito.

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(1) cf. http://www.sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/10/27/quasi-due-anni-di-lavoro-cassati-e-tutto-da-ricominciare-un-momento-difficile-per-a-g-martimort-ma-non-una-parola-fuoriposto/.
(2) A. BUGNINI, La riforma liturgica (1948-1975), (Bibliotheca «Ephemerides Liturgicae» «Subsidia» 30), Roma 19972, 491.
(3) COETUS IX, Rapport general sur l’Office divin [31 juillet 1966] (Aimé-Georges Martimort), f. 29, Fondo Braga, Roma.

Tentativi, fallimenti, asperità: il piano di Dio e la sua disposizione nella storia. Divagazioni strambe a partire dalla liturgia.

La liturgia della solennità della Santissima Trinità ci ha permesso di gettare uno sguardo nell’abisso del mistero della vita di Dio, invitandoci al contempo a rimanere stupiti di come Dio abbia voluto che la creazione e l’uomo, in particolare, fossero immersi in tale mistero. Contemplando la Trinità abbiamo potuto guardare con gli occhi della fede pure la nostra personale storia; Lui è con noi, tutti i giorni.

Senza pretendere di offrire argomentazioni articolate, ci permettiamo di cogliere alcuni dati che la liturgia ci offre, lasciando poi alla teologia speculativa il compito di circoscrivere tali dati in una dottrina coerente. L’attenzione ad alcuni particolari dei testi usati nelle celebrazioni, tuttavia, è davvero soprendente per il portato che può arrecare.

Il primo dato che si vuole sottilineare è la singolare testualità della prima lettura della domenica della Trinità: per sottolineare il mistero grande dell’elezione divina, Mosè chiedeva: «Ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un’altra..?» (Dt 4,34). Davvero curiosa questa immagine, di Dio che si inventa dei tentativi, che si mette all’opera per vedere di riuscire nel suo intento.

Il giorno dopo, il lunedì (IX settimana del tempo Ordinario), la preghiera colletta ci rassicurava: «O Dio, che nella tua provvidenza tutto disponi secondo il tuo disegno di salvezza (Deus, cuius providentia in sua dispositione non fallitur; traduzione più aderente alla lettera: Dio, la cui provvidenza non fallisce in ciò che dispone)…». L’originale latino è assai più forte della traduzione italiana: l’ordine e la strategia della provvidenza di Dio non si ingannano nè rimangono inefficaci, anche se permane quanto mai tragico e reale il dramma del dispiegarsi di tale piano di salvezza, essendo lasciata libertà agli uomini e agli spiriti ribelli.

E’ ancora la preghiera liturgica che ci può venire in aiuto, benché si faccia riferimento ora a un testo che il lunedì era solamente evocato. Infatti, l’Inno delle Lodi dell’edizione italiana, O sole di giustizia, è una versione ridotta dell’Inno santambrosiano Splendor paternae gloriae: una vera opera d’arte teologica e stilistica, che nella quarta strofa – non tradotta nell’italiano – recita: «informet actus strenuos, dentem retundat invidi, casus secundet asperos, donet gerendi gratiam» (1). L’inno meriterebbe, tutto, un commento approfondito; ci dobbiamo limitare ora al terzo stico di questa strofa: casus secundet asperos. Ambrogio conosce la serietà della vita, sa che si passano momenti difficili e circostanze aspre, avversità che a volte sono vere e proprie trappole messe lì da un’avversario invidioso del bene. Ma sa pure che Dio può concedere la forza per compiere atti virtuosi e degni di persone forti e valorose, ma ancora di più – ed è ancora più bello – confida che Dio possa rendere propizie anche le asperità. E’ assai interessante quel verbo «secundare»: assecondare, favorire, rendere propizio e prospero, condurre a buon fine. Di fronte alla furia frettolosa del nemico che ha poco tempo e si illude di stravincere subito, la paziente provvidenza di Dio si gloria nel vincere alla distanza, e tutto può ricondurre al bene, anche le circostanze più sfavorevoli. Non ha urgenza di mostrarsi come il primo: il suo arrivare dopo non è segno di debolezza, ma di potenza magnanima e solennemente vittoriosa. E’ sua, l’ultima parola. Nella storia, la sua opera di salvezza si dispiega con tenacia instancabile, e i tentativi di Dio, nel dramma della libertà e dei fallimenti umani, riuscirebbero pur efficaci anche se apparentemente contraddetti dalle avversità: Lui è capace di aspettare, conducendo a buon fine tutto, in coloro che si aprono a tale mistero: che cioè non si scoraggiano o si scandalizzano per l’asprezza delle vicende che ogni giorno sperimentiamo ma attendono con fede il bene che Dio efficacemente fa seguire ad ogni cosa: tutto con-corre al bene, per quelli che amano Dio!

Ah, se si lasciasse parlare la liturgia!!

Guardando insieme questi spunti, che coincidono nelle celebrazioni di questi giorni, forse ci confondiamo un poco, forse si perde la chiarezza sistematica di una teologia dogmatica precisa, forse lo sguardo deve allargarsi troppo, e si diventa in certo senso strabici, ma è pur vero che queste considerazioni, appunto, strambe (secondo l’etimologia della parola) ci paiono curiosamente suggerite dagli stessi testi: Dio è capace di vincere pur arrivando secondo. Non dovrebbe essere così paradossale, per il Dio Uno, in Tre Persone!

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(1) In italiano si potrebbe rendere così: Ci sostenga negli atti virtuosi, spezzi i denti dell’invidioso serpente, ci aiuti nelle situazioni difficili, ci doni la grazia di operare bene; oppure, ci formi alle azioni dei forti, il dente smussi dell’invidioso, i casi avversi riduca propizi, ci doni di vivere in grazia.

Vediamo altre lingue:

O Abglanz der Herrlichkeit des Vaters. […] Daß er uns Kraft verleihe zu männlichen Taten, ausstoße die Zähne des Neiders, uns beistehe in harter Lage und Anleitung gebe recht zu handeln.

Splendeur de la gloire du Père. […] Qu’il donne force à nos actes, Qu’il terrasse l’ennemi, Et qu’il nous donne dans les épreuves, La grâce pour agir

O splendor of God’s glory bright […] To guide whate’er we nobly do, With love all envy to subdue, To make ill-fortune turn to fair, And give us grace our wrongs to bear.