Giona: questa volta, vincono gli anglofoni.

Non ho le competenze per muovermi con maestria nel delicato ambito delle traduzioni liturgiche, anche se conosco per sentito dire e per una davvero superficiale informazione le passate tensioni fra la Congregazione per il Culto Divino e la speciale commissione per l’inglese nella liturgia (International Commission on English in the Liturgy). Tuttavia posso dire qualcosa a riguardo del lezionario della messa di oggi, mercoledì della prima settimana di quaresima.

La prima Lettura (Giona 3,1-10), nel lezionario italiano è, secondo consuetudine, introdotta con “In quel tempo”. Il testo liturgico opera tuttavia una scelta ulteriore: “In quel tempo fu rivolta a Giona questa parola del Signore..”, mentre il testo biblico reciterebbe così: “Fu rivolta a Giova una seconda volta questa parola del Signore” (Gn 3,1).

Mi trovo in territorio statunitense, ed ho ascoltato nella proclamazione liturgica queste parole: “The word of the Lord came to Jonah a second time“. Non è un particolare da poco, quello che il lezionario liturgico italiano omette. Il testo inglese, più fedele alla Sacra Scrittura, permette il richiamo al retroscena della missione di Giona, dato forse non trascurabile per una migliore comprensione della pericope odierna. Sappiamo bene come abbia inizialmente resistito, il simpatico profeta Giona: ci pare un impoverimento il non ricordarlo, mentre ne viene proclamato il finale successo apostolico.

Questa volta, l’inglese nella liturgia si esprime meglio e con più fedeltà all’originale!

Su questo blog abbiamo già scritto su Giona, cf. qui

Abstract

Qui sotto il link per gli abstracts del nostro ultimo articolo sulla rivista Ecclesia Orans. Appena possibile ne offriremo alcune pagine. I lettori assidui del blog, tuttavia, dovrebbero ormai conoscere bene mons. H. Jenny…

https://sites.google.com/a/anselmianum.com/ecclesiaorans/home/annate/Anno-XXXI-2014/indice2014-1/abstract-m-felini

La cenere: il cosmo nella liturgia….

Come occasione di approfondimento della liturgia odierna, non sarà affatto tempo perso tornare a leggere una mirabile omelia di Benedetto XVI, in cui ancora una volta viene dimostrata la sua sorprendente capacità di sintesi. Riportiamo solamente un breve brano di tale omelia, indicando poi il riferimento dove si potrà leggere integralmente; offriamo, infine, il link ad un nostro post passato.

Anzitutto, la cenere è uno di quei segni materiali che portano il cosmo all’interno della Liturgia. I principali sono evidentemente quelli dei Sacramenti: l’acqua, l’olio, il pane e il vino, che diventano vera e propria materia sacramentale, strumento attraverso cui si comunica la grazia di Cristo che giunge fino a noi. Nel caso della cenere si tratta invece di un segno non sacramentale, ma pur sempre legato alla preghiera e alla santificazione del Popolo cristiano: è prevista infatti, prima dell’imposizione individuale sul capo, una specifica benedizione delle ceneri – che faremo tra poco -, con due possibili formule. Nella prima esse sono definite «austero simbolo»; nella seconda si invoca direttamente su di esse la benedizione e si fa riferimento al testo del Libro della Genesi, che può anche accompagnare il gesto dell’imposizione: «Ricordati che sei polvere e in polvere tornerai» (cfr Gen 3,19).

Fermiamoci un momento su questo passo della Genesi….

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2012/documents/hf_ben-xvi_hom_20120222_ceneri.html

https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/03/04/un-mercoledi-che-riduce-in-cenere-tante-teorie/

“Parlava correttamente”. La “correttezza” secondo la liturgia.

