I Salmi dell’Ascensione: uno sguardo alla tradizione

I salmi che compongono l’Ufficiatura della solennità dell’Ascensione sono del tutto armonici e coerenti con la Tradizione. Tuttavia, come del resto accade in ogni tipo di scelta, qualcosa è rimasto escluso. Dal punto di vista dei contenuti, del resto, questa festa è ricchissima, e la riduzione del numero dei salmi, inevitabilmente, ebbe come conseguenza l’esclusione di alcuni di essi. Per l’Ufficio delle Letture, ad es., il Salmo 67, diviso in tre sezioni, ha occupato tutto lo spazio della parte della salmodia. I periti del Coetus III del Consilium erano consapevoli che alcuni rami della tradizione presentavano altri salmi per l’ufficio vigilare dell’Ascensione, ma scelsero il salmo 67, essendo questo del tutto tradizionale e attestato.
Uno dei salmi esclusi dall’ufficiatura di questa solennità è il salmo 23. J. Daniélou (1) ha raccolto le attestazioni dei Padri che associano questo salmo al mistero dell’Ascensione, evidenziando in modo assai chiaro la ricchezza teologica di questi testi, che permettono di abbracciare con un unico sguardo tutta l’economia salvifica, dall’Incarnazione all’Ascensione.
Si deve riconoscere, del resto, che le categorie spaziali della Bibbia erano un tempo facilmente comprese e intuite: sembra che oggi occorra, invece, rimodulare questa visione del cosmo in un modo nuovo (2). Per questo, forse, i periti hanno deciso di non inserire un salmo, che pur avevano notato in alcuni salteri associato all’Ascensione: il riferimento del salmo a questa festa è dato da una visione teologica così intimamente legata alla cosmologia antica (i cieli strutturati in livelli e gradi, con angeli guardiani alle porte).
Prima di presentare, per i lettori con più pazienza e interesse, un lungo brano di Daniélou e, poi, una sezione dello Schema 244, in cui i periti del Coetus III incaricati di studiare la nuova distribuzione dei Salmi giustificano le loro proposte, vorremmo evidenziare un brano di sant’Ambrogio, in cui viene fatto un interessante parallelismo fra un elemento del Battesimo (l’incedere dei neofiti con le vesti bianche) e l’Ascensione di Cristo:
«Dopo questi riti hai ricevuto le vesti candide per indicare che ti sei spogliato dell’involucro dei peccati, hai indossato le pure vesti dell’innocenza..[…] Con queste vesti, indossate mediante il lavacro di rigenerazione, la Chiesa dice nel Cantico: Sono nera e bella, figlie di Gerusalemme, nera per la fragilità della condizione umana, bella per la grazia; nera perché formata di peccatori, bella per il sacramento della fede. Vedendo queste vesti le figlie di Gerusalemme, stupefatte, dicono: Chi è costei che sale tutta candida? Rimasero dubbiosi anche gli angeli, quando Cristo risuscitò, rimasero dubbiose le potenze celesti vedendo che la carne saliva al cielo. Per cui dicevano: Chi è questo re della gloria? E mentre alcuni dicevano: Sollevate le porte, principi vostri, ed alzatevi porte eterne, ed entrerà il re della gloria, altri rimanevano dubbiosi dicendo: Chi è questo re della gloria? Anche in Isaia trovi che le virtù dei cieli dubitando dissero: Chi è questi che sale da Edom, il colere delle sue vesti è da Bosor, splendido nella sua veste candida?” (Sant’Ambrogio, De Mysteriis, 7,34-36). Ecco ora la lunga citazione:

