La fine del catecumenato “sociale”

La fine del catecumenato “sociale”.

Presa di coscienza della realtà e istanze di riforma da un insospettabile osservatorio preconciliare.

Si è già accennato brevemente al periodo cosiddetto “antepraeparatorio” del Vaticano II, ossia alla consultazione previa e, novità, assolutamente libera da schemi, che precedette la fase di preparazione e redazione degli schemi da discutere poi nell’aula conciliare (cf. https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/04/26/giovanni-xxiii-e-la-futura-sacrosanctum-concilium-una-decisione-marginale-ma-decisiva/ ). La mole della documentazione è enorme e probabilmente la lingua latina è un ostacolo. Tuttavia sarebbe un vero peccato se le risposte e le osservazioni giunte a Roma da tutto il mondo venissero dimenticate e trascurate: più di tanti discorsi e analisi teoriche, valgono le considerazioni dei futuri protagonisti del Concilio. In esse traspaiono le attese dell’episcopato mondiale, insieme ai timori e alle preoccupazioni; si intravedono le resistenze e le diverse reazioni; si viene a contatto con la sensibilità del tempo e ci si rende conto della ricchezza e della molteplicità delle istanze ecclesiali.
Davvero non mancano le sorprese, come pure si riscontra la registrazione di difficoltà e di sfide nuove di cui si cominciava ad essere consapevoli. La lettura, anche veloce, di tale documentazione permette, inoltre, di riequilibrare una tesi che sembra insinuarsi sempre più, che in sostanza tende a minimizzare la necessità della riforma, quasi che il rinnovamento conciliare fosse stato il colpo di mano di pochi estremisti, stufi e insofferenti di una situazione che, invece, appariva tranquilla e per nulla problematica (vi è chi sogna un ritorno ad un’assai idealizzata situazione preconciliare, come se le difficoltà attuali siano tutte da attribuire al Vaticano II e non, anche, a fenomeni e dinamiche ad esso ben precedenti). Dai documenti della fase antipreparatoria, al contrario, emerge la consapevolezza di un necessario cambiamento.
Offriamo un piccolo esempio, tratto dal terzo ambito di consultazione voluto da Giovanni XXIII: oltre, naturalmente, ai Vescovi e ai Dicasteri della Curia romana, vennero chiesti pareri sulle tematiche da discutere al prossimo Concilio anche al mondo accademico cattolico, nelle sue diverse Università pontificie.
Nel contributo proposto dalla Facoltà di Teologia dell’Università Gregoriana di Roma, abbiamo trovato un passaggio assai interessante. Premettiamo che in quegli anni l’Università dei Gesuiti non era davvero un’istanza sbilanciata in nuove aperture o sperimentazioni. Eppure, nel testo che proponiamo in nostra traduzione dal latino, non si può fare a meno di registrare la necessità di una rinnovata risposta ad un dato di fatto tristemente riconosciuto.

 Fino ad ora, l’istruzione religiosa, sia nella forma elementare del catechismo, sia nella forma meno elementare, come nelle scuole medie e superiori suole essere trasmessa, poteva contare sulla condizione morale e della famiglia e della società: la qual cosa, a ragione, era denominata “catecumenato sociale”. Oggi questo non può più quasi essere tenuto in conto. Spesso, infatti, la famiglia o non è cristiana o non vive in modo cristiano, e la società, con la sua molteplice modalità di formare l’opinione pubblica (la stampa, il cinema, la radio e la televisione) è divenuta un ostacolo alla conservazione della fede. Perciò non è sufficiente trasmettere la dottrina, ma allo stesso tempo è necessario che l’istruzione religiosa penetri in tal modo nelle anime dei fedeli, che essi possano vivere cristianamente, anche se lo ostacoli la forma, pagana, di vivere dei più. Per raggiungere questo scopo sembra necessario che la predicazione, considerata generalmente, non attardandosi su aspetti che nel cristianesimo sono secondari e marginali, si sforzi di annunciare il Vangelo nella sua essenzialità, che è la chiamata dell’uomo a partecipare alla vita divina in Cristo Redentore, vivente nella Chiesa. Conseguentemente la predicazione sia essenzialmente cristocentrica, biblica e liturgica, come la stessa storia della salvezza, salvezza di cui la predicazione è una via.
La medesima esigenza deve essere estesa alla catechesi e all’istruzione religiosa nelle scuole. Il catechismo, come oggi è insegnato in alcune diocesi, è quasi un compendio di teologia, fatto di formule esatte ma di difficile comprensione, senza unità e connessione organica con tutto l’insieme della vita cristiana, con la Scrittura e con la Liturgia.

Cf. Acta et Documenta Concilio Oecumenico Vaticano II apparando, Series I (Antepraeparatoria), Volumen IV, Studia et Vota Universitatum et Facultatum Ecclesiasticarum et Catholicarum, Pars I, Universitates et Facultates in Urbe, 1, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1961, 29-30.

Omelia e mistagogia: un binomio tutto da riscoprire, insieme ad un Maestro.

Più volte abbiamo evidenziato come Benedetto XVI, nella sua predicazione, si lasciasse ispirare non solo dai testi biblici proclamati nelle particolari celebrazioni ma anche da tutto il contesto dell’azione liturgica: altri testi (antifone, preghiere, etc.) come pure gli stessi segmenti rituali (gesti e simboli). I suoi interventi omiletici non erano isolati e astratti dall’intera azione celebrativa, ma riuscivano spesso ad agganciare in modo mirabile l’insegnamento astratto, anche quello catechetico e morale, alla liturgia in atto.
Un aspetto, questo, assai apprezzabile ed esemplare; eppure non del tutto compreso e apprezzato. E’ ben più facile mettere insieme qualche elemento di esegesi a considerazioni morali edificanti, piuttosto che lasciare che sia la liturgia stessa (Parola e rito) ad informare la predicazione. C’è un metodo da acquisire, uno spirito di cui essere intrisi e una cultura liturgica da cui essere abbeverati.
Per questo paiono assai appropriate le considerazioni sulle Omelie di inizio Pontificato che abbiamo trovato nel Volume curato dall’Ufficio delle Celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice sull’Inizio del ministero petrino del Vescovo di Roma Benedetto XVI, che riproduciamo parzialmente qui sotto.