“Parlava correttamente”: ecco l’effetto immediato del gesto terapeutico e della parola del Signore Gesù sull’uomo sordomuto di cui parla il brano dell’evangelista Marco, indicato per la celebrazione eucaristica di oggi, Venerdì della V settimana del Tempo Ordinario (Marco 7,31-37). Certamente gli esegeti potranno offrirci le loro considerazioni e i loro approfondimenti, ma di certo anche la liturgia ci offre un’ermeneutica assai particolare e concreta per leggere quell’avverbio ὀρθῶς, in latino recte (in alcune lingue versioni nazionali: clearly, sin difficultad, correctement, correctamente).  Senza entrare nei dettagli della storia e delle varianti dei testi e dei riti, senza dubbio possiamo affermare che la liturgia ha associato questo testo alla grazia della progressiva iniziazione ai misteri cristiani, e in particolare modo alla professione di fede pre-battesimale. Nelle testimonianze antiche questo dato non è così sottolineato: in Ambrogio, ad es., assume maggiore rilevanza il senso dell’apertio aurium, ossia la capacità di un ascolto di fede e di un’intuizione profonda dei misteri della fede – non a caso nella liturgia descritta dal santo Vescovo non si tocca la bocca del catecumeno, ma piuttosto le narici, perché possa percepire il buon odore di Cristo. Nel rituale del battesimo seguito alla riforma auspicata dal Vaticano II, invece, è evidente il legame fra il testo di Marco e la professione di fede. Che è solamente auspicata, nel caso del battesimo di un bambino: Il celebrante tocca, con il pollice, le orecchie e le labbra del battezzato, dicendo: Il Signore Gesù, che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola, e di professare la tua fede, a lode e gloria di Dio Padre (Rito del Battesimo di un bambino, 121). Nel caso, invece, di un adulto che sta per completare il cammino verso il battesimo, il rito dell’Effetà avviene il sabato santo, come preparazione immediata alla Veglia battesimale. Il contesto è quello della riconsegna del Simbolo, che era stato consegnato al catecumeno precedentemente. La formula è eloquente di per sé: Quindi il celebrante, toccando col pollice l’orecchio destro e sinistro dei singoli eletti e la loro bocca chiusa, dice: Effatà, cioè: Apriti, perché tu possa professare la tua fede a lode e gloria di Dio (Rito dell’iniziazione cristiana di un adulto, 202). La professione di fede completa quindi il rito: dopo una preghiera presidenziale, gli eletti professano pubblicamente e solennemente la loro fede: “Concedi, Signore, che questi eletti, che hanno conosciuto il tuo disegno di amore e i misteri della vita del tuo Cristo, li professino con la bocca e li custodiscano con la fede e compiano sempre nelle opere la tua volontà”. Quindi gli eletti recitano il Simbolo: è questo professione di fede pubblica, personale ed esistenzialmente vissuta e testimoniata nella vita quello che nel Vangelo è detto: “parlava correttamente”. La vera fede, questa è la correttezza!
Per finire, riportiamo il testo di uno la cui parola era davvero “corretta”, imbevuta dalla tradizione perenne e allo stesso tempo sorprendentemente fresca e viva: nell’Angelus del 9 settembre 2012, Benedetto XVI così commentava il brano di Marco (da notare la ripresa del dettaglio del sospiro di Cristo, cui il tocco delle narici dell’antica liturgia faceva riferimento):