Giustino scrive nell'”Apologia”: “Considerate come Egli dovesse salire al cielo, secondo le profezie. E’ stato detto: Alzate le porte dei cieli, che si aprano ed il re della gloria entrerà” (LI,6-7). Questa è una citazione del Salmo 23, 7. La più antica testimonianza che possediamo dell’applicazione di questo Salmo all’Ascensione si trova nell’ “Apocalisse di Pietro”: “G1i angeli si esortavano a vicenda, affinché si compisse la parola della Scrittura: Aprite le vostre porte, o principi!” (Rev. Or. Chrét., 1910, p. 317). Qui i principi sono gli angeli, guardiani della sfera celeste, nella quale il Verbo di Dio introduce, all’Ascensione, l’umanità unita a lui. L’applicazione di questi versetti all’Ascensione è stata ben presto combinata con un tema teologico di antica data: quello di Cristo che discendeva nel mondo all’insaputa di quelle stesse potenze angeliche dei cieli intermedi, che resteranno stupite nel vederlo risalire nella sua gloria, durante l’Ascensione. Questo medesimo tema appariva da principio nell’ “Ascensione di Isaia”: “Quando il Verbo discese nel terzo cielo, assunse la forma degli angeli che là si trovavano; quelli che custodivano la porta del cielo chiesero la parola d’ordine; il Signore la pronunciò per non essere riconosciuto e, infatti, quando Lo videro, non lo lodarono in quanto non lo riconobbero, tanto il suo aspetto era simile al loro” (X, 24-26). Quando, al ritorno, il Cristo “ripassò per il terzo cielo, questa volta senza trasformarsi, tutti gli angeli, a destra e a sinistra nonché il Trono che è in mezzo a loro, l’adorarono e lo lodarono, chiedendosi: come Nostro Signore si è nascosto quando è disceso e noi non lo abbiamo capito?” (XI, 25-26).
Questo tema dell’Incarnazione nascosta agli angeli si ritrova in uno straordinario passo di sant’Ignazio di Antiochia: “Il principe di questo mondo ha ignorato la Verginità di Maria ed il suo Parto, allo stesso modo della Morte del Signore: tre misteri clamorosi compiuti nel silenzio di Dio” (Ef. 19,1). E’ addirittura san Paolo che fa menzione di questa ignoranza dell’Incarnazione e della conseguente manifestazione della gloria dell’uomo-Dio al momento dell’Ascensione: “Noi predichiamo una saggezza di Dio, misteriosa ed occulta. Questa saggezza i principi di questo mondo non l’hanno conosciuta, perché, se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria” (1 Cor. 2,7-8). Ed è “attraverso la Chiesa che i Principati e le Potestà nei cieli conoscono la saggezza infinitamente varia di Dio” (Ef. 3,10). Ora, questo tema del “descensus” nascosto e dell’“ascensus” manifestato agli angeli, guardiani delle porte del cielo, si accordava mirabilmente con l’applicazione all’Ascensione del Salmo 23. Troviamo questa concordanza in Giustino: “Principi, alzate le vostre porte; alzatevi, o porte eterne ed il re della gloria passerà. Quando Cristo risuscitò dai morti e sali al cielo, fu ordinato ai principi disposti da Dio nei cieli di aprirne le porte, affinché colui che era il re della gloria fosse potuto entrare e, una volta entrato, sedersi alla destra del Padre, intanto che non avesse fatto dei suoi nemici lo sgabello dei suoi piedi. Ma quando i principi dei cieli lo videro senza bellezza, senza onore, né gloria nell’aspetto, non lo riconobbero e dissero: chi è questo re della gloria?” (XXXVI,4-6). Appare un elemento nuovo: nell’“ascensus” gli angeli non riconoscono Cristo a causa dell’apparenza umana di cui è rivestito. L’espressione “senza bellezza” è un’allusione al versetto 2 di Isaia 53: “Era senza bellezza”: uno dei testi più frequentemente citati nel contesto della comunità primitiva. Sant’Ireneo commenta a sua volta il salmo in questo senso, senza tuttavia il concetto finale: “Che egli dovesse essere elevato al cielo, Davide lo aveva detto: alzate, o principi, le vostre porte; alzatevi, o