Altri due indizi: allora abbiamo una prova! Ancora sul Salmo 32 e la Trinità

Avevamo detto che occorreva fare estrema attenzione all’Ufficio delle Letture della festa della Santissima Trinità, ma non potevamo immaginare che anche nella disposizione tipografica avremmo avuto un dettaglio indicatore così patente.

Infatti, il versetto transitorio, ossia il versetto che, nell’Ufficio delle Letture, segna il passaggio fra la salmodia e la lettura della Parola di Dio e della tradizione, è proprio il versetto 6 del Salmo 32. Ancora – questo vale per l’edizione italiana -, ci sono due parole che hanno la lettera iniziale maiuscola, ad evocare che la lettura di quelle parole debba essere personale e riferita a due delle tre Persone della Trinità. Vediamo:

La Parola del Signore ha fatto i cieli,

e il Soffio della sua bocca, l’universo.

Potrebbe essere un dettaglio, ma aggiunto ad un altro indizio fanno una prova, e che prova!

Possediamo, infatti, un’altra testimonianza della presenza non casuale del salmo 32 nell’ufficiatura della Trinità. Pur non trattandosi di un documento ufficiale, è estremamente importante, poiché è parte di una relazione predisposta dagli esperti che prepararono il sistema di distribuzione dei salmi secondo le intenzioni del Concilio Vaticano II. Già abbiamo scritto qualcosa sul Coetus III, il piccolo gruppo di studiosi che passo passo riuscì ad offrire ai Cardinali e Vescovi del Consilium criteri e schemi che, discussi, rielaborati ed approvati, risultarono poi nell’odierna distribuzione dei salmi nella scansione quadrisettimanale e nelle ufficiature proprie di solennità e feste (1). Per questo riportiamo solamente alcune note, che intendevano motivare le scelte del gruppo di studio davanti alla plenaria del Consilium, e in particolare le proposte per la solennità della Santissima Trinità. La seconda citazione è una tabella, contenuta nello stesso fascicolo, che mostrava le scelte delle diverse tradizioni e dei diversi codici. Il fascicolo è lo schema 244 [De Breviario 59, (20/09/1967)], redatto dal Coetus III, in vista della IX Adunanza del Consilium. Lì troviamo indicazioni inequivocabili, che mostrano la mens della nuova ufficiatura della solennità.

[p. 244/9]

VI
Dominica I.p. Pentecosten seu Ssma Trinitas
48) I. Vesperae
Proponuntur e psalmis BMV. hodierni Breviarii duo psalmi “Laudate”
Ps 112 et 147 addito cantico Eph 1,5-10.
Officium Ssmae Trinitatis in hodierno Breviario habet psalmodiam antiquam B.M.V (!)
49) Officium Lectionis (cf. app. V)
Ps 8 e Officio B.M.V. praedicat maiestatem Dei.

[p. 244/10]
Ps 32,1-11
Ps 32,12-22 propter v. 6: “Verbo Domini caeli firmati sunt et spiritu oris eius omnis virtus eorum”. Hic versus apud Patres interpretatur de Trinitate. Cf. Aug. En. in ps XXXII (CChr. XXXVIII, p. 245) et Cassiodorum: “Nam si diligenter perscrutamur, et sanctam hic Trinitatem significat” (CChr. XCVII, p. 287).
50) II. Vesperae
Ps 109 113A Apc 19 sicut in I. Dominica per annum.

Qui il link alla tabella con i salmi secondo i diversi codici: Tabella salmi Trinità

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(1) Cf. http://www.sacramentumfuturi.wordpress.com/2013/12/27/la-distribuzione-dei-salmi-nellufficiatura-dellottava-di-natale-la-tradizione-rielaborata-senza-perdere-nulla/; anche http://www.sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/05/31/i-salmi-dellascensione-uno-squarcio-sulla-tradizione/.

Un salmo “trinitario”? La liturgia a scuola dei santi Padri. Brevissime note sull’uso liturgico dei Salmi.

«Tutta la tradizione antica dell’uso liturgico dei Salmi è fondata sul loro significato messianico. E’ quest’ultimo, infatti, che conferisce loro un valore per la comunità primitiva. Essa li ha adottati, lo abbiamo già detto, non per il loro valore religioso, né a causa del loro carattere ispirato, ma unicamente perché essa ha creduto che riguardassero il Cristo; tutto il loro impiego nella Chiesa si basa dunque su una portata messianica. Se tutto ciò non è vero, cioè che quanto attribuito ai Salmi non corrisponde alla realtà, il loro impiego liturgico risulta solamente per un simbolismo accomodaticcio e perde ogni significato dogmatico» (1).

Traiamo queste righe da alcune riflessioni di J. Daniélou sulla liturgia della festa dell’Ascensione, che presenta, lungo la storia, riferimenti ripetuti ad alcuni salmi particolari, i quali, dunque, sono stati letti e interpretati come salmi “propri” – diremmo noi – adatti alla festa, pregati e utilizzati nella liturgia dell’Ascensione perché considerati appunto testi profetici del mistero compiuto nella salita di Cristo, nella sua umanità risorta e glorioso, alla destra del Padre.

Analoghe considerazioni possiamo farle anche relativamente alla festa della Santissima Trinità. Vediamo.

A chi preghi anche l’Ufficio delle Letture con attenzione, non sfuggirà quest’anno una ripetizione sospetta: il Salmo 32 (33) Esultate, o giusti, forma la seconda e la terza sezione salmodica dell’Ufficio come pure il Salmo responsoriale della Messa. Non è una coincidenza del tutto casuale: nella nuova distribuzione del salmi, nelle solennità e nelle feste si tenne conto infatti di un principio tradizionale, ossia l’interpretazione teologica (di solito cristologica) dei salmi, considerati come rivelazione profetica dei misteri di Cristo e di Dio, e non solo come espressione dei sentimenti dell’orante.

Secondo i nostri criteri ermeneutici forse parrebbe una forzatura, ma ai Padri non sfuggì che nel salmo, e in particolare nel versetto 6, vi era adombrata l’opera della Trinità: Dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio della sua bocca ogni loro schiera [Verbo Domini caeli firmati sunt: et spiritu oris eius omnis virtus eorum].

