Il pericolo cui abbiamo accennato nel post precedente (1) consiste nel rischio di cadere in una polemica eccessiva: la traduzione dei testi liturgici è cosa assai delicata, ed è molto facile criticare e trovare lacune e difetti. Qui, senza avere la pretesa di trarre conclusioni generali su tutto il lavoro di traduzione (2), avanziamo alcune riflessioni a partire dal testo latino.
Rimaniamo ancora nella prima parte della colletta: “Fac nos, omnipontens Deus, hos laetitiae dies, quos in honorem Domini resurgentis exsequimur, affectu sedulo celebrare…”. Si tratta della petizione e dell’amplificazione della petizione. Anche se testo in questione è il risultato della composizione di frammenti eucologici provenienti da due testi del Sacramentario Veronense, il senso parrebbe abbastanza chiaro: ci sono dei giorni particolari dell’anno liturgico da vivere in modo altrettanto particolare. Tale concetto, tuttavia, può essere detto con diverse sfumature, che vengono significate dalle parole che si scelgono.
La versione italiana rende così: “fà che viviamo con rinnovato impegno questi giorni...”. Il latino permette di cogliere altre sfumature. Vediamo: il verbo exsequor (da cui exsequimur) esprime il senso di seguire, tener dietro, per cui proseguire, adempiere, sviluppare, continuare, mettere in esecuzione (da qui, fra l’altro, il nome del Consilium ad exsequendam Constitutionem de sacra Liturgia….). La sfumatura è pertanto quella di un azione che viene dopo, si indica una continuità, una successione, che magari amplifica e continua: l’evento principale e più importante è quello che accade prima. Potremmo dire che si tratta di un movimento responsoriale, di risposta, di compimento rispetto a un dato precedente. Nel testo antico del Veronense, al posto di exsequimur vi era il lemma exsigimus, da exsigo, condurre a termine, compiere, trascorrere un periodo di tempo. Questo senso di successione, di compimento temporale viene ad essere omesso nel testo italiano (una traduzione letterale potrebbe essere la seguente: questi giorni di letizia che stiamo continuando. che stiamo compiendo), che sceglie – diciamo così – di unificare i due verbi presenti nella petione, exsequimur e celebrare, con il piuttosto neutro “viviamo“. Così facendo pare che si faciliti uno slittamento anche nella comprensione dell’altra espressione difficile “affectu sedulo“; il contesto, infatti, sembrerebbe ormai non tanto le celebrazioni della cinquantina quanto l’esercizio testimoniale delle opere (cf. il fine della petizione: “…per testimoniare…”). Se questo è il retropensiero, “affectu sedulo” non può che diventare un “generoso impegno“. Il primato della prassi pare prendere il primo posto, quando – più probabilmente – il testo latino era più equilibrato, sottolineando un riferimento alle particolarmente festose celebrazioni pasquali. Alcuni, infatti, hanno reso in questo modo: “fà che solennizziamo con fervido affetto questi giorni di letizia che celebriamo in onore del Signore risorto” (3).
La conferma che sia stata l’omissione, nella traduzione, del verbo “celebrare” ad influire sulla resa di “sedulo affectu” con “generoso impegno” può indirettamente venire dal fatto che nella preghiera dopo la comunione dell’Epifania, il sintagma “digno affectu” viene tradotto “con fervente amore“. “Con fervente amore” avrebbe potuto essere una buona traduzione anche nel caso della nostra colletta: “fà che celebriamo con fervente amore questi giorni di letizia che stiamo continuando….“. E’ chiaro che se si omette il riferimento celebrativo il “fervente amore” diventa troppo generico (fà che viviamo con fervente amore questi giorni di letizia), e così si è passati al “generoso impegno“, forse più comprensibile ma anche altrettanto estraneo al senso teologico della preghiera in questione. Pare, così ci sembra si percepire, che la versione italiana sottolinei qui il senso morale, l’atteggiamento di chi impiega tutte le proprie forze. In sostanza, pare che si tratti di stimolare l’iniziativa ex parte hominis, quando – in realtà – dal punto di vista linguistico e pure da quello teologico il testo tipico diceva altra cosa.
Riconosciamo che l’argomentazione andrebbe meglio approfondita e giustificata. Se siamo stati così sbrigativi e parziali è perché – lo confessiamo – siamo ancora suggestionati da una piccola scoperta che ci è stata partecipata.
In questi giorni si è tenuto presso il Pontificio Istituto Liturgico il X Congresso Internazionale di Liturgia: riassumere i vari interventi sarebbe difficile in poco spazio. Più agevole riportare la sorpresa di una comunicazione data in uno dei workshop. Secondo quanto ci esponeva il prof. Félix Maria Arocena, in un inno della liturgia delle ore mozarabica, fra i vari titoli cristologici attribuiti al Signore Gesù, ne compare uno assai curioso. Nell’antico inno Te Centies, usato nei vespri del sabato nel tempo paquale prima dell’Ascensione, Cristo è chiamato Dei Pignus! Questo apre orizzonti e collegamenti davvero sorprendenti, che il prof. ha potuto solamente lasciar intravedere e che anche noi possiamo solamente accennare. L’uso di un tema normalmente usato in ambito pneumatologico riferito invece al Figlio testimonia la ricchezza e la libertà della liturgia: sarebbe quindi Dio che nel Figlio si fa garante della vita eterna, che l’assemblea orante condivide nella speranza con il suo Capo, Cristo.
Giocando un pochino con le parole, si potrebbe dire che è questo il fondamentale e decisivo im-pegno, l’opera della salvezza di Dio! Proprio perché noi onoriamo con la letizia festiva il dono pasquale del pegno di Dio, l’offerta della vita di Cristo e la sua resurrezione, ha senso e fondamento l’impegno dell’uomo redento, che altrimenti sarebbe destinato a scontrarsi con la fiacchezza del vecchio Adamo, di fronte alla quale non c’è sforzo morale che regga, checché ne pensi Pelagio e alcuni suoi moderni seguaci.
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(2) Per il lavoro di traduzione del Messale italiano, cf. L. Bianchi, Liturgia. Memoria o istruzione per l’uso, Casale Monferrato (Al) 2002.
(3) Messale Romano. Le orazioni proprie del tempo. Nuova versione con testo latino e fonti, M. F. T. Lovato (ed.), Reggio Emilia 1991, 327.
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