Nelle omelie che Benedetto XVI ha tenuto nella celebrazione eucaristica di inizio pontificato, il 24 aprile 2005, e in quella celebrata il7 maggio successivo nella Basilica di San Giovanni in Laterano per l’insediamento sulla Cattedra del Vescovo di Roma, ci viene offerto un metodo di predicazione omiletica radicato nella tradizione e forse oggi un po’ trascurato: si tratta del metodo mistagogico. L’omelia mistagogia ha lo scopo di aiutare a vivere la celebrazione liturgica come comunione e partecipazione alla salvezza avvenuta nella storia una sola volta in Cristo. E’ aderente alla Parola proclamata non malgrado il rito celebrato, ma proprio a causa di questo. La mistagogia infatti è prima di tutto il compimento di un’azione sacramentale, perché è il sacramento in quanto celebrato a istituire il rapporto tra l’assemblea e il Mistero stesso di Dio. Il carattere singolare delle omelie mistagogiche è dato da una reciproca interazione: da un lato in esse si fa riferimento alla Scrittura perché è questa che illumina il senso e la risorsa dell’azione sacramentale, dall’altro però l’attenzione è rivolta a quello che accade nella celebrazione perché è in essa che si attua in modo eminente la verità e la potenza della Scrittura. La domanda di partenza del mistagogo è questa: che cosa accade per noi nell’atto liturgico che stiamo compiendo? Questo metodo è particolarmente evidente nell’esperienza dei primi secoli della Chiesa, quando i padri applicavano alla liturgia la tipologia biblica, in modo da far emergere come e prché la celebrazione liturgica partecipi alla salvezza narrata.
Un’omelia mistagogica riesce cosi a rivelare che l’evento di salvezza proclamato nelle letture del giorno non rimane racchiuso nel passato, ma si attua nel presente in forza della stessa celebrazione liturgica. Si capisce allora l’importanza di prendere come punto di partenza dell’omelia le azioni della celebrazione che si sta compiendo. Il Papa, nelle due omelie tenute in occasione delle celebrazioni con le quali ha dato inizio al suo ministero pastorale al servizio della Chiesa, percorre questa via in modo magistrale.
Una delle preoccupazioni che maggiormente assilla il predicatore è quella di far percepire l’attualità dalla Parola proclamata. Per riuscire nell’intento si percorre generalmente la via breve dell’attualizzazione della Parola, facendo riferimento a fatti dell’attualità e fornendo esempi di applicazioni della Scrittura alla vita. Questa modalità raggiunge lo scopo in modo solo apparente e molto fragile, in quanto, non confidando nella forza della Parola stessa, rischia di renderla insignificante. Attribuisce infatti maggiore forza persuasiva ad espedienti che portano l’attenzione su ciò che non è veramente essenziale, invece di lasciar intendere che solo la Parola è degna di fede, sapiente e potente e perciò affidabile. Nell’esperienza cristiana si parla di attualità sempre e solo a partire dalle azioni compiute da Dio nella storia, solo queste infatti inscrivono nel tempo una reale novità. Tali azioni sono giustamente qualificate come “eventi”. Tra le tante e diverse attività compiute dalla Chiesa, sono soprattutto le azioni liturgiche a meritare di essere chiamate “eventi”. Ogni volta che la Chiesa celebra un sacramento, infatti, accade un “nuovo evento”, si compie cioè l’opera di Dio per la salvezza dell’uomo. Nuovo evento non significa naturalmente che ci sia qualcosa di oltre e di più della salvezza realizzata in modo determinante e definitivo in Gesù Cristo, ma piuttosto che quell’unica salvezza, che ha valore escatologico, opera nel nostro oggi qualcosa di realmente nuovo. Il metodo mistagogico conferisce attualità all’omelia perché, pur essendo un atto di parola, fa sì che in essa tutto venga ricondotto e finalizzato alla relazione con l’evento cristologico e lo fa creando nell’assemblea la possibilità di porsi con fede davanti all’evento del donarsi di Dio in Cristo Gesù. […] Nelle omelie dell’inizio del pontificato, risulta molto evidente che il conferimento dell’autorità alla persona del Papa è un atto di Dio e nello stesso tempo che la Chiesa è coinvolta in tale esperienza e vi partecipa proprio perché riunita come comunità orante, comunità che riceve e vive la sua profonda natura accettando di lasciarsi convocare per compiere l’atto della preghiera. Affermare che la percezione del senso del ministero petrino è esito del rito e forse dire troppo, ma non si può negare di rilevare che la celebrazione concorre in modo insostituibile alla riappropriazione della verità di quanto accade. Il rito non è perciò una semplice applicazione e rappresentazione di una verità già acquisita per altra via, ma, in quanto atto di preghiera, è verità in atto: non ha semplice valore espressivo ma ha forza impressiva.
Il riferimento al canto liturgico delle Litanie dei Santi, che il Papa richiama proprio all’inizio dell’omelia del 24 aprile, segnala la consapevolezza che “il compito inaudito”, che supera ogni capacità umana, e che il Papa è chiamato ad assumere, non può essere da lui compiuto con le sue sole forze. E’ il gesto rituale appena compiuto che porta il Papa ad affermare: “non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare da solo”. L’intervento di Dio passa per la comunione dei Santi, che l’assemblea riunita sperimenta mentre compie l’atto di intercessione nel canto orante.[…] Risulta evidente quanto una sequenza rituale, nel nostro caso il canto delle Laudes Regiae come rito di ingresso della Messa di inizio pontificato, concorra ad illuminare il senso del ministero petrino, che è appunto quello di non portare avanti un programma o idee personali, bensì di mettersi “in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore, e di lasciarsi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa”. Un altro elemento che dice il senso vero dell’attualità dell’omelia, e che è tipico delle omelie mistagogiche, consiste nel fare appello alla concreta assemblea riunita perché, insieme a colui che presiede, si ponga con fede davanti al mistero che nella celebrazione si fa dono per tutti. Proprio perché l’assemblea ha cantato le Litanie dei Santi, “voi tutti avete appena invocato l’intera schiera dei Santi”, ad essa si può ricordare: “Noi tutti siamo la comunità dei Santi, noi battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, noi che viviamo del dono della carne e del sangue di Cristo, per mezzo del quale Egli ci vuole trasformare”. Cosi facendo, l’omelia supera la tentazione di ridursi a semplice spiegazione, a pura illustrazione di un concetto, che può esimersi dal coinvolgimento dei soggetti. L’omelia mistagogica, invece, ha come prima finalità quella di coinvolgere i soggetti nell’atto di fede, nel quale atto consiste la sua vera attualità. L’esigenza vera di attualità è che la parola dell’omelia si riferisca a quell’atto che è la fede. Mentre l’insegnamento mira al sapere, la predicazione mira alla confessione della fede.