Se questo è vero – e lo è, lo vedremo in un successivo post – la Chiesa in questa solennità non prega il salmo 32 solamente per la liricità di questo inno, per la sua bellezza e per i sentimenti di lode che esprime, ma anche perché vi legge una rivelazione – seppure incipiente e ancora profeticamente velata – del Mistero della Trinità!

Ne era certo, ad esempio, sant’Agostino:

Ascolta come unica sia l’opera del Figlio e dello Spirito Santo. Il Verbo, non v’è dubbio, è il Figlio di Dio, e lo Spirito della sua bocca è lo Spirito Santo. Col Verbo, cioè con la parola del Signore i cieli furono consolidati. Ma che cosa significa essere consolidati, se non avere stabile e solida fortezza? E dallo Spirito della sua bocca tutta la loro fortezza. Si potrebbe anche dire: con lo Spirito della sua bocca i cieli furono consolidati e dal Verbo del Signore tutta la loro fortezza. Perché tutta la loro fortezza è lo stesso che dire furono consolidati. Questo fanno il Figlio e lo Spirito Santo. Forse lo hanno fatto senza il Padre? Ma chi opera per mezzo del suo Verbo e del suo Spirito, se non Colui di cui è il Verbo e lo Spirito?. Questa Trinità è dunque un solo Dio, adorato da chi sa adorare, e che ha ovunque chi a Lui si converte.

Sant’Agostino, Esposizione III sul Salmo 32, 5: http://www.augustinus.it/italiano/esposizioni_salmi/index2.htm

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(1) J. Daniélou, Bibbia e Liturgia. La teologia biblica dei Sacramenti e delle feste secondo i Padri della Chiesa, Roma 1998, 277; cf., anche, ID., «Les Psaumes dans la liturgie de l’Ascension», LMD 21(1950) 40-56.

I periti della Commissione liturgica: tutti così fondamentalisti? Replica fondata ad una consueta accusa ai liturgisti.

Sebbene non si possa pretendere di scoprire grandi cose e di riportare alla luce sensazionali novità, la consultazione diretta della documentazione relativa alla redazione della Costituzione liturgica del Vaticano II, riserva sempre – almeno così abbiamo sperimentato – qualche piccola utilità. Certamente c’è una gerarchia di valore nella documentazione, dalla quale discende una diversa autorità ed importanza: una cosa è il testo della Sacrosanctum Concilium approvato e altra cosa sono le bozze redazionali di passaggio; scendendo a un livello ancora più basso, un diverso valore ha la prima bozza di schema generale, assemblata dalla Segreteria della Commissione preparatoria, rispetto alle singole relazioni preparate dalle Sottocommissioni.
Dovremmo essere tutti molto grati al prof. Angelo Lameri per il grande sforzo di reperimento e pubblicazione di tutto questo materiale, ora facilmente a disposizione di molti, benché rimanga lo scoglio del latino e, pare, la mole della documentazione prodotta sia ancora tutta da studiare (1).
Eppure, essendo stata la preparazione del Concilio e dei suoi documenti opera così vasta e complessa, rimane ancora molto da ricercare, anche se – lo ripetiamo – non consti di documentazione ufficiale. Si tratta, invece, di tutta una serie di interpellanze, di note, di studi che i periti delle diverse sottocommissioni produssero e si scambiarono prima di redigere le relazioni che poi furono presentate nella Plenaria della Commissione preparatoria, a fine aprile 1961. In tale documentazione si intravedono le dinamiche progettuali, le correnti di pensiero e le diverse istanze che confluirono nello schema conciliare, come pure le visioni e i temperamenti dei periti stessi. Non si tratta di curiosità accademica: la ricerca – seppur su dettagli anche minimi – può comunque offrire uno spaccato della metodologia, dello spirito e delle questioni che si agitavano in quella fase di lavoro di preparazione. E tutto ciò favorisce l’approfondimento oggettivo e fondato, che non cessa di essere necessario, del periodo, così gravido, della preparazione al Vaticano II. Si può vedere infatti come il lavoro collegiale facesse risaltare le intuizioni e le peculiarità dei singoli e insieme garantisse la moderazione e l’equilibrio di una visione più condivisa.
Un esempio, legato alla tematica del post precedente (il recupero della Parola di Dio nella liturgia), ci viene offerto dallo scambio di opinioni fra alcuni dei membri della IX Sottocommissione, De participatione fidelium. I lavori di questo gruppo furono travagliati, oltre alla delicatezza della questione, anche dall’improvvisa morte del relatore, l’abate benedettino padre Cannizzaro (2). Il compito di raccogliere il lavoro svolto fino ad allora fu assegnato al liturgista francese Pierre Jounel. Era uno dei periti che hanno più di altri contribuito al recupero dell’importanza e della presenza della Parola di Dio nelle celebrazioni liturgiche. Tale sensibilità lo aveva indotto a proporre una modifica esplicita nella disciplina canonica: nella bozza della relazione che la Sottocommissione avrebbe dovuto presentare, aveva inserito infatti la richiesta che il Concilio affermasse, ex lege, che il precetto della partecipazione alla messa non poteva essere considerato soddisfatto se non si fosse arrivati in chiesa entro la prima lettura. Jounel riteneva che una semplice chiarificazione dottrinale non fosse sufficiente per educare i fedeli che indugiavano fuori dalla chiesa per entrare poi all’offertorio (3).
Il testo di questa bozza venne inviato agli altri membri della Sottocommissione, perché valutassero e correggessero, fornendo eventualmente osservazioni e proposte. Riportiamo la risposta di p. Giulio Bevilacqua, assai interessante per l’equilibrio mostrato e per la sapienza pastorale: le argomentazioni sono attualissime! In un prossimo post, poi, si vedrà il risultato di questa mediazione.

