Ne nos ira arguas: questo stico dell’inno Auctor perennis gloriae, al riguardo del quale abbiamo detto qualcosa nel post precedente, è evidentemente ispirato al primo versetto del salmo 37: Domine, ne in furore tuo arguas me. Commentando questo salmo, parlando della penitenza, Ambrogio riesce a tenere insieme in modo mirabile aspetti che a prima vista sono per noi inconciliabili: punizione e perdono, correzione e indulgenza. Al santo Vescovo torna utile rileggere il salmo associandolo all’episodio della vita di Davide, in cui il re d’Israele cede alla tentazione di censire il suo popolo e dovrà poi scegliere da se stesso quale punizione subire, se tre anni di carestia, tre anni di fuga dai nemici o tre giorni di peste fra il popolo (1Cr 21). Riportiamo alcuni passaggi del lungo commento santambrosiano:
O Signore, nella tua ira non rimproverarmi e non castigarmi nel tuo sdegno! Chi fa penitenza, deve essere pronto a sopportare vergogne e a sottoporsi ad oltraggi, senza turbarsi se gli vien rinfacciata la colpa del suo peccato. Se deve accusarsi da sé, perché non potrà sopportare il rimprovero altrui? E se non deve aver paura del rimprovero degli uomini, quanto meno di quello del Signore suo, verso cui tutti siamo peccatori, anche se nessuno può vederci! Soprattutto perché la condanna del presente è assoluzione per il futuro. […] Osserva come fa Dio ad insegnare; con che misura si va placando il suo sdegno, a patto che noi non rifiutiamo d’essere battuti interiormente e chiediamo piuttosto il modo di alleviare la punizione, e non di evitarla. […] Giova moltissimo al colpevole un’umile ammissione di colpe; con l’umiltà noi alleggeriamo una punizione che nessuna difesa può farci evitare. Davide ha scelto non la pena immune da colpi, ma che quella che ha ritenuta meno eccessiva: così ha preferito affidarsi alla clemenza di Dio, che sa perdonare, piuttosto che al potere degli uomini, che spesso varcano la misura del castigo. […] E la fiducia di Davide non fu mal riposta, anzi, perfino nel momento della punizione, egli ha ottenuto la grazia della misericordia divina. […] Nota poi la grazia del Signore! E’ stato lui a recedere dalla proposta che aveva fatta. E’ forse una colpa essere misericordiosi ed esigere meno di quanto si minaccia? Egli mantiene le sue promesse, quando deve gratificare, ma si rimangia il contratto, quando deve punire. Quando si adira, rinvia il processo; quando ha compassione, si affretta ad assolvere. Spaventa per correggere; riprende per migliorare; previene per perdonare. […] Il profeta (Davide) quindi riconosce la sua colpevolezza, vede la sua piaga, chiede di essere curato. Chi vuol essere sanato, non ha paura del rimprovero, solo non vuole essere rimproverato nello sdegno, bensì nella parola di Dio. La parola di Dio è salute (Qui sanari vult, argui non reformidat, sed non vult argui in furore, sed in verbo Dei. Verbum Dei sanitas est). […] “E noi, che siamo in questo corpo di morte, preghiamo che non ci abbandoni quel buono, amato da Dio, nostro medico, che il patriarca Davide pregava che non si allontanasse da lui. A lui affidiamoci, pronti ad essere curati come lui vuole! Nessuno dice al proprio medico come debba curarlo. Sa bene il medico quali cure siano adatte a ciascuna piaga, quale sia la cancrena da amputare, perché il contagio non si diffonda per tutto il corpo. Se poi il medico si è pronunciato sul tipo di cura a cui deve sottostare il paziente e questi invece la rifiuta, il medico se ne va e abbandona il malato. Osserva dunque che, chi vuol essere curato, accetta qualsiasi prescrizione del medico, e fa attenzione allo svolgimento! Per prima cosa il malato fa vedere al medico le proprie ferite e gli dice: ‘Curami! Ma, ti prego, senza foga, perché la mia debolezza non può sopportare una cura troppo energica!’. La medicina di Cristo è il rimprovero; il Signore infatti rimprovera chi vuole convertire (Medicina Christi correptio est; corripit enim Dominus quem vult convertere). Perciò anche Paolo dice al medico: Critica, scongiura, biasima. Non rifiuta la cura che chiede di essere criticato; vuole però che la punizione sia più lieve, cioè non vuole essere criticato con durezza od essere rimproverato in un eccesso d’ira. E nota la successione dei fatti! Per prima cosa chiede di essere criticato; successivamente di essere rimproverato, che è più forte! Infine, non solo confessa i propri peccati, ma anche li elenca e se ne incolpa: non vuole che le proprie colpe restino nascoste. Come le