Nel metodo mistagogico, il punto di partenza sono le azioni liturgiche che si stanno compiendo. L’omelia mistagogica fa proprio questo metodo, il suo carattere singolare è appunto quello di lasciarsi informare e plasmare da tali azioni, e di assumerne quasi l’andamento: in tal modo diviene essa stessa azione liturgica. […] L’omelia, perciò, non può e non deve abbandonare l’azione celebrativa per sviluppare un discorso a proposito di qualsiasi cosa, ma appartiene alla sua natura di lasciarsi coinvolgere e trascinare nel movimento istituito dal rito stesso. L’omelia è una parola che ha la forma del rito. Nella sua omelia del 24 aprile il Papa Benedetto XVI, in perfetta sintonia con questo metodo, ci fa ripercorrere lo stesso cammino che si sviluppa nella celebrazione, la sua parola scorre al ritmo del rito, seguendone fedelmente la trama. […] Risulta molto chiara la corrispondenza tra la sequenza rituale e il percorso dell’omelia papale. Il Papa Benedetto XVI attua esemplarmente quanto affermato dalla Costituzione conciliare sulla Liturgia Sacrosanctum Concilium, la quale affermava che l’omelia è “pars actionis liturgicae…pars ipsius liturgiae”. Il Concilio richiamava la necessità di non pensare all’omelia come ad un elemento autonomo, quasi un contenuto di pensiero elaborato a monte e già in sé consistente, semplicemente da inserire dentro il contesto celebrativo, bensì come ad un elemento strutturale dell’atto liturgico stesso, partecipe della sua natura e delle sue caratteristiche. […] “L’omelia fa parte della liturgia, ed è vivamente raccomandata: è infatti necessaria per alimentare la vita cristiana. Essa deve consistere nella spiegazione o di qualche aspetto delle letture della Sacra Scrittura, o di un altro testo dell’Ordinario o del Proprio della messa del giorno, tenuto conto sia del Mistero che viene celebrato, sia delle particolari necessità di chi ascolta”. Questo testo è stato generalmente interpretato nel modo seguente: occorre ripercorrere le letture alla ricerca di una tema unificante, nel tentativo di offrire prima un insegnamento, per poi passare ad alcune applicazioni per la morale e per la vita. Quest’interpretazione rivela tutta la sua fragilità: da una parte induce a pensare alla Parola di Dio come a qualcosa che non è già in sé eloquente per la vita dell’uomo; dall’altra assolutizza il testo proclamato, dimenticando tutti gli altri elementi del contesto celebrativo. Si predica il testo, attraverso un’esegesi erudita, senza annunciare, attraverso il testo, la realtà del testo, cioè la presenza attuale di Dio nel mistero. Il contesto impedisce una codificazione del testo, e lo restituisce alla sua vera provenienza e destinazione: la Parola viene da Dio per attuare la nostra comunione con Lui. […] Cosa emerge, dunque, nel modo di spiegare le Scritture praticato da Benedetto XVI? In fondo una cosa semplicissima: l’adesione ferma alle regole ermeneutiche che la tradizione patristica ci ha trasmesso. Le possiamo richiamare così: in primo luogo la percezione che tutta la Bibbia costituisce un unico messaggio per cui si può illuminare un testo con altri testi anche se non sono dello stesso autore o dello stesso tempo. In secondo luogo tutta la Bibbia viene letta in rapporto con la presenza viva di Gesù risorto: non si tratta di capire alcune idee, ma di vivere una comunione che il dialogo della fede e l’atto della preghiera rende personale e ricca. Tutto questo si collega con il cammino attuale dell’uomo per cui le Scritture illuminano quello che oggi la Chiesa vive, soffre e proclama. Unità della Bibbia; centralità del mistero di Cristo; attualità del messaggio. Il Papa si muove su questa linea chiarissima che conosce certo gli strumenti di un’esegesi storico critica, ma li usa all’interno di un’esperienza ecclesiale di fede di cui il contesto delle azioni liturgiche costituisce una sicura garanzia. […] Chiare sono anche le finalità dell’omelia così come sono enucleate nei Praenotanda dell’Ordo lectionum Missae: “Con essa (colui che presiede) guida i fratelli a gustare la Sacra Scrittura, apre il cuore dei fedeli al rendimento di grazie per i fatti mirabili da Dio compiuti; alimenta la fede dei presenti per ciò che riguarda quella parola che nella celebrazione, sotto l’azione dello Spirito Santo, si fa sacramento; li prepara infine ad una fruttuosa comunione e li esorta ad assumersi gli impegni della vita cristiana”. Per far gustare la Parola, aprire il cuore alla lode e alimentare la fede, l’omelia non può limitarsi ad essere discorso intorno ad un tema da cui si traggono conseguenze per la vita. E’ difficile che per questa via si giunga allo “stupore eucaristico”, e sappiamo bene “solo lo stupore conosce”. […] Il Papa ci ha restituito la pertinenza dello stupore anche in quell’atto celebrativo che e l’omelia, le ha permesso di parlare il linguaggio della sua casa natale. Non ha utilizzato la liturgia, neppure quella inaugurale del suo ministero, non si è servito di essa come di un mezzo, di un contenitore neutro, per presentare il proprio programma. Con decisa semplicità, si è voluto incamminare nel suo servizio petrino con il passo della liturgia, con le sue parole non ha mortificato né la forza del messaggio evangelico né la sua ispirazione. Piuttosto ha coinvolto i fedeli nell’avventura a cui il Signore lo ha chiamato. Un’avventura iniziata con il passo della liturgia, che è il passo della Chiesa. Un passo che ha condotto e sta conducendo la Chiesa a vivere un momento di grazia e di vitalità spirituale.

G. Busani, “Le due omelie mistagogiche”, in Ufficio delle Celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice, Inizio del ministero petrino del Vescovo di Roma Benedetto XVI, Città del Vaticano 2006, 443-457.

Il senso della liturgia. Dalla verità del fondamento la libertà per provocazioni ancora attuali: questo è Ratzinger, annata 1966 (2)

Riportiamo di seguito la seconda parte delle considerazioni sul rinnovamento liturgico, offerte da J. Ratzinger al convegno dei cattolici tedeschi a Bamberga, per il Katholikentag del 1966. [cf. i post precedenti: https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/06/12/la-situazione-del-rinnovamento-liturgico-un-soprendente-j-ratzinger-annata-1966/; https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/06/11/il-sacro-nella-liturgia-da-auge-alcuni-punti-chiarificatori-con-un-sorprendente-ratzinger/%5D
Il pensiero di Ratzinger ha un fondamento teologico e spirituale certissimo, e con la libertà della verità può poi permettersi delle provocazioni che non hanno perso per nulla la loro attualità. Nonostante siano datate, le riflessioni rimangono attuali: si colgono intuizioni e preoccupazioni che saranno anche quelle del Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e del Successore di Pietro. Ma il suo anelito per un equilibrio che mitighi il rischio di un nuovo ritualismo, per una tolleranza che scongiuri la furia iconoclasta e, finalmente, per una riconciliazione fra le diverse sensibilità pare ancora incompiuto. E non sembra che ciò sia da imputare solamente ai fautori della riforma liturgica. Anzi, se in questo ambito non mancano coloro che guardano con rispetto e considerazione il tesoro della tradizione, non pare che simili aperture verso i nuovi rituali si registrino fra i cultori della liturgia tridentina.
Lasciando però da parte le nostre considerazioni, volentieri ridiamo la parola a J. Ratzinger:

Diremo perciò: la liturgia non ha il senso di riempirci, in un clima di tremore e di presentimenti, con la sensazione del santo, ma di confrontarci con la spada tagliente della parola di Dio; non ha il senso di darci una cornice di bellezza solenne per un silenzioso rientrare in noi stessi e meditare, ma ci vuole includere nel noi dei figli di Dio e perciò anche nella kenosi di Dio, il quale è sceso nell’ordinario, al punto che Paolo dovette dire della comunità di Corinti: “Infatti, considerate tra voi, o fratelli, quelli che egli ha chiamato: non molti sono i sapienti secondo l’estimazione terrena; non molti i potenti, non molti i nobili” (1 Cor 1,26). E nella stessa lettera, rivolgendosi agli estatici glossolali, che amavano parlare nel linguaggio del mistero, Paolo afferma severamente: “Ma nell’adunanza dei fedeli preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri, che diecimila in virtù del dono delle lingue” (1 Cor 14,19). Richiamandosi a questi testi, si tradusse a Roma nel quarto secolo la liturgia greca, divenuta incomprensibile, nella lingua latina, riportandola cioè a livello di lingua del popolo. Il noto storico della liturgia, Th. Klauser, afferma in proposito: “Nella fredda Roma del quarto secolo non si era più coscienti che gli strani suoni, emessi spesso a Corinto dai carismatici in qualità di liturghi, erano espressioni del loro stato estatico. Se Paolo obietta contro il ‘parlare in lingue’ dei liturghi carismatici, deve aver inteso, secondo l’opinione dei liturghi romani di questo tempo, il loro parlare in una lingua straniera incomprensibile. Probabilmente Paolo non avrebbe avuto nulla da eccepire ad una tale interpretazione delle sue dichiarazioni. Che si trattasse di parlare in lingue o di lingua straniera – era comunque qualcosa che non rientrava nella sua idea di liturgia. Se la riforma liturgica del concilio appare cosi non soltanto legittima, ma addirittura necessaria, ciò non significa certo ancora che si debba giungere alla stessa conclusione per tutte le sue realizzazioni pratiche. Quando si vede quanto sia più spedito il rinnovamento liturgico in Paesi che non possono guardare nel passato alla gloriosa preistoria di un lungo movimento liturgico, si può certo supporre a buon diritto che nella doppia radice del movimento liturgico, da cui è nato il frutto del concilio, c’è qualcosa dei problemi che oggi ci danno da fare. Il movimento liturgico è da noi, da’un lato, un frutto del movimento giovanile, e, da un altro lato (strettamente congiunto), un frutto di rinnovamento teologico. Ma dai due lati emergono alcuni elementi unilaterali. Dal lato teologico si registra un certo arcaismo, il cui scopo consiste nel liberare la forma classica della liturgia romana dall’enorme vegetazione medievale e carolingia. Quale criterio di rinnovamento liturgico, non si prende allora tanto la domanda: come dev’essere?, ma: com’era allora? Va detto pero a questo proposito: per quanto l’allora ci dia aiuti indispensabili per venire a capo dell’oggi, esso non è pero semplicemente il criterio, che si possa porre a base di una riforma. E certo un dato prezioso il sapere come abbia fatto Gregorio Magno, ma non è una ragione costringente per cui oggi si debba fare lo stesso. Con questo arcaismo invece ci si è chiusa per molti versi la strada al senso del legittimo, presente anche in sviluppi posteriori, e si è dogmatizzato il gusto di un’epoca, che è certo degno di rispetto, ma tanto poco esclusivo quanto ogni altro gusto.
A volte si può naturalmente in questo modo provocare il contrario, e ciò conduce all’altra radice del movimento liturgico. Chi si ricorda della tenace severità con cui fino a pochi anni fa fu dogmatizzato il corale come l’unica forma legittima di musica da chiesa, dell’indignazione con cui si proibì ogni orchestra nel santuario (in fondo, e prodotto dell’epoca barocca, ed è già una sufficiente squalifica che qualcosa sia carolingio invece che romano!), e chi osserva ora l’ingresso nella casa di Dio di tutt’altre orchestre d’improvviso entusiasmo jazzistico, farà fatica a prendere con uguale serietà ed impegno tutto ciò che gli viene proposto di volta in volta e con la più grande pretesa come espressione di movimento liturgico. Il puro arcaismo non serve e la pura modernizzazione serve ancora meno.
Chi ritiene che la celebrazione liturgica si compia soprattutto per Dio, guarderà necessariamente con sospetto il ruolo che l’espressione ‘dar forma’ ha assunto nel frattempo in certe cerchie liturgiche. Chi potrebbe immaginarsi che gli apostoli abbiano fatto prove di funzione liturgica, per poter stabilire quale forma potesse essere più efficace da un punto di vista liturgico e missionario? Si ha non di rado la sensazione che l’attenzione di queste persone che danno forma alla liturgia sia appunto più rivolta alla forma liturgica, che non a colui, al quale si indirizza. Si captano allora gli intenti e si è delusi. Un po’ meno di perfezionismo sarebbe un po’ più di culto di Dio. E chi potrebbe negare che ci troviamo così a dar vita ad un nuovo ritualismo di forme ricche di inventiva, che ritornano a coprire e a nascondere la realtà quasi più dei riti tradizionali, spesso non più avvertiti come tali? Chi potrebbe poi negare l’esistenza di esagerazioni ed unilateralità, che sono scandalose e non appropriate? E’ proprio realmente necessario che ogni messa sia celebrata versus populum? E’ poi tanto importante poter guardare in faccia il sacerdote, o non è anche spesso salutare pensare che anch’egli è un cristiano con gli altri ed ha ogni buon motivo per rivolgersi a Dio insieme a loro e per dire con loro ‘Padre nostro’? Il tabernacolo è stato allontanato dagli altari maggiori, e ci sono ragioni a giustificazione della cosa; ma si può essere colti da un senso di disagio, quando si vede che al suo posto c’è ora il seggio presidenziale del sacerdote e si delinea così nella liturgia un clericalismo, che può essere più serio di quello del passato. Quello sviluppo liturgico, che eliminò la sede centrale del sacerdote e fece dello stesso tabernacolo del Signore il presidente della liturgia, non aveva forse anche il suo buon significato, che noi oggi solo lentamente cominciamo a comprendere di nuovo? L’eliminazione della sede sacerdotale e l’edificazione del tabernacolo non è stato anche segno della crescente consapevolezza che il tempio cristiano e polarizzato intorno a Cristo e che la liturgia cristiana conosce un solo presidente, e cioè lui? Con questo non si vogliono contestare gli argomenti, che hanno messo in luce con buone ragioni bibliche la preminenza della celebrazione liturgica attiva rispetto all’adorazione; va però segnalato un pericolo della nostra forma, un pericolo che mi sembra evidente.
Inoltre, è giusto ed è anzi necessario che si invochi oggi radicalmente semplicità, un appello che vuol accantonare ogni splendore estetico per esperimentare in modo nuovo la forza originaria della parola e della realtà, che qui ci viene incontro. La chiesa deve ritornare continuamente alla semplicità delle origini, per esperire e comunicare dietro tutte le forme la realtà autentica. Ma al tempo stesso non si deve dimenticare che andare alla cena del Signore significa per sua natura compiere una festa, e che la festa richiede anche una bellezza solenne: il praeclarus calix si spinge fino all’ora dell’ultima cena, e se l’intera liturgia si preoccupa di essere praeclarus calix, nel quale diviene visibile ed udibile lo splendore dell’eterno, allora non deve temere nessun purismo ed arcaismo. Forse una tale bellezza può essere più servizio disinteressato che non la fantasia di forme, che si compiace di idee liturgiche sempre nuove.
Ed infine, la lingua della liturgia dev’essere comprensibile: ed è conclusione indubitabilmente vera, una legge fondamentale della liturgia. Ma quando la chiesa se ne partì dal suo ambiente semitico materno, prese con sé un paio di parole, che da allora appartengono a tutti i cristiani: l’amen, l’alleluia, l’hosanna e, prima ancora, il Marana tha. Quando Roma abbandonò la lingua greca, fece lo stesso: si mantenne il Kyrie eleison, l’hagios o theos, e nella messa papale solenne si continuò a leggere (come si legge ancora oggi) il vangelo in latino e in greco. Non deve far soffrire un poco, se ci viene tolto il Kyrie, il tenue filo, che nei secoli della divisione ci ha legati con le chiese dell’oriente? Ed inoltre, se riteniamo giusta la decisione di Roma di passare dalla lingua greca a quella latina non potremo però dimenticare che questa decisione contribuì a costituire l’inizio della separazione tra Oriente ed Occidente, la quale fu ampiamente un problema di lingua e di liturgia. La lingua ha un peso molto più grande di quanto abitualmente pensiamo. Ciò vuol dire che nell’ora in cui la chiesa entra del suo cammino attraverso la storia, la traduzione della liturgia è qualcosa di necessario, ma non deve degenerare in furia iconoclasta. Esiste una legge della continuità che non si può impunemente trasgredire.La somma di tutto questo significa che la riforma liturgica richiede un alto grado di tolleranza all’interno della chiesa, una tolleranza che rappresenta il nome sobrio ed obiettivo per l’amore cristiano in questo settore. E che si noti qui spesso una relativa deficienza, è esattamente la crisi vera del rinnovamento liturgico tra di noi. Il sopportarsi a vicenda, di cui parla Paolo; la longanimità dell’amore, di cui parla Agostino – essa solo può costituire lo spazio, in cui la celebrazione liturgica riesce a maturare in un vero rinnovamento. Poiché la liturgia più antica della cristianità è l’amore.