Brescia, 7 aprile 1961
Rev.mo e caro Padre,
ho ricevuto gli “Altiora principia” ed i “Vota”; il mio consenso è pieno con la sapiente redazione sia dei principi come dei voti.
Sopra due punti mi permetto di dissentire:
a. sopra l’invocazione di una misura canonica che dichiari invalida l’osservanza del precetto da parte di chi arrivi dopo le letture. Non possono sorgere dubbi sull’importanza della Liturgia della parola; non credo opportuna la via scelta per trasmettere ai fedeli una vera convinzione. Nel mondo attuale si accentua sempre di più la opposizione irritata verso ogni obbligazione imposta ab estrinseco. Non discuto: faccio solamente una constatazione per dedurre che un comando canonico in tale mentalità ambientale porterebbe a sospetti di alienazione, a diserzioni più totali e massicce da parte di chi si sente ancora legato da tenuissimo filo all’essenziale pratica cristiana. Ora, essendo spesso il ritardo non sistematico, si potrà arrivare allo scopo con opera lenta ed approfondita di persuasione. Non dimentichiamo soprattutto che si potrà ottenere la presenza convinta alla Liturgia della Parola solo quando da parte della Chiesa e del clero si solleverà come problema di emergenza il problema della predicazione contro la quale la critica è oggi unanime e decisa. I fedeli arriveranno a comprendere l’importanza della Liturgia della Parola solo quando la predicazione sarà ricondotta alla storia della salvezza, all’essenzialità, al rispetto dei valori umani e della persona – ad un senso di misura e ad un minimo di pensie-[2]ro e di forma: finchè la parola di Dio è troppo velata o letteralmente sepolta sotto la parola, il ragionamento, le finalità umane, i fedeli non si persuaderanno mai a ritenere precetto grave la presenza fino dall’inizio della Messa.
[…]
Quanta pena per la morte del caro Abate Canizzaro, non resta che adorare le vie misteriose del Signore.
Con devoto ossequio e cordialmente. (4)

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(1) cf. A. Lameri, La «Pontificia Commissio de sacra liturgia praeparatoria Concilii Vaticani II». Documenti, Testi, Verbali (Bibliotheca «Ephemerides Liturgicae» «Subsidia» 168), Roma 2013.

(2) Per maggiori dettagli sui lavori e sui contributi della IX Sottocommissione si veda, oltre a A. Bugnini, La riforma liturgica (Bibliotheca «Ephemerides Liturgicae» «Subsidia» 30), Roma 1997², C. Braga, «La genesi del primo capitolo della “Sacrosanctum Concilium”», EL 114 (2000) 3-21.

(3) «Voeu fondamental. Tous les efforts pastoraux pour faire participer activement les fidèles à la célébration liturgique et spécialement à la célébration de la sainte Messe n’aboutiront qu’a des résultats partiels et perpétuellement remis en question per le simple poids de la nature humaine, si le Saint Concile ne consent à faire une déclaration doctrinale et à en promulguer une loi: – une déclaration doctrinale sur le fait que la messe, acte principal du culte chrétien, comprend deux parties distinctes, liées étroitement l’une à l’autre: une liturgie de la Parole de Dieu et le sacrifice eucharistique. La Parole de Dieu est un élément essentiel de l’assemblée liturgique. Elle est nourriture pour les âmes (De imitatione Christi IV, II); elle est aussi proclamation dans l’Eglise du mystère du salut que réalise l’Eucharistie. – une promulgation canonique: le fidèle n’a pas satisfait au précepte de l’assistance à la messe dominicale s’il n’est pas arrivé avant l’epître.
La conviction dans le peuple chrétien est trop ancrée qu’il suffit d’arriver à la messe pour l’offertoire, la négligence est trop grande en ce qui concerne l’exactitude horaire, pour qu’on puisse déraciner l’une et l’autre par un seul effort de catéchèse. Celui-ci doit s’appuyer sur une promulgation solennelle de la loi»: Pierre Jounel, Bozza di relazione su Altiora Principia e Vota De Participatione fidelium in sacra liturgia, Parigi 16/01/1961, 18: Archivio della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII, Fondo Jounel, FJNL 16, f. 18.

(4) Archivio della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII, Fondo Jounel, FJNL 15, f. 1.

‘Non è esagerato dire che l’attuazione della riforma liturgica….’: un’editoriale datato, ma ancora attualissimo.

Ci si perdonerà la lunga citazione, ma il testo seguente è troppo importante e significativo per le intenzioni del nostro blog. Si tratta di un editoriale, non firmato, ma senza dubbio opera di Salvatore Marsili. Il corsivo è nel testo, mentre qui evidenziamo alcuni passaggi con il carattere grassetto.

Una liturgia cristiana senza una lettura della Parola di Dio non è mai esistita, almeno come regola. Questo fatto da solo è già sufficiente a farci comprendere che un legame per sé indissolubile tiene strettamente unite tra loro la celebrazione del mistero cristiano e la proclamazione di esso nella Parola. Nei fatti però di questa indissolubilità è stata lungo la storia un’interpretazione molto e fin troppo riduttiva.

Lo schema liturgico e tradizionale che prevede sempre un’alternanza tra preghiera e lettura della Parola, sia nella celebrazione sacramentale che nella Liturgia deiie Ore, ha continuato ad essere materialmente mantenuto e osservato; ma nella realtà il posto della Parola nella liturgia non è stato sempre, dal primo Medioevo in poi, quello che veramente gli competeva. Mentre il calendario liturgico continuava a non prevedere, eccezione fatta per la Quaresima le Quattro Tempora e le ottave di Pasqua e Pentecoste, celebrazioni feriali dell’Eucaristia, queste di fatto si andarono moltiplicando e quando non interveniva la festa di un santo o una messa votiva, non si faceva che riprendere le letture della domenica precedente. Le stesse feste dei santi non avevano di solito delle letture proprie, ma si ricorreva a letture ‘comuni’, che naturalmente erano ripetutissime, dato il grande numero di santi che riempiva sempre di più il calendario.