porte eterne ed il re della gloria passerà! Le porte eterne rappresentano il cielo. Come il Verbo è disceso senza essere visibile alle creature, Egli non fu da esse riconosciuto durante la sua discesa. Reso visibile nella sua Incarnazione, Egli è elevato al cielo; scorgendolo, gli angeli da sotto gridano a quelli che sono sopra: aprite le vostre porte, alzatevi, o porte eterne, sta per entrare il re della gloria! E mentre gli angeli in alto si chiedevano stupiti: “chi e costui?”, coloro che lo vedevano, esclamavano di nuovo: è il Signore forte e potente, è Lui il re della gloria!” (Dém., 84). Il punto di vista teologico di Ireneo modifica un poco quello di Giustino. Con Origene, ritroviamo il tema di Giustino: “Come lui avanzò, vincitore, con il suo corpo risuscitato dai morti, alcune Potenze dissero: chi è costui che viene da Bozra, con le vesti tinte di rosso? (Is. 63,1). Ma quelli che lo accompagnavano dissero ai custodi delle porte dei cieli: apritevi, porte eterne!” (Co. Jo., VI,56; Preuschen, 165). Sant’ Atanasio contribuisce con una sfumatura diversa: “Gli angeli del Signore che lo seguirono sulla terra, vedendolo salire, l’annunciano alle Virtù celesti affinché esse aprano le loro porte. Le Potestà sono stupite vedendolo incarnato. E’ per questo che gridano: “chi è costui?”, colpite da un fatto cosi incredibile. E gli angeli, che salgono con Cristo, rispondono loro: “Il Signore delle Virtù è il re della gloria e svela a coloro che sono nei cieli il grande mistero, che cioè Colui che ha vinto i nemici spirituali è il re della gloria” (Exp. Psalm., XXIII; P.G., XXVII, 141 D). Si sente l’influenza di Origene, soprattutto nel tema degli angeli che discendono con Gesù e che risalgono con Lui. Gregorio di Nissa riprende il tema in modo differente ma, soprattutto in un testo tanto più interessante per noi in quanto ripreso dal Breviario romano come lezione del secondo notturno del mercoledì nell’ottava dell’Ascensione: “Davide, uscito da se stesso, non più gravato del peso del proprio corpo e confuso tra le Potestà ipercosmiche che accompagnavano il Signore nella sua discesa, ci descrive il loro invito agli angeli, che circondano da vicino la terra ed a cui è affidata l’esistenza umana, di alzare le loro porte” (P.G., XLVI,693). Ma questi angeli non riconoscono il Signore, “perché Costui, adattandosi sempre alle capacità di colui che lo riceve, come si fa uomo con gli uomini, si fa angelo con gli angeli”. Costoro, dunque, chiedono: “Chi è questo re della gloria?” Ritroviarno la concezione dell’“Ascensione di Isaia” su Cristo che riveste le forme successive delle nature angeliche che incontra nel corso della sua discesa, approfondita da quella di Origene per cui il Verbo si adatta alle capacità di coloro che lo ricevono. Passiamo all’Ascensione: “Nel corso di questa, al contrario, coloro che formano il suo corteo, ordinano alle Porte ipercosmiche di aprirsi, perché sia di nuovo adorato in esse; non viene riconosciuto perché è rivestito con le povere Vesti della nostra natura e perché le sue vesti si sono arrossate dopo che Egli ha pigiato nel frantoio delle miserie umane. Le Porte, questa volta, grideranno: chi è questo re della gloria?” (693, B-C). L’assenza di bellezza, a causa della natura umana e della sua Passione, impedisce a Cristo, durante l’Ascensione, di essere riconosciuto dalle Potestà celesti; è un tema questo che ricorda Giustino ed Origene (stessa citazione da Isaia, 63, l) e che ci riporta al “De Mysteriis” di sant’Ambrogio: “Perfino gli angeli dubitarono, quando Cristo risuscitò e, vedendo la sua carne salire al cielo, domandavano: “chi è questo re della gloria?”. Mentre alcuni esclamavano: “Alzate le porte, o principi, ed entrerà il re della gloria!”, altri dubitavano e chiedevano: “chi è Colui che sale da Edom? (Is. 63, l)” (De Myst., 36).