“La situazione del rinnovamento liturgico”: un sorprendente J. Ratzinger, annata 1966.

Come avevamo preannunciato, siamo ora in grado di mostrare il testo della conferenza dell’allora professore J. Ratzinger all’annuale convegno della Chiesa tedesca, nell’edizione del 1966, a Bamberga.
Offriamo in questo post e, per non appesantire oltremodo la lettura, nel successivo, una delle sezioni del contributo che, più ampiamente, aveva come tematica generale e titolo “Il Cattolicesimo dopo il Concilio”. Interessa qui in particolare la prima sezione: “1. La situazione del rinnovamento liturgico”. I lavori della riforma liturgica stavano entrando nella fase di studio dei concreti e più dettagliati ambiti della vita sacramentale e di preghiera della Chiesa, ma alcune grandi direttrici erano già chiarite, come la questione della lingua e di una maggiore partecipazione dei fedeli nelle celebrazioni. Per questo le considerazioni di Ratzinger, anche se generiche, risultano ancora oggi ficcanti. Per quanto si sia voluto ridurre il pensiero del futuro prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede e, poi, Sommo Pontefice, in categorie schematiche e in valutazioni spesso viziate dal pregiudizio, l’argomentazione di Ratzinger sorprende sempre. Che si concordi o meno con le sue ragioni, non si può negare la profondità del suo pensiero, ogniqualvolta ci si liberi da considerazioni estranee all’argomentare stesso.
Anche in questo caso, la ricchezza e l’apertura della visione ci pare senza dubbio degna di essere considerata attentamente.

 1. La situazione del rinnovamento liturgico
Il risultato del concilio di maggiore evidenza è il rinnovamento liturgico. Ma proprio questo rinnovamento liturgico, tanto desiderato ed accolto con tanta gioia, è divenuto per molti versi il segno di contraddizione. Certo: chi si occupa seriamente della realtà della liturgia cristiana, non può dubitare che è avvenuto qui qualcosa di grande e di importante. Respingerà perciò come superficiali ed inadeguate le due obiezioni, che ritornano di continuo contro i due elementi fondamentali del rinnovamento liturgico. Contro l’uso della lingua volgare viene obiettato che sarebbe adeguato al mistero un certo nascondimento in un linguaggio suo proprio, come avviene in tutte le religioni, nelle quali il santo si nasconde così continuamente sotto il velo del mistero; inoltre, proprio questa lingua, come l’unica lingua di tutta la chiesa, è il legame che unisce i continenti e ci rende consapevoli attraverso tutta la terra di essere membri visibilmente dell’unità cattolica, trasformando questa stessa unità nella esperienza diretta del linguaggio comune: una lingua che è anche il filo, che ci riallaccia all’indietro con la preghiera cristiana di tutti i tempi e ci intesse nella moltitudine sconfinata di coloro che prima di noi e con noi hanno lodato e lodano Dio nello stesso modo con un’unica voce. La seconda obiezione si rivolge contro la preminenza assunta dalla comunità, ricordando il sacro silenzio, come più adeguato al mistero che non il tanto parlare; il silenzio, in cui Dio può parlare con più incisività e che permette al singolo di incontrare realmente il suo Signore, mentre la continua regolamentazione di una messa comunitaria con canti e preghiere, stare in piedi, sedersi ed inginocchiarsi, non lascia più tempo per entrare in un tale incontro: la liturgia comincia ad esaurirsi in un affaccendarsi fine a se stesso, e l’esecuzione esterna prende il posto di ciò che è autentico, dell’incontro con il Signore. E, ai margini di riflessioni propriamente teologiche, si aggiunge poi un terzo aspetto: la regolamentazione della celebrazione liturgica comunitaria significa al tempo stesso una specie di attacco iconoclasta alla ricchezza artistica, in cui il passato diede alla lode di Dio nella messa forme di bellezza eterne, sostituite ora da declamazioni, la cui indecorosità estetica non è proporzionata alla grandezza di quanto viene celebrato, né serve all’uomo per trovarvi un accesso migliore, anzi, contribuisce a rendergli impossibile la strada.
Chiunque non sia legato ad un programma irrivedibile, ma sia disposto a ricercare come stiano realmente le cose, vedrà molto in fretta che nelle suddette obiezioni si mescolano argomenti di vario rango e che proprio in questo intreccio si esprime il dilemma della nostra situazione presente. Per prima cosa, non è difficile mostrare che l’argomento del mistero non ha peso, che anzi, tanto quanto il richiamo al silenzio di una pietà individuale che non vuol essere disturbata dalla comunità, si fonda su un fondamentale misconoscimento di ciò che è realmente per sua essenza la celebrazione liturgica cristiana. Volerla misurare con le categorie della storia delle religioni e pretendere di ritrovare e documentare qui in modo analogo i sentimenti relativi, significa esattamente ignorarne la sua realtà vera e propria. La celebrazione liturgica cristiana è per sua essenza annuncio del lieto messaggio di Dio alla comunità presente, l’accettazione di risposta di questa comunità, il comune parlare della chiesa a Dio, un parlare che si intreccia appunto con l’annuncio: l’annuncio di ciò che Cristo ha fatto per noi nella sala dell’ultima cena è al tempo stesso lode di Dio, che attraverso Cristo ha voluto agire in questo modo nei nostri confronti; esso è memoria delle azioni salvifiche di Dio, attraverso la quale ci situiamo cosi nei fatti avvenuti, ma come memoria che celebriamo, come appello a Dio perché a compimento ciò che allora ebbe inizio: professione della fede e della speranza, ringraziamento ed invocazione, annuncio e preghiera insieme. Per questo la liturgia, semplicemente alla luce della struttura del suo linguaggio, è costruita sul rapporto reciproco di io e voi, che si va sciogliendo continuamente nel comune noi della chiesa intera, la quale si presenta attraverso Cristo di fronte al volto di Dio. In una liturgia cosi configurata, il linguaggio non ha il senso di voler nascondere, ma di rivelare, non il senso di un tacere nel silenzio della singola preghiera isolata, ma del convergere verso l’unico noi dei figli di Dio, i quali dicono insieme: Padre nostro. Fu quindi un passo di importanza decisiva il fatto che la riforma liturgica abbia di nuovo deritualizzato la parola e le abbia ridato il suo significato di parola. Comprendiamo solo oggi poco per volta quale vuoto di significato sia stato quel pregare del sacerdote prima del vangelo, l’invocazione che Dio gli mondi il cuore e le labbra così come aveva purificato le labbra del profeta Isaia con carboni ardenti, affinché sia in grado di annunciare degnamente ed in modo adeguato la parola di Dio, questo benché ben sapesse che avrebbe subito dopo bisbigliato la parola di Dio, come la stessa preghiera preliminare, e benché non pensasse affatto ad annunciare questa parola. O pensiamo al sacerdote che diceva Dominus vobiscum, ben sapendo che questo ‘voi’, al quale si rivolgeva il saluto, non esisteva per niente. La parola era stata svuotata in rito, e la riforma liturgica non ha fatto qui nient’altro che ridare valore ai diritti della parola e perciò anche ai diritti della celebrazione liturgica della chiesa ivi compresa. Se Friedrich Heer ha potuto dire recentemente che si dovrebbe conservare la liturgia latina e che il cattolico la dovrebbe trovare dovunque vada – fosse anche su Marte o sulla luna -, così come vuol trovare dovunque il suo Seneca e il suo Omero, allora questo significa allineare la liturgia nel museo del passato, soffocarla nella neutralizzazione estetica e presupporre a priori di non poterla oggi più intendere nel suo significato di accezione originaria. In questo senso, il fatto scandaloso della riforma liturgica consisterebbe nel suo essere così abbastanza ingenua, da intendere ancora la liturgia così come propriamente fu intesa: nel prenderla cioè seriamente per quello che è. Si potrà quindi concludere che nessuno dimostra oggi con altrettanta efficacia, quanto i suoi oppositori, la necessità e il buon diritto della riforma liturgica, poiché ciò che essi difendono e un malinteso della liturgia e ciò che essi dimostrano e perciò il fatto che la forma precedente di liturgia correva il pericolo di far passare il malinteso come la realtà autentica. Chi intuisce queste cose, dovrà al tempo stesso concedere che fa parte della riforma liturgica, fino ad un certo grado, lo scandalo e il malinteso, il disagio. Egli vedrà che non si può giudicare la riforma liturgica dall’aumento o meno di coloro che frequentano la chiesa, ma solo ed unicamente sulla base del suo rispondere alla natura fondamentale della celebrazione liturgica cristiana come tale.