E’ noto che dalla fine del Medioevo la ‘Liturgia delle Ore’ è stata chiamata ‘Breviario’: questo nome deve la sua orgine – anche se non esclusivamente – al fatto dell’abbreviamento cui in quel tempo erano state sottoposte le letture della Parola di Dio. Anche nel Breviario, come nel Messale. si era già affermato l’uso delle letture ‘comuni’ per la maggior parte delle feste dei santi; e benchè nella celebrazione domenicale e feriale si fosse conservato il principio della ‘lettura continua’ dei libri della Sacra Scrittura, di fatto questa lettura spesso si riduceva solo all’enunciazione di alcuni pochi versetti, per esempio dei profeti minori. Ma oltre che nella quantità, la Parola aveva subìto anche una riduzione di ruolo, per quanto riguarda la sua funzione liturgica. La lettura della Parola di Dio, che né si chiamava ‘Liturgia della parola’, né era pensata come tale, risultava praticamente solo ‘accostata’, e in posizione dichiaratamente secondaria, alla celebrazione del mistero. Sappiamo infatti che l’obbligo di partecipare alla celebrazione non includeva quello di ascoltare la lettura della parola di Dio, e questa d’altra parte non era valutata come quella che dava significato e contenuto alla celebrazione; le si riconosceva infatti solo una funzione di preparazione psicologico-spirituale, a sfondo moralistico, della celebrazione.

Una riforma liturgica, come doveva essere quella che il Vaticano II esigeva, non poteva né ignorare né mancare di risolvere il ‘problema liturgico’ – perché di questo ormai si trattava – che era costituito appunto dall’uso della Parola nella liturgia. Questo non poteva continuare ad essere quello che era; ma ciò importava che proprio rifacendosi ai principi organizzativi della tradizione liturgica, si disfacesse quasi per intero quel che la storia ci aveva trasmesso da una tradizione che nei fatti aveva spesso tradito se stessa, e si costruisse quindi un ordinamento di letture che in tutti i sensi meglio corrispondesse alle esigenze della liturgia, in modo che la celebrazione del Mistero di Cristo meglio apparisse, nella proclamazione della Parola, come attuazione continuata della storia della salvezza, di cui appunto la parola ci porta l’annuncio prima a livello di promessa e poi di realizzazione.

Questa è la ‘novità’ del Lezionario che la riforma ci ha dato tanto per la liturgia dell’Eucaristia e degli altri sacramenti, quanto per la Liturgia delle Ore. Cercare una chiave di lettura per entrare in questa ‘novità’, vuol dire addentrarsi sempre più nella comprensione della liturgia; ma significa anche fare della celebrazione veramente ‘la mensa del Signore’, nella quale Cristo si comunica a noi nell’annunzio e nella realtà della parola di salvezza. Non è esagerato dire che l’attuazione della riforma liturgica è in rapporto diretto con la comprensione della funzione che la Parola ha nella liturgia, e a tale comprensione è mezzo quasi indispensabile il retto e adeguato uso del nuovo Lezionario.

Rivista Liturgica 70 (1983), Editoriale, 643-645

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Per altri post sul tema, cf. i seguenti:

http://www.sacramentumfuturi.wordpress.com/2013/10/04/forza-riconciliatrice-della-parola-di-dio-la-verbum-domini-e-protestante/

http://www.sacramentumfuturi.wordpress.com/2013/09/08/liturgia-della-parola-o-servizio-divino-dellistruzione/

Padre Carlo Braga. Un liturgista dietro le quinte ma dentro la storia.

In questo post segnaliamo un primo profilo biografico di padre Carlo Braga, cm. (01/01/1927-16/08/2014): anche nel caso della recente riforma liturgica, è impressionante rendersi conto di quante persone abbiano speso la loro vita, nella Chiesa, in un servizio umile e nascosto ai più. Certamente la loro ricompensa è nei cieli, ma meritano pure tutta la nostra gratitudine. Per ricordare, di nuovo, padre Carlo ci siamo permessi di estrapolare le seguenti righe da un articolo bio-bibliografico pubblicato da un suo confratello nella sua rivista Ephemerides Liturgicae. In attesa di studi più approfonditi, può essere utile farsi un’idea di quanto questo prete della Missione si dedicò alla scienza e alla riforma della liturgia.

Per l’anagrafe è Primo Braga, battezzato poi Carlo, figlio di Luigi e Bramini Antonia, nato il 1 gennaio 1927 a Trevozzo Val Tidone, nel comune di Nibbiano, in provincia di Piacenza. É entrato nella Congregazione della Missione, il 26 settembre 1942 nel Seminario interno di Siena, dopo aver frequentato gli studi liceali presso la Scuola Apostolica del Collegio Leoniano di Roma, negli anni 1937-42. Ha emesso i voti perpetui il 6 gennaio 1945. Nell’immediato dopoguerra (1946-1951), ha proseguito gli studi ecclesiastici per un anno a Siena, presso il Seminario Maggiore della Congregazione della Missione, e successivamente all’Angelicum di Roma, in cui ha conseguito la licenza in teologia nel 1950. Ordinato sacerdote i1 24 giugno 1950, viene inviato a Siena come Direttore della Scuola Apostolica della Congregazione negli anni 1951-1955. Dal 1955 lavora nel campo liturgico in vari uffici e commissioni: dapprima come aiutante e collaboratore di Mons. Annibale Bugnini, successivamente come consultore e membro di diversi organismi pontifici, della Conferenza Episcopale Latino-Americana, della Conferenza Episcopale Italiana. In particolare lavora alla Sezione storica della Sacra Congregazione dei Riti (1955-60) ed entra nella Commissione Piana per la Riforma generale della Liturgia voluta da Pio X11 (1959-60). Sempre al fianco di A. Bugnini lavora alla Riforma liturgica del Concilio Vaticano II come membro della Segreteria della Commissione ante-preparatoria (1960) e della Commissione preparatoria De Sacra Liturgia (1960), Consultore della Commissione Liturgica Conciliare (1960), membro della Segreteria centrale della Commissione Conciliare De Sacra Liturgia (1962), Consultore del Consilium ad exsequendam Constitutionem De Sacra Liturgia (1965-71), l’importante organo di applicazione della riforma. Negli organismi della Curia Romana è Consultore della Sacra Congregazione dei Riti (1968-70) e della Sacra Congregazione per il Culto divino (1970-75). Dal 1971 al 1976 lavora in America Latina presso l’Istituto Pastorale di Medellin del CELAM, prima come docente e poi come responsabile della Sezione Liturgica. In questi anni ha dato corsi e conferenze in tutto il Sud-America.
Al lavoro nel campo liturgico aggiunge, dal 1977, l’attività di formatore e di governo all’interno della Congregazione della Missione, della Compagnia delle Figlie della Carità, della Famiglia Vincenziana. É Superiore e Rettore del Collegio Alberoni di Piacenza, Seminario Maggiore della Congregazione e della Diocesi di Piacenza (1979-87), Visitatore della Provincia Romana della Congregazione della Missione (1987-93), Direttore della Provincia Romana della Figlie della Carità (1990-99). Partecipa al lavoro di redazione delle nuove Costituzioni della Congregazione (1969-1985) e collabora regolarmente con il Centre International de Formation della Congregazione (1992-2002) di Parigi, dando cicli di conferenze di formazione permanente. Nel 2003 lascia gli incarichi e gli uffici per ragioni di salute. Continua però ad occuparsi del Centro Liturgico Vincenziano e delle pubblicazioni di Liturgia fino a quando le residue forze glielo hanno consentito.