infiammazioni, che non possono essere lenite quando sono interne, ma fanno intravedere la possibilità di guarigione quando scoppiano all’esterno, così anche il male dei peccatori: finché resta nascosto, brucia; ma svapora, se vien portato allo scoperto dalla confessione. E per questo che il giusto, quando prende parola, è il primo ad accusare se stesso, prima che il contagio si diffonda all’interno. Il ricordo dei peccati infatti opprime la coscienza, se non si chiede la medicina. E se il medico indugia, è il malato che deve offrirsi all’amputazione immediata, come Davide si offriva ai colpi di frusta del Signore, dicendo: ‘Rendimi il doppio rispetto ai miei peccati; basta che mi liberi quaggiù; non abbandonarmi, non distogliere da me la tua faccia, non disprezzare né avere ribrezzo del fetore delle mie ferite! Anche il tuo povero servo Giobbe era coperto di piaghe da capo a piedi, eppure ha trovato il rimedio per la guarigione, anche se le sue ferite virtuose e queste invece peccaminose. Mandavano fetore le ferite, così che i medici non potevano curarle. Ma tu Signore, hai parlato delle mistiche realtà dei tuoi sacramenti (Locutus es, Domine, mysteria sacramentorum tuorum); hai portato alla luce il veleno del serpente e con l’unica medicina della tua parola (solius sermonis tui medicamento) sono state curate le ferite del tuo servo, poiché tu non lo hai abbandonato: Non abbandonare nemmeno me, o Signore; non allontanarti da me! Mi hanno abbandonato gli uomini, poiché fanno loro schifo le mie piaghe, che io ho ritenuto di dover dischiudere di fronte alla tua misericordia (quae pietati tuae putavi esse reseranda). Quelli dicono: ‘Va’ fuori dai piedi, perché sei un peccatore! Allontanati, che ci insozzi’. Ma tu, o Signore, mi curi e non ti insozzi, mi aiuti e non ti contamini, perché sei il Dio della salvezza, o Signore, e la tua mano è avvezza a guarire, non ad uccidere (Tu autem, Domine, curas et non pollueris, adiuvas et non contaminarsi, quia Deus salutis es, Domine, et manus tua non perdere, sed sanare consuevit)” (1).
E’ una divina pedagogia: il peccatore che guarirà non chiede che non gli sia detta la verità, blandendolo nei suoi vizi, quanto che non gli venga a mancare l’unica Parola che può sanare proprio mentre accusa: ‘Chi vuol essere sanato, non ha paura del rimprovero, solo non vuole essere rimproverato nello sdegno, bensì nella parola di Dio. La parola di Dio è salute’.
Né servirà, quindi, illudersi che proclamando ai quattro venti una banale misericordia si otterrà più facilmente la conversione e la vita santa dei fedeli. Se, a proposito della misericordia, c’è una qualificazione, nel commento di Ambrogio essa non è la facilità, ma la rapidità: riferendosi all’episodio del buon ladrone, il santo commenta: ‘Quello stava ancora pregando che si ricordasse di lui, quando fosse arrivato nel regno, e il Signore già gli concedeva il regno dei cieli! Che misericordia rapida! E’ più lenta la richiesta di chi prega che la concessione della ricompensa (Quam velox misericordia! Tardius votum precantis quam remunerantis est premium)’.
Per finire, alcuni passaggi dell’allora cardinale Ratzinger, che – come sempre – sono di una sorprendente attualità.
La Chiesa non è una comunità di coloro che “non hanno bisogno del medico”, bensì una comunità di peccatori convertiti, che vivono della grazia del perdono, trasmettendola a loro volta ad altri. Se leggiamo con attenzione il Nuovo Testamento, scopriamo che il perdono non ha in sé niente di magico; esso però non è nemmeno un far finta di dimenticare, non è “un fare come se non”, ma invece un processo di cambiamento del tutto reale, quale lo Scultore lo compie.
Il toglier via la colpa rimuove davvero qualcosa; l’avvento del perdono in noi si mostra nel sopraggiungere della penitenza. Il perdono è in tal senso un processo attivo e passivo: la potente parola creatrice di Dio su di noi opera il dolore del cambiamento e diventa così un attivo trasformarsi. Perdono e penitenza, grazia e propria personale conversione non sono in contraddizione, ma sono invece due facce dell’unico e medesimo evento. Questa fusione di attività e passività esprime la forma essenziale dell’esistenza umana. Infatti tutto il nostro creare comincia con l’essere creati, con il nostro partecipare all’attività creatrice di Dio.
Qui siamo giunti ad un punto veramente centrale: credo infatti che il nucleo della crisi spirituale del nostro tempo abbia le sue radici nell’oscurarsi della grazia del perdono.
