Grazie ad un interessante articolo del prof. M. Augé, con il cui gentile consenso offriamo in nostra traduzione italiana un “assaggio” del quinto paragrafo, scopriamo un sorprendente testo di J. Ratzinger, che magari pubblicheremo poi.
Per ora, ecco l’inizio del testo di Augé, che con poche parole sintetizza una questione assai dibattuta ultimamente. Non si può nemmeno introdurre la tematica e le problematiche connesse: ma vale la pena comunque tenere alcuni punti fermi, anche perché non è infrequente leggere ed ascoltare, sul tema, parecchi rilievi esagerati e dettagli resi quasi assoluti.
M. Augé, “A cincuenta años de ‘Sacrosanctum Concilium’ con una mirada al futuro de la reforma liturgica”, Phase 320 (2014).
§ 5. Un futuro con mayor atención a la sacralidad propia de la liturgia
I momenti di silenzio e l’uso della lingua latina sono due elementi che, fra molti altri, talvolta vengono proposti come mezzi che possano offrire una percezione di maggiore sacralità nella celebrazione liturgica. E’ questo uno dei temi più dibattuti della riforma liturgica, sulla quale viene fatta pesare l’accusa di aver contribuito, con la sua opera di semplificazione e razionalizzazione dei riti, alla progressiva perdita del senso del sacro proprio della liturgia. Non è facile precisare cosa si intenda per sacralità, dato che un tratto caratteristico e costituivo dell’esperienza del sacro è per l’appunto l’ambiguità.
Nel dibattito intorno al senso del sacro, è stata enfatizzata la concezione rituale-misterica che esprime la forma straordinaria del rito romano. Di certo, questa forma possiede una ricca ritualità, tuttavia è una ritualità operata praticamente solo dal celebrante: segni di croce, inchini, genuflessioni, baci rituali, ecc. E’ pur vero che la forma ordinaria si presenta con una ritualità semplice, quasi elementare, della quale, però, è protagonista l’intera assemblea. D’altra parte, è evidente la lontananza del modello rituale tridentino rispetto alla cultura attuale e alla liturgia dei primi secoli, per cui si tratta di una ritualità che non tiene conto di due principi che sono alla base del rinnovamento conciliare: il ressourcement e l’adattamento alle “necessità del nostro tempo” (SC 1.4).
Quando nella liturgia si parla di senso del sacro, si parla del mistero che si celebra. In questo ambito occorre evitare due rischi: da una parte l’esoterismo, che degenera nella magia, cioè la tendenza a ritenere che quanto meno si comprende ciò che viene detto e fatto, tanto più si tocca l’ambito del mistero; dall’altra parte, la pretesa di creare una performance celebrativa perfettamente comprensibile e vicina alla sensibilità popolare. Il professor Joseph Ratzinger, nel suo intervento al Katholikentag celebrato a Bamberg nel luglio 1966, affermava: La liturgia non ha il senso di riempirci, in un clima di tremore e presentimenti, con la sensazione del santo, ma di confrontarci con la spada tagliente della parola di Dio (1).
Il senso del sacro non dipende dalla lingua in cui si celebra né dai riti più o meno sontuosi. Dipende dalla capacità di fare trasparente la presenza e l’azione di Cristo.(169-170)
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(1) Nell’articolo il testo di Ratzinger è citato, tradotto in spagnolo, avendo come riferimento la versione francese apparsa su La Documentation catholique hors-série 1 (2005) 7. Il testo di quella conferenza è apparso in italiano nel volume che raccoglie vari saggi dell’allora teologo tedesco: J. Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche, Brescia 1992, 327-347. Piuttosto di proporre una traduzione, a questo punto frutto di passaggi in più lingue (tedesco, francese, spagnolo, italiano), abbiamo preferito riportare la traduzione direttamente dal tedesco all’italiano proposta dal volume suddetto, anche se non sembra del tutto vicina allo spagnolo dell’articolo di Augé.
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