N. Albanesi, “P. Carlo Braga C.M.: prospetto bio-bibliografico”, EL 128 (2014) 391-392.

Qui un articolo di commemorazione in spagnolo: http://www.phase.cpl.es/wp-content/uploads/2014/09/P.-Carlo-Braga-C.M.1927-2014.pdf

Per altri post su questo blog concernenti p. Carlo, è sufficiente digitare “Braga” nella sezione “Cerca”.

Non solo la liturgia gioca con la sintassi. Ancora sull’agnello…

Avevamo iniziato l’ultimo articolo sull’Inno Ad cenam agni providi (1) con una questione legata ai casi grammaticali latini, giocando sul fatto che nella seconda declinazione (quella seguita dagli aggettivi della prima classe di genere maschile) il genitivo singolare è identico al nominativo plurale. E si è visto come la scelta rimanga aperta, nonostante una traduzione sembra più probabile. Ma non è solo la liturgia e i suoi testi a nascondere nelle parole giochi che aprono ricchezze ed orizzonti. Anche nella Scrittura, e sempre a proposito di un agnello, troviamo un curioso caso di sintassi aperta a differenti intepretazioni. Lasciamo la parola ad una biblista magistrale nell’arte della parola, che ci regala alcuni passaggi su Genesi 22,7-8.

Abramo rispose: “Dio stesso provvederò l’agnello per l’olocausto, figlio mio!”. E proseguirono tutti e due insieme” (vv. 7-8). La domanda di Isacco è patetica, struggente, e mette Abramo con le spalle al muro; ora sarà costretto a dire tutta la verità. E invece il padre continua nella sua obbedienza silenziosa. Ancora con un frase enigmatica, in cui Dio, il vero protagonista, viene infine nominato, ma nella certezza della sua bontà, nell’abbandono a un mistero incomprensibile in cui la fiducia vince l’oscurità della prova: “Dio provvederà”.

La frase di Abramo mantiene comunque una certa ambiguità, dovuta al fatto che, in ebraico, quel “figlio mio” può avere una duplice funzione sintattica: o di vocativo (come nella traduzione più frequente, da noi riportata) o di apposizione (in questo caso, bisognerebbe tradurre: “Dio stesso provvederà l’agnello, cioè mio figlio). Come se Abramo, esprimento la sua fede, si lasciasse anche sfuggire qualcosa del suo terribile segreto. Ancora una volta, la particolarità testuale e letteraria ci apre uno spiraglio nella lotta interiore del patriarca.

B. Costacurta, “Abramo e l’esperienza della fede”, in Esperienza e Spiritualità. Miscellanea in onore del R. P. Charles André Bernard, H. Alphonso (ed.), S. J., Roma 1995, 25.

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(1) Cf. http://www.sacramentumfuturi.wordpress.com/2015/05/15/un-agnello-provvido-e-un-traduttore-forse-improvvido-intermezzo-pasquale-su-unantico-inno/

Un agnello provvido e un traduttore forse improvvido. Intermezzo pasquale su un antico inno.

Mentre nel post precedente avevamo segnalato una grande libertà nella traduzione italiana, ora dobbiamo registrare, invece, il mancato scioglimento di un’espressione che nell’originale latino rimane aperta a diverse interpretazioni. Ci riferiamo all’Inno che ha accompagnato la preghiera dei Vespri, dalla sera di Pasqua fino all’Ascensione. Mentre pertanto ci apprestiamo a congedarlo, ci soffermiamo sul primo stico dell’Ad cenam agni providi.

Providi” può essere letto sia come genitivo singolare sia come nominativo plurale. Nel primo caso, l’aggettivo providus (da provideo) si riferisce all’agnello; nell’altro caso, si tratterebbe del noi dell’assemblea orante, soggetto del canto a Cristo principe, che “vede davanti a sé”, nel desiderio, il banchetto dell’agnello (1). Se, diversamente, a “providere” fosse l’agnello, sarebbe sottolineato il fatto che il banchetto è stato già preparato, è pronto, proprio grazie all’opera dell’agnello. Come si vede, sarebbe difficile dire che una delle due interpretazioni sia assolutamente errata. Ci sono sfumature interessanti da cogliere in entrambe.

Tuttavia, i latinisti ci suggeriscono che “providus” non sembra mai essere usato in relazione con la particella “ad“, con il senso di at-tendere. Ma nonostante questo chiarimento precisi meglio il senso, ci si può ancora chiedere cosa si intenda con “agnello provvido”: la traduzione di per sé non sarebbe sufficiente. Forse è per questo che il traduttore italiano ha scelto di non complicare troppo la questione, semplicemente omettendo l’aggettivo, rendendo con un’espressione lineare, ma assai più povera: “alla cena dell’agnello”.