Al centro del Vangelo di oggi (Mc 7,31-37) c’è una piccola parola, molto importante. Una parola che – nel suo senso profondo – riassume tutto il messaggio e tutta l’opera di Cristo. L’evangelista Marco la riporta nella lingua stessa di Gesù, in cui Gesù la pronunciò, così che la sentiamo ancora più viva. Questa parola è «effatà», che significa: «apriti». Vediamo il contesto in cui è collocata. Gesù stava attraversando la regione detta «Decapoli», tra il litorale di Tiro e Sidone e la Galilea; una zona dunque non giudaica. Gli portarono un uomo sordomuto, perché lo guarisse – evidentemente la fama di Gesù si era diffusa fin là. Gesù lo prese in disparte, gli toccò le orecchie e la lingua e poi, guardando verso il cielo, con un profondo sospiro disse: «Effatà», che significa appunto: «Apriti». E subito quell’uomo incominciò a udire e a parlare speditamente (cfr Mc 7,35). Ecco allora il significato storico, letterale di questa parola: quel sordomuto, grazie all’intervento di Gesù, «si aprì»; prima era chiuso, isolato, per lui era molto difficile comunicare; la guarigione fu per lui un’«apertura» agli altri e al mondo, un’apertura che, partendo dagli organi dell’udito e della parola, coinvolgeva tutta la sua persona e la sua vita: finalmente poteva comunicare e quindi relazionarsi in modo nuovo.
Ma tutti sappiamo che la chiusura dell’uomo, il suo isolamento, non dipende solo dagli organi di senso. C’è una chiusura interiore, che riguarda il nucleo profondo della persona, quello che la Bibbia chiama il «cuore». E’ questo che Gesù è venuto ad «aprire», a liberare, per renderci capaci di vivere pienamente la relazione con Dio e con gli altri. Ecco perché dicevo che questa piccola parola, «effatà – apriti», riassume in sé tutta la missione di Cristo. Egli si è fatto uomo perché l’uomo, reso interiormente sordo e muto dal peccato, diventi capace di ascoltare la voce di Dio, la voce dell’Amore che parla al suo cuore, e così impari a parlare a sua volta il linguaggio dell’amore, a comunicare con Dio e con gli altri. Per questo motivo la parola e il gesto dell’«effatà» sono stati inseriti nel Rito del Battesimo, come uno dei segni che ne spiegano il significato: il sacerdote, toccando la bocca e le orecchie del neo-battezzato dice: «Effatà», pregando che possa presto ascoltare la Parola di Dio e professare la fede. Mediante il Battesimo, la persona umana inizia, per così dire, a «respirare» lo Spirito Santo, quello che Gesù aveva invocato dal Padre con quel profondo sospiro, per guarire il sordomuto.”

“Adamo, dove sei?”: la prima chiamata di misericordia.

Già altre volte, partendo dal paradigmatico testo di Genesi 3,9, abbiamo approfondito alcuni aspetti della teologia liturgica della riconciliazione. Fra alcuni, fra più post pubblicati (1), ricordiamo i seguentI:

http://www.sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/04/07/la-domanda-del-signore-sulla-tomba-di-lazzaro-unantica-consuetudine/

http://www.sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/01/15/chi-chiama-sta-per-salvare/

Troviamo interessanti approfondimenti e somiglianze inaspettate in alcuni commentari rabbinici, raccolti e reinterpretati da D. Lifschitz nel suo studio su Genesi 3 (D. Lifschitz, L’inizio della storia. Il peccato orginale, prefazione di I. De la Potterie, Roma 1993). Da lì riprendiamo alcuni passaggi a commento di quel “Dove sei?” (cf. pp. 91-96, passim):

Ralbag: La conversazione di Dio ci insegna che prima che un giudice condanni qualcuno deve innanzitutto interrogare personalmente il colpevole per accertarsi se possiede degli argomenti in sua difesa. Dio, dunque, sebbene fosse pienamente a conoscenza dell’accaduto, non li punì prima di averli ascoltati, dando loro così la possibilità di difendersi.

Rashi: Sapeva dov’era, ma lo chiamò per cominciare con lui una conversazione, così che Adamo non dovesse rispondere all’improvviso e pieno di confusione, come sarebbe stato se avesse decretato la punizione tutta in solo volta.

Ralash: Aiekhah – dove sei, non è una semplice domanda, ma esprime la sorpresa di trovare Adamo là dove non dovrebbe trovarsi.