J. Daniélou, Bibbia e Liturgia, Roma 1998,267-270

[p. 244/8]
Ascensio Domini
42) I. Vesperae
Ps 112 propter vv. 4-6: “Excelsus super omnes gentes Dominus..”
Ps 116 Gentes omnes invitantur ad adorandum Christum
Apc 12,10-12 II. pars cantici assignati fer. V.: “Nunc facta est salus et virtus et regnum Dei nostri et potestas Christi eius”.
43) Officium lectionis (cf. app. IV)
Contra maioritatem mss. aliquae breviaria Medii Aevi Diei Ascensionis assignant Ps 67. Hic psalmus optime aptus est pro hoc mysterio. Usque nunc apparet in Officio lectionis die Pentecostes propter v. 29: “Confirma hoc..”. Sed in novo psalterio alia interpretatio adest. Quare proponitur pro Ascensione Ps 67,2-12 / 13-25 / 26-36
[p. 244/9]
Ps 67 occurrit in Missa Ascensionis tamquam versus ad Alleluia et pro Communione. Etiam in Seriebus III. et VI. apud Salmon interpretatur de Ascensione. Patet hoc fieri propter vv. 55-54: “Psallite Domino, qui ascendit super caelos caelorum” et vv. 18-19: “Dominus …ascendens in altum captivam duxit captivitatem”. Inter psalmos traditionales praedilectus est Ps 46. Quapropter proponitur pro II. Vesperis post Ps 109.
44) II. Vesperae
Ps 109, quia die Ascensionis Christus exaltatur ad dexteram Patris.
Ps 46 propter v .6: “Ascendit Deus in iubilatione…” qui in Missa est responsum Offertorii. Cf. etiam Titulum apud Salmon Ser. I. et III. Pulcherrime loquitur sic interpretando s.Augustinus En. in Ps XLVI; CChr. XXXVIII, p.555. Cf. Cassiodorum, Exp. in Ps XLVI; CChr. XCVII, p.422s.
Apc 11,17.18, quod alludit ad parusiam cf. Act 1,11.

Consilium ad Exsequendam Constitutionem de sacra Liturgia, Coetus III, Schema 244, De breviario 59

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(1) Cf. J. Daniélou, Bibbia e Liturgia. La teologia biblica dei Sacramenti e delle feste secondo i Padri della Chiesa, Roma 1998; anche Id., “Les Psaumes dans la liturgie de l’Ascension”, LMD 21 (1950) 40-56: i salmi a cui Daniélou fa riferimento sono, oltre al Salmo 23, il 109 e il 67.

(2) Cf. quello che già da giovane teologo J. Ratzinger scriveva in Introduzione al cristianesimo, Brescia, 1996, pp.254-256: http://www.gliscritti.it/antologia/entry/206

Un versetto “transitorio”, che mostra la “rifiorita” vitalità della tradizione che non passa.