Torniamo, quindi, agnello provvido, o provvidente. Parrebbero due i testi biblici ad essere qui evocati. Il primo, anticotestamentario, è Genesi 22,8: “Abramo rispose: ‘Dio stesso si provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio’ [dixit Abraham Deus providebit sibi victimam holocausti fili mi]”; l’agnello provvido sarebbe quello provveduto da Dio stesso, l’ariete offerto al posto di Isacco. Anche in questo caso forse non è del tutto da escludere questa ipotesi, nonostante appaia più armonico con il senso generale dell’Inno il riferimento ad un secondo testo della Scrittura, che è Apocalisse 19,7-9: “sono giunte le nozze dell’Agnello; la sua sposa è pronta…Beati gli invitati al banchetto di nozze dell’Agnello [venerunt nuptiae agni et uxor eius praeparavit se…beati qui ad cenam nuptiarum agni vocati sunt]”. Al suo banchetto di nozze, è l’agnello che invita, è lui che sovrintende, è lui che provvede! Ma c’è di più: come dirà più avanti l’inno, è lui stesso il cibo servito in questo banchetto: l’agnello invita al suo banchetto, nel quale cibo prezioso è l’agnello stesso.

Simili evocazioni avrebbero potuto risuonare anche nell’italiano, se il traduttore avesse avuto più coraggio, tentando di trovare un modo per trasmettere anche quell’aggettivo! No, non pare proprio che esso, a differenza dell’agnello, sia stato provvido.

Infine, ecco come Agostino esprimeva questo mistero:

Fu allora invitata la moltitudine di tutte le genti: essa riempì la Chiesa; e non ricevette dalla mensa del suo Signore vili pietanze o vini scadenti, ma gustò la carne e il sangue dello stesso pastore, dello stesso Cristo immolato. Fu ucciso alle sue nozze lo stesso Agnello innocente; fu ucciso alle nozze e cibò con la sua carne tutti quelli che aveva invitato. Ucciso preparò il banchetto; risorto celebrò le nozze. Subì volontariamente passione e uccisione. Risorto ebbe la sposa prestabilita. Nel seno della Vergine ricevette la carne umana come un pegno e sulla croce versò il suo sangue come una preziosissima dote; nella sua risurrezione e ascensione rinsaldò i suoi patti di eterno connubio.

Invitata est postea universarum Gentium multitudo, ipsa implevit Ecclesiam, ipsa accepit de mensa dominica non viles epulas, aut ignobiles potus, sed ipsius pastoris, ipsius occisi Christi carnem praelibavit et sanguinem. Occisus est ad nuptias suas ipse innocens agnus, occisus est ad nuptias; et quoscumque invitavit, de carne sua pavit. Occisus epulas praeparavit: resurgens nuptias celebravit. Occisus voluntariam pertulit passionem: resurgens dispositam duxit uxorem. In utero virginis humanam carnem velut arrham accepit: in cruce pretiosissimam dotem suum sanguinem fudit: in resurrectione atque ascensione sua aeterni matrimonii foedera roboravit.

Agostino, Sermo 372,2

cf. qui: http://www.augustinus.it/latino/discorsi/index2.htm

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Le versioni inglesi sembrano preferire questa lezione: “The lamb’s high banquet we await”, “Foreseeing the supper of the Lamb”. Una versione italiana non ufficiale recita “Ammessi alla cena del provvido agnello”. Per approfondire, cf. A. Bastiaensen, «The hymn ” Ad cenam Agni providi”», Ephemerides Liturgicae 90 (1976) 43-71, in particolare le pagine 52-53.

Che libertà, questi italiani! Sapevano quel che facevano? Constatazioni a partire da un semplice responsorio breve

Domenica scorsa, sul quotidiano Avvenire, vi era un articolo che rendeva conto di un dibattito fra un eminente studioso della lingua italiana e un liturgista, intorno al tema dell’italiano liturgico, nel contesto delle traduzione in volgare dei testi latini (cf. l’articolo qui: http://www.accademiadellacrusca.it/sites/www.accademiadellacrusca.it/files/page/2015/05/11/avvenire_20150510_messa_italiano.pdf ). Il titolo recitava: “Italiano a Messa. La lingua alla prova”, e riportava come esempi alcuni casi difficili.
Non era fra quelli commentati ma è sicuramente uno dei casi esemplari della non semplicità di una traduzione, la resa del latino “Agnus Dei, qui tollis…” con “Agnello di Dio, che togli…”. Senza entrare in questioni bibliche e filologiche su cui non siamo competenti, in questo breve post riportiamo solo alcuni dati, per sottolineare una curiosa e misteriosa incongruenza nei libri liturgici, segno – crediamo- di una più profonda questione irrisolta. Infatti, se già il termine “Agnello”, nei suoi simbolismi biblici, non è chiaro e univoco come sembra, anche la resa del verbo non è cosa immediata, nonostante l’assonanza fra il latino e l’italiano faccia parere semplice la traduzione (tollere – togliere). Quando Giovanni Battista vede Cristo ed esclama “Ecco l’Agnello di Dio, colui che toglie il peccato del monod” (Gv 1,29), cosa intendeva dire? Secondo alcuni esegeti, nell’aramaico sottostante al greco del vangelo vi è il termine talya, che significa contemporaneamente agnello e servo. “E una delle tante parole ‘a doppio significato’, di cui i semiti sono ghiotti” (1). Ma anche il verbo nasconde una ricchezza di significati, che emerge in modo del tutto inaspettato nella versione italiana del salterio. E non si tratta di una traduzione, quanto di un nuovo testo, il che rende il fenomeno ancora più curioso. Non si può dire se chi ha preparato il testo abbia ceduto ad analoga “ghiottoneria”, ma di certo si è complicato un poco. Ma vediamo appunto i testi.
Dobbbiamo fare un salto indietro, torniamo alla liturgia della Settimana Santa, precisamente al lunedì. Nella liturgia delle Ore, le lodi presentano come lettura breve un brano del profeta Geremia (11,19-20), cui segue un responsorio breve

Riportiamo dapprima il testo tipico latino, poi alcune versioni in diverse lingue.