J. Ratzinger, “Il cattolicesimo dopo il Concilio”, Conferenza al “Katholikentag” di Bamberga del 1966, in Id., Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche (Biblioteca di teologica contemporanea 7), Brescia 1992, 330-333.

Il sacro nella liturgia: da Augé alcuni punti chiarificatori; con un sorprendente Ratzinger..

Grazie ad un interessante articolo del prof. M. Augé, con il cui gentile consenso offriamo in nostra traduzione italiana un “assaggio” del quinto paragrafo, scopriamo un sorprendente testo di J. Ratzinger, che magari pubblicheremo poi.
Per ora, ecco l’inizio del testo di Augé, che con poche parole sintetizza una questione assai dibattuta ultimamente. Non si può nemmeno introdurre la tematica e le problematiche connesse: ma vale la pena comunque tenere alcuni punti fermi, anche perché non è infrequente leggere ed ascoltare, sul tema, parecchi rilievi esagerati e dettagli resi quasi assoluti.

M. Augé, “A cincuenta años de ‘Sacrosanctum Concilium’ con una mirada al futuro de la reforma liturgica”, Phase 320 (2014).

§ 5. Un futuro con mayor atención a la sacralidad propia de la liturgia

I momenti di silenzio e l’uso della lingua latina sono due elementi che, fra molti altri, talvolta vengono proposti come mezzi che possano offrire una percezione di maggiore sacralità nella celebrazione liturgica. E’ questo uno dei temi più dibattuti della riforma liturgica, sulla quale viene fatta pesare l’accusa di aver contribuito, con la sua opera di semplificazione e razionalizzazione dei riti, alla progressiva perdita del senso del sacro proprio della liturgia. Non è facile precisare cosa si intenda per sacralità, dato che un tratto caratteristico e costituivo dell’esperienza del sacro è per l’appunto l’ambiguità.
Nel dibattito intorno al senso del sacro, è stata enfatizzata la concezione rituale-misterica che esprime la forma straordinaria del rito romano. Di certo, questa forma possiede una ricca ritualità, tuttavia è una ritualità operata praticamente solo dal celebrante: segni di croce, inchini, genuflessioni, baci rituali, ecc. E’ pur vero che la forma ordinaria si presenta con una ritualità semplice, quasi elementare, della quale, però, è protagonista l’intera assemblea. D’altra parte, è evidente la lontananza del modello rituale tridentino rispetto alla cultura attuale e alla liturgia dei primi secoli, per cui si tratta di una ritualità che non tiene conto di due principi che sono alla base del rinnovamento conciliare: il ressourcement e l’adattamento alle “necessità del nostro tempo” (SC 1.4).
Quando nella liturgia si parla di senso del sacro, si parla del mistero che si celebra. In questo ambito occorre evitare due rischi: da una parte l’esoterismo, che degenera nella magia, cioè la tendenza a ritenere che quanto meno si comprende ciò che viene detto e fatto, tanto più si tocca l’ambito del mistero; dall’altra parte, la pretesa di creare una performance celebrativa perfettamente comprensibile e vicina alla sensibilità popolare. Il professor Joseph Ratzinger, nel suo intervento al Katholikentag celebrato a Bamberg nel luglio 1966, affermava: La liturgia non ha il senso di riempirci, in un clima di tremore e presentimenti, con la sensazione del santo, ma di confrontarci con la spada tagliente della parola di Dio (1).
Il senso del sacro non dipende dalla lingua in cui si celebra né dai riti più o meno sontuosi. Dipende dalla capacità di fare trasparente la presenza e l’azione di Cristo.

(169-170)

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(1) Nell’articolo il testo di Ratzinger è citato, tradotto in spagnolo, avendo come riferimento la versione francese apparsa su La Documentation catholique hors-série 1 (2005) 7. Il testo di quella conferenza è apparso in italiano nel volume che raccoglie vari saggi dell’allora teologo tedesco: J. Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche, Brescia 1992, 327-347. Piuttosto di proporre una traduzione, a questo punto frutto di passaggi in più lingue (tedesco, francese, spagnolo, italiano), abbiamo preferito riportare la traduzione direttamente dal tedesco all’italiano proposta dal volume suddetto, anche se non sembra del tutto vicina allo spagnolo dell’articolo di Augé.

“Non ti infastidire, Pietro…”

E’ innegabile che nel penitente che si accosti al sacramento della riconciliazione possa trovarsi qualche imbarazzo o qualche fastidio, nel richiamare alla memoria e denunciare il male commesso, come pure una certa vergogna di fronte al confessore… A questo proposito pare assai pertinente il commento di  sant’Agostino (Discorso 253, Nei giorni di Pasqua, 1)  ad uno dei passaggi del brano del Vangelo della Liturgia eucaristica di oggi, venerdì della settima settimana di Pasqua: Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: “Mi vuoi bene?”, e gli disse: “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene”…(Gv 21,17b)

Perché ti rattristi, o Pietro, se per tre volte devi confermare l’amore? Hai dimenticato le tre volte che avesti timore? Lascia che il Signore ti interroghi! Chi ti interroga è un medico e, se ti interroga, è per guarirti. Non t’infastidire! Attendi. Si compia il numero delle dichiarazioni di amore, perché si cancelli il numero delle negazioni.. [Quid contristaris, Petre? Quia ter respondes amorem? Oblitus es trinum timorem? Sine interroget te Dominus, medicus est qui te interrogat, ad sanitatem pertinet quod interrogat. Noli taedio affici. Exspecta: impletur e numerus dilectionis ut deleat numerum negationis].

Cf. http://www.augustinus.it/italiano/discorsi/discorso_351_testo.htm

B&B: Bonifacio e Benedetto….

