Intorno rituale della Penitenza, riformato dopo il Concilio Vaticano II e promulgato sotto l’autorità di Paolo VI, e più in generale sulla situazione del sacramento della riconciliazione, capita spesso di leggere contributi e approfondimenti un poco negativi, o comunque appesantiti dalla criticità dei problemi. C’è chi parla, a proposito di molti di questi commenti, di “genere letterario”, come fosse ormai abituale e scontato sottolineare difficoltà e scogli nella pastorale della confessione e insormontabili limiti dello stesso rituale. Altri, ancora, rispolverano un termine non tanto frequente nell’italiano corrente, per significare testi dal contenuto pessimista e gravosamente aporetico: geremiade [dal dizionario: discorso lungo e lamentoso, lamentela, piagnisteo, querimonia]. In effeti, dopo la lettura di queste “geremiadi”, si rimane sconfortati: si sviscerano questioni importanti, si analizzano tutti i difetti con dovizia di particolari, ma alla fine non si intravede nessuna soluzione né speranza affidabile. Forse in questa impressione personale c’entra il fatto che siamo stati “costretti” a leggere centinaia e centinaia di pagine di bibliografia relativa al tema, tuttavia l’ipersensibilità maturata non obnubila del tutto l’oggettività dei dati.
Un testo – scovato ormai troppo tardi rispetto alla necessità di qualche tempo fa – ci ha rasserenato: si può parlare con serietà oggettiva e lucida della crisi del quarto sacramento, senza per questo cadere in conclusioni disfattiste e attese illusorie di improbabili e azzardate svolte pastorali.
Ci sembra il caso di poter dire, con proprietà pertinente, che ci troviamo dinanzi ad uno studio di teologia liturgica “in ginocchio”, per citare una qualifica recentemente attribuita – in modo discutibile (?) – alla discussa relazione del card. Kasper, durante l’ultimo Concistoro.
Il brano che proponiamo è l’epilogo dello studio di due grandi gesuiti, professori alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. Nonostante il saggio sia abbastanza datato – è di poco successivo alla pubblicazione del nuovo Rituale -, appare ancora assai stringente e attuale. Tante questioni intorno al sacramento della penitenza sono ancora aperte e gravi: i due autori, tuttavia, ce le presentano in un clima di fede e di speranza. Da quelle pagine traspare un’aria buona.
Parlando dello sviluppo futuro dell’amministrazione della penitenza, spesso si imposta la questione, come se si dovesse scegliere tra due alternative, o confessione auricolare, o celebrazione penitenziale comunitaria. Questa impostazione è falsa, poiché le due cose non si escludono, ma anzi l’una esige l’altra. Abbiamo indicato le ragioni perché la celebrazione comunitaria esige che sia completata dalla confessione particolareggiata. Aggiungiamo che per rianimare la confessione, è indispensabile che introduca progressivamente l’uso della celebrazione comunitaria.
In ciò non vi è nulla di nuovo, poiché nel passato, dove in una comunità si praticava bene la confessione, anche dopo la soppressione della penitenza pubblica, ciò era dovuto ad una celebrazione comunitaria, che abbracciava prediche, canti, preghiere, processioni, come p.es. nei quaresimali, nelle missioni popolari, nei pellegrinaggi, nelle confraternite dei penitenti, ecc. Tutto ciò aveva come fine, preparare il popolo a fare una buona confessione, che significava non solo l’integrità nel racconto dei propri peccati, ma anche e soprattutto un reale cambiamento della vita. Una delle ragioni, per cui oggi la confessione è in crisi è appunto il fatto che queste preparazioni comunitarie, oggi giudicate antiquate, non sono state ancora sostituite da altre forme, più adatte all’attuale contesto culturale. E’ infatti illusorio pensare che la maggior parte dei penitenti possa da sola individualmente prepararsi ad entrare in un dialogo approfondito sul proprio modo di vivere il cristianesimo. Proprio oggi, quando i fedeli vivono in un mondo secolarizzato, anzi ateo, e quando la vita cristiana esige perciò molto più impegno personale, essi hanno il bisogno (e dunque il diritto) ad essere aiutati a prepararsi a quest’incontro con il rappresentante della Chiesa, che non sostituisce ma rende presente Cristo.
Quando si discute su questi problemi, vi è sempre qualcuno il quale fa osservare che tutto ciò è impossibile, le abitudini del popolo non si cambiano, e perciò bisogna continuare tutto come si è fatto fino adesso. Questa obbiezione è molto realistica, poiché di fatti tutta la vita cristiana è impossibile alle forze della natura umana. Nessuno di noi può riconoscere Gesù come Signore senza la mozione interna dello Spirito (cfr. 1Cor 12,3); nessuno viene a Gesù se il Padre non lo attrae (Gv 6,44). Ma proprio questi principi dogmatici ci impediscono di valutare ciò che è possibile o impossibile nella vita pastorale, solo secondo le probabilità statistiche della psicologia sociale. I comportamenti postulati dalla struttura delle istituzioni di Cristo diventano sempre possibili per opera dello Spirito Creatore, che penetra tutto.
Se crediamo che l’istituzione della penitenza ecclesiastica per volontà divina esige che la confessione particolareggiata e personale non solo sia conservata, ma anche approfondita e sviluppata, la nostra fede ci incoraggia a sperare che ciò sarà possibile.
Lo studio della storia della penitenza non che mostrare la fondatezza di questa fiducia. Infatti, dal mare dei peccati, e della mediocrità intellettuale e morale, nel flusso della storia, riemergono sempre le grandi strutture della penitenza cristiana, in forme adatte ai diversi contesti storici. La fedeltà alle strutture essenziali della penitenza, nella storia, era possibile solo attraverso una lunga serie di cambiamenti, abbastanza radicali, che spesso provocano reazioni violente. Pensiamo alla “riforma” con cui invalse l’uso di dare la riconciliazione una sola volta nella vita, e a quella che cominciava di nuovo a riconciliare i relapsi; pensiamo al cambiamento di rimandare la soddisfazione dopo l’assoluzione (quanti potevano domandare: perché devo ancora fare penitenza? sono assolto, sì o no?), e alla prescrizione del concilio Lateranense IV, riguardo la confessione annuale. Le persone di buon senso e di mentalità pratica dovevano aspettare (con segreto compiacimento) che questi tentativi di riforma fallissero; e chi non aveva la fede, non poteva aspettare altro che uno scivolamento lento della vita penitenziale della Chiesa verso un ritualismo formalistico, come suole succedere secondo il dinamismo naturale di ogni istituzione. Noi, che abbiamo la fede, riconosciamo nella sopravvivenza dell’istituzione penitenziale un’opera dello Spirito; e perciò abbiamo la forza di sperare che il valore del sacramento della riconciliazione sarà compreso e rivalorizzato anche ai nostri tempi.
Z. Alszeghy – M. Flick, Il sacramento della riconciliazione, Torino 1976, 208-211.