Lettura breve: Ego quasi agnus mansuetus, qui portatur ad victima…

Resp. (edizione tipica latina): Redemisti nos, Domine, in sanguine tuo…Ex omni tribu et lingua et populo et natione, in sanguine tuo..

Resp. (ed. inglese): You have redeemed us, Lord, by your blood…Form every tribe and tongue and people and nation..

Resp. (ed. francese) : Souviens-toi de Jésus Christ ressuscité d’entre les morts: Il est notre salut, notre glorie éternelle. Si nous mourons avec lui, avec lui nous vivrons…Si nous souffrons avec lui, avec lui nous régnerons..

Resp. (ed. spagnola): Nos ha comprado, Señor, con tu sangre…De toda raza, lengua, pueblo y nación…

Resp. (ed. italiana) Agnello di Dio, che porti il peccato del mondo, abbi pietà di noi…Tu che verrai a giudicare, abbi pietà di noi.

Come si vede, i traduttori italiani si sono presi una certa libertà, come pure i colleghi francesi. Ma in questa libertà hanno creato un testo che pare discostarsi dall’assai più tradizionale e classico  “Agnello di Dio, che togli i peccati..”: oltre al cambio del verbo, viene modificato anche il numero dei peccati (togli i peccati  / porti il peccato).

Più che traduzione, quindi, si ha qui una nuova visione teologica. È pur sempre un responsorio breve, un testo di minore importanza, tuttavia si potrebbe parlare in questo caso di un “proprio” della settimana santa. Non siamo in grado ora di rispondere, ma sarebbe interessante porsi la domanda se questà particolarità è stata notata nei commenti alla liturgia delle Ore della settimana santa. Magari qualche nostro lettore potrebbe suggerirci qualcosa.

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(1) F. Manns, Simboli biblici, Napoli 2013, 176.

“Generoso impegno”! Che lingua parliamo (e che teologia abbiamo)? Divagazioni su una colletta.

Il pericolo cui abbiamo accennato nel post precedente (1) consiste nel rischio di cadere in una polemica eccessiva: la traduzione dei testi liturgici è cosa assai delicata, ed è molto facile criticare e trovare lacune e difetti. Qui, senza avere la pretesa di trarre conclusioni generali su tutto il lavoro di traduzione (2), avanziamo alcune riflessioni a partire dal testo latino.

Rimaniamo ancora nella prima parte della colletta: “Fac nos, omnipontens Deus, hos laetitiae dies, quos in honorem Domini resurgentis exsequimur, affectu sedulo celebrare…”. Si tratta della petizione e dell’amplificazione della petizione. Anche se testo in questione è il risultato della composizione di frammenti eucologici provenienti da due testi del Sacramentario Veronense, il senso parrebbe abbastanza chiaro: ci sono dei giorni particolari dell’anno liturgico da vivere in modo altrettanto particolare. Tale concetto, tuttavia, può essere detto con diverse sfumature, che vengono significate dalle parole che si scelgono.

La versione italiana rende così: “fà che viviamo con rinnovato impegno questi giorni...”. Il latino permette di cogliere altre sfumature. Vediamo: il verbo exsequor (da cui exsequimur) esprime il senso di seguire, tener dietro, per cui proseguire, adempiere, sviluppare, continuare, mettere in esecuzione (da qui, fra l’altro, il nome del Consilium ad exsequendam Constitutionem de sacra Liturgia….). La sfumatura è pertanto quella di un azione che viene dopo, si indica una continuità, una successione, che magari amplifica e continua: l’evento principale e più importante è quello che accade prima. Potremmo dire che si tratta di un movimento responsoriale, di risposta, di compimento rispetto a un dato precedente. Nel testo antico del Veronense, al posto di exsequimur vi era il lemma exsigimus, da exsigo, condurre a termine, compiere, trascorrere un periodo di tempo. Questo senso di successione, di compimento temporale viene ad essere omesso nel testo italiano (una traduzione letterale potrebbe essere la seguente: questi giorni di letizia che stiamo continuando. che stiamo compiendo), che sceglie – diciamo così – di unificare i due verbi presenti nella petione, exsequimur e celebrare,  con il piuttosto neutro “viviamo“. Così facendo pare che si faciliti uno slittamento anche nella comprensione dell’altra espressione difficile “affectu sedulo“; il contesto, infatti, sembrerebbe ormai non tanto le celebrazioni della cinquantina quanto l’esercizio testimoniale delle opere (cf. il fine della petizione: “…per testimoniare…”). Se questo è il retropensiero, “affectu sedulo” non può che diventare un “generoso impegno“. Il primato della prassi pare prendere il primo posto, quando – più probabilmente – il testo latino era più equilibrato, sottolineando un riferimento alle particolarmente festose celebrazioni pasquali. Alcuni, infatti, hanno reso in questo modo: “fà che solennizziamo con fervido affetto questi giorni di letizia che celebriamo in onore del Signore risorto” (3).

La conferma che sia stata l’omissione, nella traduzione, del verbo “celebrare” ad influire sulla resa di “sedulo affectu” con “generoso impegno” può indirettamente venire dal fatto che nella preghiera dopo la comunione dell’Epifania, il sintagma “digno affectu” viene tradotto “con fervente amore“. “Con fervente amore” avrebbe potuto essere una buona traduzione anche nel caso della nostra colletta: “fà che celebriamo con fervente amore questi giorni di letizia che stiamo continuando….“. E’ chiaro che se si omette il riferimento celebrativo il “fervente amore” diventa troppo generico (fà che viviamo con fervente amore questi giorni di letizia), e così si è passati al “generoso impegno“, forse più comprensibile ma anche altrettanto estraneo al senso teologico della preghiera in questione. Pare, così ci sembra si percepire, che la versione italiana sottolinei qui il senso morale, l’atteggiamento di chi impiega tutte le proprie forze. In sostanza, pare che si tratti di stimolare l’iniziativa ex parte hominis, quando – in realtà – dal punto di vista linguistico e pure da quello teologico il testo tipico diceva altra cosa.