Se è vero, ed è vero, che l’omelia è parte della liturgia, allora non ci deve essere estranea l’attenzione a questo segmento della celebrazione. Le grandi omelie dei Padri, considerato il loro valore dottrinale e spirituale, sono diventate – giustamente – oggetto di studi critici, che ne hanno fatto risaltare i contenuti, le fonti, i riferimenti alla Scrittura. Ma anche ai nostri giorni non sono mancati Pastori, le cui omelie sono veri e propri tesori, tutti da gustare e da studiare: Benedetto XVI, nella predicazione liturgica, è stato un maestro eccellentissimo. Come non conservare nella memoria l’omelia di inizio del suo pontificato?
Questa mattina, pregando l’Ufficio di san Bonifacio – un santo che Benedetto XVI sicuramente conosce molto bene, essendo questo martire così legato alla storia del cristianesimo germanico – è stato naturale fare alcune associazioni, fra il testo patristico proposto dalla Liturgia delle Ore e l’omelia di Papa Benedetto. Che l’uno abbia ispirato l’altro? O, semplicemente, si tratta di una coincidenza, che mostra tuttavia la sintonia e la grandezza di due Pastori?
Ecco i testi:

Stiamo saldi nella giustizia e prepariamo le nostre anime alla tentazione per ottenere l’appoggio di Dio e diciamogli: “O Signore, tu sei stato per noi rifugio di generazione in generazione” (Sal 89,1). Confidiamo in lui che ha messo sulle nostre spalle questo peso. Ciò che noi da soli non siamo capaci di portare, portiamolo con il suo aiuto. Egli è onnipotente e dice: “Il mio giogo è dolce e il mio carico leggero (Mt 11, 30). Stiamo saldi nella battaglia fino al giorno del Signore, perché ci sono venuti addosso giorni di angustia e di tribolazione. Moriamo, se Dio vorrà, per le sante leggi dei nostri padri, per poter conseguire con essi l’eredità eterna. Non siamo dei cani muti, non siamo spettatori silenziosi, non siamo mercenari che fuggono il lupo, ma pastori solleciti e vigilanti sul gregge di Cristo. Predichiamo i disegni di Dio ai grandi e ai piccoli, ai ricchi e ai poveri. Annunziamoli a tutti i ceti e a tutte le età finché il Signore ci darà forza…
(Dalle Lettere di San Bonifacio, lett. 78; MGH, Epistolae, 3,352.354)

Quanto ci siamo sentiti abbandonati dopo la dipartita di Giovanni Paolo II! Il Papa che per ben 26 anni è stato nostro pastore e guida nel cammino attraverso questo tempo. Egli varcava la soglia verso l’altra vita – entrando nel mistero di Dio. Ma non compiva questo passo da solo. Chi crede, non è mai solo – non lo è nella vita e neanche nella morte. In quel momento noi abbiamo potuto invocare i santi di tutti i secoli – i suoi amici, i suoi fratelli nella fede, sapendo che sarebbero stati il corteo vivente che lo avrebbe accompagnato nell’aldilà, fino alla gloria di Dio. Noi sapevamo che il suo arrivo era atteso. Ora sappiamo che egli è fra i suoi ed è veramente a casa sua. Di nuovo, siamo stati consolati compiendo il solenne ingresso in conclave, per eleggere colui che il Signore aveva scelto. Come potevamo riconoscere il suo nome? Come potevano 115 Vescovi, provenienti da tutte le culture ed i paesi, trovare colui al quale il Signore desiderava conferire la missione di legare e sciogliere? Ancora una volta, noi lo sapevamo: sapevamo che non siamo soli, che siamo circondati, condotti e guidati dagli amici di Dio. Ed ora, in questo momento, io debole servitore di Dio devo assumere questo compito inaudito, che realmente supera ogni capacità umana. Come posso fare questo? Come sarò in grado di farlo? Voi tutti, cari amici, avete appena invocato l’intera schiera dei santi, rappresentata da alcuni dei grandi nomi della storia di Dio con gli uomini. In tal modo, anche in me si ravviva questa consapevolezza: non sono solo. Non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare da solo. La schiera dei santi di Dio mi protegge, mi sostiene e mi porta. […] Cari amici – in questo momento io posso dire soltanto: pregate per me, perché io impari sempre più ad amare il Signore. Pregate per me, perché io impari ad amare sempre più il suo gregge – voi, la Santa Chiesa, ciascuno di voi singolarmente e voi tutti insieme. Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi. Preghiamo gli uni per gli altri, perché il Signore ci porti e noi impariamo a portarci gli uni gli altri.
(http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2005/documents/hf_ben-xvi_hom_20050424_inizio-pontificato_it.html)

Una frequenza assai sospetta…

Chi abbia avuto modo di pregare, ieri, l’Ufficio delle Letture dell’Ascensione e, poi, in questi giorni parteciperà alla celebrazione feriale dell’eucaristia, potrà notare una curiosa insistenza sul Salmo 67. Per quel che riguarda la Liturgia delle Ore abbiamo potuto mostrare – si può vedere il post precedente – un testo in cui si giustifica la scelta di tale salmo nell’ufficiatura dell’Ascensione; per la Liturgia della Parola, invece, non abbiamo contezza delle motivazioni per le quali si è assegnato, come salmo responsoriale, il salmo 67 appunto nel lunedì, martedì e mercoledì successivi a questa solennità. Tre delle cinque occorrenze di tale salmo come salmo responsoriale nella celebrazione della messa sono concentrate, per di più di seguito, in questa settimana (1). Può essere una coincidenza? Non siamo in grado, lo ripetiamo, di fornire una testimonianza certa che appoggi la nostra ipotesi, ma allo stesso tempo ci pare assai probabile che la scelta sia dovuta al fatto che il salmo 67 è stato tradizionalmente collegato a questo aspetto del mistero pasquale (2).
Ancora una volta, maestro insuperabile nel sintetizzare in pochi paragrafi tutto il ricchissimo portato dell’interpretazione patristica è J. Daniélou, al quale volentieri lasciamo la parola: la sua erudizione ci farà apprezzare ancora meglio il lezionario liturgico di questi giorni, anche in un aspetto talvolta trascurato qual è il salmo responsoriale:

 Il terzo salmo dell’Ascensione, dopo il 23 ed il 109, è il Salmo 67. Questo salmo è applicato a tale mistero anche dal Nuovo Testamento, in un passo particolarmente significativo: “A ciascuno di noi la grazia è stata conferita secondo la misura del dono di Cristo. Per questo di Lui è detto: è salito in alto, ha condotto molti prigionieri, ha fatto doni agli uomini. Orbene che cosa significa: E’ salito, se non che prima era disceso nelle regioni inferiori della terra? Colui che è disceso è lo stesso che è salito ed ha riempito tutto. E’ Lui anche che ha costituito alcuni apostoli, altri profeti” (Ef 4,7-11). Ritroviamo in questo passo, allo stesso tempo, l’opposizione tra l’“ascensus” ed il “descensus”, così come l’Ascensione di Isaia ce lo ha proposto, e il legame tra l’Ascensione e la Missione.
Un punto della traduzione del salmo ad opera di san Paolo, per l’importanza relativa a quanto stiamo trattando, attira la nostra attenzione: dove il testo ebraico parla di doni “ricevuti” da Jahweh, Paolo parla di doni “dati” da Cristo. Trattasi di modifica intenzionale, in funzione, secondo Balthasar Fischer, della “cristologizzazione ” del Salmo. Quel che nell’Antico Testamento attiene a Jahweh, qui è legittimamente applicato a Cristo. E il cambiamento apportato al testo mostra bene il passaggio dall’Antico Testamento al Nuovo. Ma quel che più ci interessa è che ciò evidenzia il carattere cristologico dell’interpretazione dei Salmi da parte della Chiesa primitiva. Quel che san Paolo vi vuole valorizzare, non è tanto l’espressione della trascendenza di Dio che ne costituisce il senso letterale, quanto quello della misericordia di Cristo che ne rappresenta il significato tipologico; solo questo senso profetico interessa l’Apostolo. La tradizione patristica seguirà l’interpretazione paolina del salmo: Giustino l’applica all’Ascensione (Dial., XXXIX, 1 e LXXX-VII, 6); sant’Ireneo scrive: “Risuscitato dai morti, doveva salire al cielo, secondo la profezia di Davide: il carro di Dio sono le migliaia e migliaia di angeli; il Signore è tra di essi, al Sinai, nel santuario. Egli sale nelle altezze, conducendo le schiere dei prigionieri; ha dato doni agli uomini. Il profeta chiama prigionia l’abolizione del potere degli angeli ribelli. Ed ha indicato il luogo dove Egli doveva elevarsi dalla terra al cielo, perché il Signore, dice, è salito da Sion, cioè dalla montagna di fronte a Gerusalemme, chiamata monte degli Olivi. Dopo essere risuscitato dai morti, raduna i suoi discepoli e, davanti ai loro occhi, ascende al cielo; costoro videro i cieli che si aprivano, per riceverlo” (Dem., 83; PO XII, 793). Origene, scrutando lo stesso versetto, in relazione a quello di Matteo 12,29, vi scorge la profezia della partecipazione dei giusti alla Resurrezione e all’Ascensione: “Egli ha cominciato con il legare il demonio alla croce e, entrato nella sua casa, cioè nell’inferno, ne è asceso verso l’alto, conducendo con sé i prigionieri, cioè coloro che sono risuscitati ed entrati con Lui nella Gerusalemme celeste” (Co.Ro., V,10; PG XIV,1052 A). Ma questi versetti non sono i soli che, nel nostro salmo, si riferiscono all’Ascensione: c’e il versetto 34, per esempio, che parla di Jhaweh che “sale sul cielo del cielo ad Oriente”. Questo versetto ha una grande imponanza per la storia liturgica: asserisce, infatti, che l’Ascensione di Cristo ha avuto luogo in Oriente. Ed è su questa affermazione che la “Didascalia degli Apostoli” (II, 57,5) si basa per giustificare l’uso della preghiera verso Oriente. Gli angeli dell’Ascensione avevano annunciato, infatti, che “il Cristo sarebbe ridisceso cosi come era salito al cielo” (Atti 1,11): da ciò l’attesa dall’Oriente del ritorno di Cristo. Per Erik Peterson sta in ciò la primitiva origine dell’orientamento della preghiera: essa costituisce l’attesa del ritorno di Cristo che deve apparire da Oriente. Tuttavia, considerata l’antichità di questo modo di pregare, se esiste un rapporto tra questo e l’applicazione del salmo all’Ascensione, ciò significa che l’applicazione del nostro versetto all’Ascensione è ancora più antico e data, addirittura, dai tempi apostolici. Tuttavia per l’esegesi del salmo si presenta una difficoltà. Infatti se qui si tratta di un’Ascensione ad Oriente, il versetto 5 afferma: “Preparate la strada a Colui che sale ad Occidente”. Questa difficoltà è stata risolta in modo diverso: Eusebio vi ritrova la stessa opposizione che c’era nell’Epistola agli Efesini tra il “descensus” e l’“ascensus”: “Il testo aggiunge: E’ Lui che è salito nel cielo del cielo ad Oriente. Ciò corrisponde esattamente a quello già scritto poco prima: preparate la strada a Colui che sale ad Occidente. Conveniva infatti che dopo aver appreso la sua discesa, noi fossimo informati circa la sua risalita. La sua discesa ha avuto luogo a Occidente per l’oscuramento dei raggi della sua divinità; la sua Ascensione avviene, invece, nel cielo del cielo ad Oriente per la restaurazione (“apocatastasis”) gloriosa nei cieli” (PG XXIII, 720). I1 simbolismo dell’Occidente e dell’Oriente era, lo sappiamo, familiare alla comunità antica: nei riti del Battesimo, ad esempio, la rinuncia a Satana aveva luogo rivolti verso Occidente, l’adesione a Cristo verso Oriente. Eusebio, da parte sua, ci illustra questo simbolismo: “Comprenderai quello di cui si parla attraverso il paragone del sole: come, dopo essere tramontato all’orizzonte occidentale, compie una corsa invisibile per cui perviene a quello orientale, da cui si alza diritto al cielo, illuminando ogni cosa e donando al giorno la sua luce; così, il Signore ci è mostrato nella sua ascesa ad Oriente, dopo essere, per cosi dire, tramontato al tempo della sua Passione e passato attraverso la regione invisibile della morte” (PG XXIII, 720 A). Atanasio offre la stessa interpretazione: l’“occasus” è la discesa agli Inferi, l’“Oriente” l’Ascensione (PG XVII, 294 B,303 D). Incontriamo un’altra interpretazione, ad opera di Gregorio di Nissa, dell’“ascensus super occasum”: l’“ascensus” designa la vittoria di Cristo sulla morte, di cui l’“occasum” é il simbolo. “Il peccato dell’uomo causò la sua espulsione dal Paradiso. Egli lasciò l’Oriente (Gen 2,8) per abitare in Occidente. A causa di ciò è ad Occidente che l’Oriente apparirà (Zac 6,12): lodate il Signore che sale ad Occidente, affinché il sole illumini le tenebre” (PG XLVI, 496A). Si noterà, in questo testo, la corrispondenza mutua tra le allusioni ai passi dell’Antico Testamento in cui si fa menzione di “Cristo-Oriente”. L’abbandono dell’Oriente per l’Occidente, come equivalente dell’esilio al di fuori del Paradiso, è un tema che risale ad Origene. La stessa idea è ripresa da sant’Ilario, in dipendenza senza dubbio da un’altra fonte. Sant’Ilario conosce le due interpretazioni (PL IX, 467B) ma insiste sulla seconda: “Tutto ciò che viene alla vita conosce un tramonto: questo è figura della morte. Occorre dunque glorificare e preparare la strada a Colui che risorse dal tramonto della morte, cioé a Colui che ha trionfato su ogni tramonto, sul tramonto della nostra morte attraverso la sua Resurrezione. E’ questa la gioia degli Apostoli quando lo videro e lo toccarono dopo la sua Resurrezione” (PL IX, 446B). La vittoria sull’“Occasus” è dunque qui la Resurrezione che precede l’Ascensione, mentre per Eusebio ed Atanasio, come riportato sopra, essa è la discesa agli Inferi.

J. Daniélou, Bibbia e Liturgia, Roma 1998, 274-277.

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(1) Cf. F. M. Arocena, Psalterium liturgicum. Psalterium crescit cum psallente Ecclesia, Vol. II Psalmi in Missalis Romani Lectionario, Città del Vaticano 2005, 53.
(2) Le antifone del salmo nell’Ufficio delle Letture dell’Ascensione suggeriscono in modo deciso, ma per nulla forzato, tale cristologizzazione del testo salmico: 1 Ant.: Cantate al Signore, inneggiate al suo nome, a lui che è portato sulle nubi del cielo, alleluia; 2 ant.: Cristo, salito in alto, ha liberato i prigionieri, alleluia; 3 ant.: Ecco, appare nel santuario del cielo il corte del mio Dio, del mio re, alleluia.