Qol HaTorah: la parola Aiekhah – dove sei? che ha anche il significato Ahimè! Come mai! esprime il sospiro e il lutto. Il fatto che Dio sia stato costretto a chiedere all’uomo “Dove sei? Perché ti nascondi? Che hai commesso?” Implica già un motivo di grande afflizione: “Come mai non sei più lo stesso di prima?” (2). Sebbene Dio non ignorava dove Adamo si trovasse, la sua domanda non era puramente retorica. Si tratta della domanda eterna, posta da Dio ad ogni uomo: “Dove sei tu oggi nella tua vita?”.

Hertz: “Dove sei?” è il grido che risuona dopo ogni peccato, nelle orecchie dell’uomo che cerca di ingannare se stesso e gli altri a proposito del suo peccato.

Yedi: Ogni peccatore si nasconde da Dio. Anche se non è cosciente di nascondersi fisicamente, si nasconde dietro la siepe dell’automistificazione e dell’autoinganno. Ogni uomo ha questa tendenza. Perciò la Parola di Dio, attraverso questo episodio, ci dà un rimedio. Dio chiama: “Dove sei?”, il che significa: “Apriti a me, abbatti le barricate di autogiustificazione e di inganno di te stesso, dietro le quali cerchi di nasconderti da me”. Per questo la confessione dei peccati è così importante (3).

“Adamo, dove sei?” – La prima chiamata di misericordia

Chiamare qualcuno con il proprio nome è un evidente segno d’amore. La chiamata è una parola, il cui contenuto è destinato in modo particolare ad una persona che si sceglie e con cui si instaura una relazione personale ed unica, prima di tutto perché la si ama e la si stima, e in secondo luogo, perché si spera che accetterà la chiamata che le si vuole affidare. Si tratta qui della prima chiamata di misericordia che troviamo nella Scrittura. E non a caso. Si potrebbe pensare che il peccato abbia allontanato l’uomo da Dio. Questo è vero per l’uomo e le sue relazioni con Dio. Paura, nascondimento e accusa sono segni evidenti. Non è così per Dio. Paradossalmente il peccato arricchisce l’amore che Dio ha per l’uomo di una connotazione nuova che prima non aveva: la tenerezza della misericordia. Infatti, è solo dopo il peccato che avviene la chiamata personale: “Adamo, dove sei?” […] Non si tratta certamente di andare in cerca del peccato, per attirare l’attenzione di Dio, perché il peccato è già presente in ogni uomo, anche se il moralismo, la buona educazione e la religiosità naturale, che dall’infanzia insegnano all’uomo come mascherarsi, lo hanno coperto….Dio al contrario instaura con ogni uomo un rapporto d’amore proprio partendo dal suo peccato. Quello che invece impedisce questo rapporto con Dio non è il peccato di per sé, ma il ‘superpeccato’. Cioè il sentirsi giusto e buono, o senz’altro migliore degli altri, ‘perché io non ho mai fatto male a nessuno’. L’unica medicina per guarire da questa cecità profonda è il Vangelo, la predicazione di Cristo. Essa mette davanti all’uomo, in primo piano, non un valore morale da imitare, non delle azioni buone da compiere o presunte purezze da conservare, ma il liberatore e salvatore Gesù Cristo, crocifisso e risorto. Bisogna annunciare un uomo nuovo, non un rattoppo. Solo così, guardando all’amore per il nemico, totale e gratuito, che unicamente Cristo ha e può donare, gli uomini possono riconoscersi peccatori. Solo in lui la colpa diventa felice colpa. Non a caso l’ultimo uomo con cui Cristo ha parlato fu un assassino e fu il primo ad entrare nel regno: Oggi sarai con me nel Paradiso. La Scrittura è paradigmatica.

Ahimè! Dove sei?