Riconosciamo che l’argomentazione andrebbe meglio approfondita e giustificata. Se siamo stati così sbrigativi e parziali è perché – lo confessiamo – siamo ancora suggestionati da una piccola scoperta che ci è stata partecipata.

In questi giorni si è tenuto presso il Pontificio Istituto Liturgico il X Congresso Internazionale di Liturgia: riassumere i vari interventi sarebbe difficile in poco spazio. Più agevole riportare la sorpresa di una comunicazione data in uno dei workshop. Secondo quanto ci esponeva il prof. Félix Maria Arocena, in un inno della liturgia delle ore mozarabica, fra i vari titoli cristologici attribuiti al Signore Gesù, ne compare uno assai curioso. Nell’antico inno Te Centies, usato nei vespri del sabato nel tempo paquale prima dell’Ascensione, Cristo è chiamato Dei Pignus! Questo apre orizzonti e collegamenti davvero sorprendenti, che il prof. ha potuto solamente lasciar intravedere e che anche noi possiamo solamente accennare. L’uso di un tema normalmente usato in ambito pneumatologico riferito invece al Figlio  testimonia la ricchezza e la libertà della liturgia: sarebbe quindi Dio che nel Figlio si fa garante della vita eterna, che l’assemblea orante condivide nella speranza con il suo Capo, Cristo.

Giocando un pochino con le parole, si potrebbe dire che è questo il fondamentale e decisivo im-pegno, l’opera della salvezza di Dio! Proprio perché noi onoriamo con la letizia festiva il dono pasquale del pegno di Dio, l’offerta della vita di Cristo e la sua resurrezione, ha senso e fondamento l’impegno dell’uomo redento, che altrimenti sarebbe destinato a scontrarsi con la fiacchezza del vecchio Adamo, di fronte alla quale non c’è sforzo morale che regga, checché ne pensi Pelagio e alcuni suoi moderni seguaci.

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(1) cf. http://www.sacramentumfuturi.wordpress.com/2015/05/06/participio-passato-o-participio-presente-san-massimo-di-torino-risponderebbe-cosi-in-margine-alla-colletta-della-vi-domenica-di-pasqua .

(2) Per il lavoro di traduzione del Messale italiano, cf. L. Bianchi, Liturgia. Memoria o istruzione per l’uso, Casale Monferrato (Al) 2002.

(3) Messale Romano. Le orazioni proprie del tempo. Nuova versione con testo latino e fonti, M. F. T. Lovato (ed.), Reggio Emilia 1991, 327.

Participio passato o participio presente? San Massimo di Torino risponderebbe così. In margine alla Colletta della VI domenica di Pasqua.

Scrivere sulla preghiera Colletta della VI domenica di Pasqua può essere pericoloso: tanti e tanti sono gli spunti che potrebbe offrire questo testo, che nel Messale ci appare come un solo testo, ma che in verità è la centonizzazione di altri tre testi, molto più antichi.

Può essere interessante affrontare questo testo da un dettaglio che non è proprio minimo, nonostante possa apparire secondario. Nella traduzione italiana, c’è una sfasatura temporale, in riferimento ai giorni di letizia. Vediamo:

Fac nos, omnipotens Deus, hos laetitiae dies, quos in honorem Domini resurgentis exsequimur, affectu sedulo celebrare, ut quod recordatione percurrimus semper in opere teneamus

Nel testo del Messale italiano, i giorni di letizia sono in onore “del Cristo risorto”, mentre nell’originale latino il participio presente suggerisce meglio una certa contemporaneità. Certamente, la traduzione non avrebbe potuto essere strettamente letterale – giorni di letizia in onore di Cristo risorgente -, ma non si vede la difficoltà di un’espressione italiana come la seguente: “giorni di letizia in onore di Cristo che risorge”.

Si tratta di sfumature, e forse non vale la pena di farne una questione di stato, ma può essere comunque utile notare queste piccolezze: siamo nel tempo pasquale, e l’unità della cinquantina poteva essere evidenziata anche in tale attenzione temporale. Quel participio dovrà essere passato o presente? Al di là delle regole grammaticali o dello stile linguistico, qui vale, prima di tutto, la regola liturgica e “lo stile di Dio”: l’azione pasquale di Dio è perennemente presente, e i miracoli di Cristo non passano con il passare degli anni, figuriamoci se passano con il passare dei giorni! Su questo dovremo tornare, per oggi (!) sarà sufficiente e bello ascoltare alcuni passaggi di san Massimo di Torino, tratti da un sermone nella festa dell’Epifania, in cui il brano evangelico era la pericope delle nozze di Cana:

I miracoli di Cristo, infatti, sono tali che non passano per la distanza di anni, ma acquistano vigore per la grazia; non vengono sepolti dall’oblio, ma si rinnovano quanto a efficacia. Dinanzi alla potenza di Dio in realtà niente risulta abolito, niente risulta passato. In rapporto alla sua grandezza tutto è per lui al presente. Per lui tutto il tempo è oggi  [totum illi tempus est hodiee di conseguenza il santo profeta dice: Mille anni ai suoi occhi come un giorno solo. E se tutto il tempo di secoli è un giorno solo per il Signore, nello stesso giorno in cui il Salvatore operò meraviglie per i nostri padri le operò anche per noi. Perciò anche noi come i nostri antenati vediamo i miracoli del Signore, quando li guardiamo con stupore pari al loro. Anche noi come loro abbiamo dolcemente bevuto dalle stesse idrie: essi vi hanno attinto una coppa di vino, mentre noi ne abbiamo ricavato il calice di salvezza.

San Massimo di Torino, Sermone 102,2.

edizione: Massimo di Torino, Sermoni liturgici (Letture cristiane del primo millennio 28) (ed. M. Mariani Puerari), Milano 1999, 350; cf. CCL 23, 406