Notiamo però dapprima l’aspetto positivo del presente: la dimensione morale comincia nuovamente a poco a poco a venir tenuta in onore. Si riconosce, anzi è divenuto evidente, che ogni progresso tecnico è discutibile e ultimamente distruttivo, se ad esso non corrisponde una crescita morale. Si riconosce che non c’è riforma dell’uomo e dell’umanità senza un rinnovamento morale. Ma l’invocazione di moralità rimane alla fine senza energia, poiché i parametri si nascondono in una fitta nebbia di discussioni. In effetti l’uomo non può sopportare la pura e semplice morale, non può vivere di essa: essa diviene per lui una “legge”, che provoca il desiderio di contraddirla e genera il peccato.
Perciò là dove il perdono, il vero perdono pieno di efficacia, non viene riconosciuto o non vi si crede, la morale deve venir tratteggiata in modo tale che le condizioni del peccare per il singolo uomo non possano mai propriamente verificarsi.
A grandi linee si può dire che l’odierna discussione morale tende a liberare gli uomini dalla colpa, facendo sì che non subentrino mai le condizioni della sua possibilità. Viene in mente la mordace frase di Pascal: “Ecce patres, qui tollunt peccata mundi!”. Ecco i padri, che tolgono i peccati del mondo. Secondo questi “moralisti”, non c’è semplicemente più alcuna colpa. Naturalmente, tuttavia, questa maniera di liberare il mondo dalla colpa è troppo a buon mercato. Dentro di loro, gli uomini così liberati sanno assai bene che tutto questo non è vero, che il peccato c’è, che essi stessi sono peccatori e che deve pur esserci una maniera effettiva di superare il peccato. Anche Gesù stesso non chiama infatti coloro che si sono già liberati da sé e che perciò – come essi ritengono – non hanno bisogno di Lui, ma chiama invece coloro che si sanno peccatori e che perciò hanno bisogno di Lui.
La morale conserva la sua serietà solamente se c’è il perdono, un perdono reale, efficace; altrimenti essa ricade nel puro e vuoto condizionale. Ma il vero perdono c’è solo se c’è il “prezzo d’acquisto”, l'”equivalente nello scambio”, se la colpa è stata espiata, se esiste l’espiazione.
La circolarità che esiste tra “morale – perdono -espiazione” non può essere spezzata; se manca un elemento cade anche tutto il resto. Dall’indivisa esistenza di questo circolo dipende se per l’uomo c’è redenzione oppure no. Nella Torah, nei cinque libri di Mosé, questi tre elementi sono indivisibilmente annodati l’uno all’altro e non è possibile perciò da questo centro compatto appartenente al Canone dell’Antico Testamento scorporare, alla maniera illuminista, una legge morale sempre valida, abbandonando tutto il resto alla storia passata. Questa modalità moralistica di attualizzazione dell’Antico Testamento finisce necessariamente in un fallimento; in questo punto preciso stava già l’errore di Pelagio, il quale ha oggi molti più seguaci di quanto non sembri a prima vista. Gesù ha invece adempiuto a tutta la Legge, non solamente ad una parte di essa e così l’ha rinnovata dalla base. Egli stesso, che ha patito espiando ogni colpa, è espiazione e perdono contemporaneamente, e perciò è anche l’unica sicura e sempre valida base della nostra morale.
Non si può disgiungere la morale dalla cristologia, poiché non la si può separare dall’espiazione e dal perdono. In Cristo tutta quanta la Legge è adempiuta, e quindi la morale è diventata una vera, adempibile esigenza rivolta nei nostri confronti. A partire dal nucleo della fede, si apre così sempre di nuovo la via del rinnovamento per il singolo, per la Chiesa nel suo insieme e per l’umanità (2).
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(1) Sant’Ambrogio, Commento al salmo XXXVII, passim: Opera Omnia di Sant’Ambrogio, 7, Commento a dodici salmi /1, Roma – Milano 1980, 254-327.
(2) J. Ratzinger, Una compagnia sempre riformanda, Conferenza a conclusione dell’XI edizione del Meeting per l’amicizia dei popoli, Rimini, 25- agosto-1 settembre 1990; si può vedere il video della conferenza qui: https://www.youtube.com/watch?v=DAfBfpOSIok
Un altro testo sul medesimo tema da san Pier Crisologo:
http://dimorare-in-dio.over-blog.it/2014/05/ilpadremisericordioso
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Molto bello, grazie!
“Vedete come la forza dell’amore non si accorge dei delitti; il padre non conosce una misericordia lenta..”
Se per Ambrogio la misericordia di Dio è “veloce”, per san Pier Crisolo, essa non è lenta!!
Grazie per il contributo,
m.f.
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