Il termine Eikhah – Ahimè! Come mai! è la prima parola delle Lamentazioni di Geremia. Davanti alla distruzione del tempio, la devastazione di Gerusalemme, la Giudea occupata, il profeta si chiede come mai questa catastrofe nazionale e religiosa sia potuta accadere. Come mai si è potuto ridurre così la città santa? Esiste un’analogia tra l’esilio di Adamo dal paradiso e l’esilio d’Israele da Gerusalemme. In ebraico le parole dove sei – aiekah? e come mai! – eikah! si scrivono con le stesse lettere. Dio interpella Adamo, l’uomo, esclamando: “Come mai! Tu che eri destinato alla felicità sei diventato così? …Questo aiekah è tragico e allo stesso tempo pieno di speranza. Simultaneamente con l’esilio e le sofferenze si sviluppa nell’uomo un grido, un desiderio e nel cuore, attraverso il pentimento, nasce la gioia della conversione.

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(2) Agostino: La prima morte fu per Adamo l’allontanamento di Dio. Quando Dio gli disse: “Adamo, dove sei?”, queste parole gli diedero la consapevolezza di trovarsi là dove Dio non c’era più. Reperto di Deutz: e’ giusto che si dica così ad Adamo, poiché in realtà si è mosso, e non è al suo posto: il posto dell’uomo è Dio. […] E a ciò tendeva la benignità di Colui che lo cercava: che chi era cercato trovasse se stesso, e si rendesse conto di che cosa aveva perduto.

(3) La confessione dei peccati, che nell’ebraismo non è sacramentale, è però un elemento essenziale della liturgia sinagoga e della preghiera individuale. Abecassis: Dove sei? E’ una delle domande importanti alla quale risponde l’istituzione rabbica delle tre preghiere quotidiane: la preghiera del mattino…, la preghiera del mezzogiorno…, e la preghiera della sera. E’ attraverso questo rito che l’uomo è aiutato a situarsi continuamente nel mondo e a ridimensionarsi. Pregare non è solo chiedere, ma è diventare cosciente, lasciarsi giudicare e scrutare (come indica l’etimologia della parola Tefilah – preghiera), è situarsi davanti a un modello. La preghiera è la risposta dell’uomo alla domanda fondamentale di Dio: “Dove sei?”. Eisemberg: Effettivamente, l’originalità della preghiera ebraica è che non è una semplice preghiera. Certo, alcuni elementi della liturgia quotidiana appartengono all’ordine delle preghiere o delle richieste… Ma il termine generale usato per la preghiera – Tefilah, ha una radice totalmente diversa che significa giudizio e confrontazione. Tre volte al giorno il credente viene giudicato confrontandosi con un tribunale di accoglienza, che è l’edificio spirituale dell’Ufficio…Pregare significa chiedere a se stesso: “Dove sono?”.

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(1) cf. https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/09/23/la-parola-della-riconciliazione-2/ ; https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/09/24/la-parola-della-riconciliazione-3/.

Autobus e liturgia, associazioni improbabili…

fuori servizio

Per varie ragioni il nostro viaggio verso Cambrai [cf. https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2015/01/29/parleranno-le-pietre-e-anche-le-carte-mons-jenny-il-vaticano-ii-e-la-liturgia/], la sede episcopale di mons. Jenny, è passato per Bruxelles. Mentre si attendeva una coincidenza, si notava nel display di un autobus la scritta “Geen dienst” (fuori servizio), che si alternava con la scritta “Hors service” [Per inciso, pochi sanno del bilinguismo esasperato che vige nella città in cui si concentra l’apparato burocratico della Commissione Europea: Bruxelles è un’isola a parte nella divisione regionale del Belgio (Vallonia e Fiandre) ma non è raro che nei sobborghi della Capitale, francofoni e fiamminghi simulino di non capirsi, e ancor di più questo capita con gli stranieri: in una zona fiamminga, guai se ci si presentasse in un ufficio pubblico parlando francese! e viceversa! Ma la Commissione Europea, talvolta così solerte nel segnalare irregolarità e violazioni, in questo caso tace…]. Tornando a noi, quella scritta ci suggeriva alcune associazioni di idee. Pur non conoscendo bene il fiammingo, era facilmente intuibile il senso, anche grazie alla somiglianza con il tedesco. “Dienst” dovrebbe essere una parola familiare per un liturgista: “Gottesdienst” è uno dei termini usati per la Liturgia, simile al latino Opus Dei.