Al numero 63 dei “Principi e norme per la liturgia delle Ore”, nella descrizione dell’Ufficio delle Letture, si fa riferimento ad un elemento marginale, rispetto alla salmodia e alle letture: “Tra la salmodia e le letture si dice, di solito, il versetto; con esso l’orazione passa dalla salmodia all’ascolto delle letture”.
Uno dei curatori della riforma del Breviario classifica questo tipo di versetti come “versetti transitori”: “Sono un tratto di unione fra la salmodia e la lettura nell’Ufficio di meditazione. Servono ad indicare l’orientamento psicologico particolare, che il recitante deve avere uscendo dalla prima zona ed entrando nella seconda. Segnano il passaggio dal lirismo dei salmi alla meditazione delle letture. […] Il versetto transitorio serve soprattutto ad intensificare la disposizione degli animi all’ascolto della Parola di Dio. Esso ha ora notevole importanza perché, soppressi il Pater noster, l’assoluzione e la benedizione fra salmi e lezione, resta l’unico ponte fra settori” (1).
Se da una parte, nella riforma del Breviario, si registra una soppressione di alcune componenti, dall’altra si nota una particolare cura anche nei dettagli, con una sapiente capacità di mantenere e riproporre nuovamente elementi tradizionali: il tutto forma una trama preziosa. E anche un singolo dettaglio può aprire orizzonti e intrecci sorprendenti.
Vediamo un esempio.
I versetti transitori si ripetono ciclicamente. Nel tempo pasquale, per l’Ufficio delle Letture della Domenica (cf. Domenica III, IV, V, VI, VII di Pasqua), è stato assegnato il versetto: E’ rifiorita la mia carne, alleluia: nel mio spirito rendo grazie a Dio, alleluia [LH: Refloruit caro mea, alleluia. Et ex voluntate mea confitebor illi, alleluia].
La fonte di questo testo è il salmo 27 secondo la Vulgata: “Dominus adiutor meus et protector meus, in ipso speravit cor meum et adiutus sum et refloruit caro mea et ex voluntate mea confitebor ei”. L’odierna traduzione recita invece “Il Signore è mia forza e mio scudo, in lui ha confidato il mio cuore, con il mio canto voglio rendergli grazie” [Sal 28(27)7].
Sembrerebbe assai felice la scelta di mantenere l’antica lezione. Essa permette l’aggancio con un’antica tradizione interpretativa e liturgica.
Nella classificazione dei Tituli psalmorum curata da P. Salmon, secondo i più antichi manoscritti e salteri, al salmo 27, nella serie V, era associato il titolo “[vicesimus septimus psalmus ostendit] quod ipse adiuvatus a Patre, florescente de sepulchro carne resurrexit(2) [(il salmo ventisettesimo) mostra che (Cristo) stesso, aiutato dal Padre, è risorto dal sepolcro, con la (sua) carne “in fiore”).
Che questa interpretazione cristologica fosse del tutto evidente – e che forse, in qualche modo, la recita del salmo 27 dovesse essere presente nelle liturgie pasquali – lo mostra il fatto che san Massimo di Torino, in uno dei suoi sermoni pasquali, potè citarlo nella sua avvincente e commovente omelia, senza alcuna difficoltà, come se gli uditori lo avessero ben presente.
Ecco come Bibbia e Liturgia possono arricchire, in modo lussureggiante e rigoglioso, la spiritualità e la preghiera cristiana. In esse permane, come un fiore profumato, la perenne giovinezza e vitalità del Signore.  Ma, ora, la parola a s. Massimo:

L’uomo è riportato dalla grazia alla più giovane età e, pur essendo spossato dalla vecchiaia, di nuovo rinasce nei costumi quale bimbo innocente, così che, dopo aver ricevuto il Sacramento, da vecchi ci ritroviamo bambini. Il rinnovamento significa lasciare quel che eri e assumere quel che fosti all’inizio. A tale rinnovamento sono chiamati i neofiti, per cui abbandonate le colpe del passato per una vita nuova, ricevono la grazia della semplicità, come dice l’Apostolo: «Dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio». Onde anche Davide dice: «Tu rinnovi come aquila la tua giovinezza»; in queste parole puoi intendere la grazia del battesimo, per cui può rinascere quanto nella nostra vita sta per morire, e rinnovarsi nella giovinezza ciò che è rovinato dalla vetustà dei peccati. E affinché sappia anche tu che il profeta parla della grazia del battesimo, ha paragonato il rinnovamento a quello dell’aquila, di cui si dice che cambia continuamente le penne: mentre perde le vecchie ringiovanisce con le nuove che le sostituiscono, così che dopo aver messe da parte le spoglie del passato, si riveste a nuovo. Anche i nostri neofiti recentemente battezzati, deponendo come l’aquila le spoglie del passato, hanno indossato la nuova veste della santità e, mentre i peccati passati sono venuti meno, essi vengono ornati con la grazia dell’immortalità. In essi sono invecchiati solo i caduchi peccati della vecchiaia, non la vita, e come l’aquila è trasformata in una rinnovata giovinezza, così essi rinascono nell’infanzia spirituale. Sanno come devono comportarsi nel mondo, ma manca loro la sicurezza nel cammino della ritrovata giustizia. Consideriamo perciò con maggior attenzione quel che dice il santo Davide; non dice: si rinnoverà come le aquile la tua giovinezza, ma come l’ aquila. Afferma dunque che la nostra giovinezza si deve rinnovare come un’unica aquila. Direi che questa sola e unica aquila è in realtà Cristo Signore, la cui giovinezza si è rinnovata quando è risorto dai morti. Deposte le spoglie del corpo corruttibile, è rifiorito assumendo la carne rediviva, come dice egli stesso per mezzo del profeta: «E’ rifiorita la mia carne e con il mio canto gli rendo grazie». Dice: «è rifiorita la mia carne». Guardate quale verbo ha usato. Non disse: è fiorita, ma è rifiorita. Infatti non può rifiorire ciò che prima non era fiorito. La carne del Signore era fiorita, quando per la prima volta è uscita dall’illibato seno della Vergine Maria, come dice Isaia: «Un germoglio spunterà dal tronco di Jesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici». Invece è rifiorita allorché, reciso dai Giudei il fiore del suo corpo, è germogliata rediviva nella gloria della risurrezione; e come un fiore ha esalato su tutti gli uomini il profumo e lo splendore dell’immortalità, spargendo cioè il soave odore delle buone opere e mostrando lo splendore dell’incorruttibile eterna divinità.