Per una persona di lingua tedesca, olandese o fiamminga forse sarà scontato ritrovare il termine Dienst, usato nel comporre la parola Gottesdienst, in diversi e più disparati ambiti, ma l’effetto può essere diverso per noi. Ci si ripropone ancora una volta il dato che originariamente  il termine greco leitourgia non aveva assolutamente un significato specificamente e tecnicamente cultuale quanto piuttosto un senso del tutto profano e generico.

Quanto farebbe bene ricordarlo, per bilanciare la deriva esageratamente “cultuale” e “rubricale” che si registra in alcune comprensione della liturgia! Ci viene in aiuto Pio XII, che nel 1947 scriveva: “Non hanno, perciò, una esatta nozione della sacra Liturgia coloro i quali la ritengono come una parte soltanto esterna e sensibile del culto divino o come un cerimoniale decorativo; né sbagliano meno coloro, i quali la considerano come una mera somma di leggi e di precetti con i quali la Gerarchia ecclesiastica ordina il compimento dei riti” (Lett. enc. Mediator Dei, 25).

Occorre poi fare attenzione a quel termine: è certamente vero che Gottesdienst, servizio di Dio, può essere inteso come genitivo oggettivo, servizio reso a Dio, culto prestato a Dio, ma ancor più, e in modo teologicamente più rilevante, possiamo intenderlo come genitivo soggettivo: è Dio che viene incontro all’uomo, che lo salva e redime: è Lui il protagonista, il “servitore” e Lui, in Cristo, che non venne per essere servito ma per servire. E’ necessario tenere bene bilanciati questi due significati.

Infine, segnaliamo che anche questo blog, se non del tutto Geen Dienst, se non proprio fuori servizio, sarà a “mezzo servizio” per un paio di settimane, non avendo materialmente tempo per comporre post per lo meno accettabili con frequenza maggiore. Se qualche lettore del blog volesse proporre qualche suo contributo, se rispecchiasse l’intenzione originale del nostro spazio telematico, saremmo ben contenti di pubblicarlo: per questo non si esiti a contattare dtmarcofelini@gmail.com

12 novembre 1960, alcune immagini

Oltre ai testi ufficiali ed ufficiosi, oltre alle note personali di alcuni dei partecipanti, possiamo mostrare anche alcune immagini della prima sessione plenaria della Commissione liturgica preparatoria.

Di quell’incontro, decisivo per la storia redazionale della Costituzione liturgica, ma ancor più per la teologia liturgica da allora in avanti, ne avevamo già parlato qui: https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2013/09/11/12-novembre-1960-quellultimo-intervento-che-cambio-tutto/.

Alcune fotografie ne rendono più viva la memoria.

I padri della Commissione liturgica preparatoria De Liturgia. In posizione centrale si nota il card. Gaetano Cicognani, presidente. Alla sua sinistra, padre A. Bugnini (nella foto, a destra)

I padri della Commissione liturgica preparatoria De Liturgia. In posizione centrale si nota il card. Gaetano Cicognani, presidente. Alla sua sinistra, padre A. Bugnini (nella foto, a destra)

Il Card. Cicognani, affiancato da Bugnini, saluta mons. J. Malula, vescovo ausiliare di Leopoldville (Congo) (nella foto di spalle). Sulla destra nella foto, si nota mons. Henri Jenny.

Il Card. Cicognani, affiancato da Bugnini, saluta mons. J. Malula, vescovo ausiliare di Leopoldville (Congo) (nella foto di spalle). Sulla destra nella foto, si nota mons. Henri Jenny.