San Massimo di Torino, Disc. 55,1-2

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(1) V. Raffa, La liturgia delle Ore. Presentazione storica, teologica e pastorale, Milano 1990, 173.
(2) P. Salmon, Les “Tituli psalmorum” des manuscrits latins (Collectanea Biblica Latina 12), Città del Vaticano 1959, 139.

Di nuovo sul buon ladrone e sulle sue “ricadute” liturgiche

Quando si stava preparando il post precedente, sul tema del buon ladrone nella liturgia pasquale, non si era prestata attenzione alle antifone della Liturgia delle Ore. Così, quando ieri mattina (venerdì 23 maggio) si sono pregati i salmi delle Lodi Mattutine, la liturgia ha ancora una volta confermato la sua sorprendente ricchezza. Come ogni venerdì, come primo salmo, si doveva pregare il Miserere. Ma in questa prima settimana del ciclo quadrisettimanale del salterio adattato al tempo di Pasqua, il salmo 50 è accompagnato da un’antifona eccezionale, costituita da una citazione esplicita della frase del buon ladrone. Un tale rimando aiuta la contestualizzazione del salmo nella concreta celebrazione, e favorisce il senso spirituale con cui si prega quel salmo. Avendo ben presente l’episodio del buon ladrone e la ricchezza dell’interpretazione patristica a riguardo, si può essere introdotti nella preghiera del salmo 50 in un modo davvero particolare e proprio.
Ma anche nelle altre settimane del tempo pasquale il medesimo testo pregato nelle lodi dei venerdì assume un particolare tono.
Ecco le antifone proprie del tempo di Pasqua che accompagnano il ciclo quadrisettimanale.
I Sett., Ant.: Ricordati di me, Signore mio Dio, quando sarai nel tuo regno, alleluia [Memento mei, Domine Deus, dum veneris in regnum tuum, alleluia]: cf. Lc 23,42
II Sett., Ant.: Coraggio, figlio, i tuoi peccati sono perdonati, alleluia [Confide, fili, remittuntur tibi peccata tua, alleluia]: cf. Mt 9,2 [la guarigione del paralitico]
III Sett., Ant: Purificami ancora, o Dio, da ogni mia colpa, alleluia [Amplius lava me, Domine, ab iniustitia mea, alleluia]: cf. Sal 50(51),4a
IV Sett., Ant: Per noi Cristo ha dato la sua vita, sacrificio gradito a Dio, alleluia [Christus se tradidit pro nobis oblationem et hostiam De, alleluia]: cf. Ef 5,2 [parenesi di Paolo sulla vita nuova in Cristo].

Non è sempre facile, è vero, aver presente la molteplicità dei rimandi e dei possibili intrecci, dal libro liturgico solamente accennati, né, del resto, si può appesantire eccessivamente la preghiera e la meditazione con richiami testuali al di fuori della struttura schematica della celebrazione delle Ore. Rimane però assai utile mantenere il principio e una certa familiarità con la Bibbia e con la Liturgia: in essa, infatti, la Scrittura si illumina con altra Scrittura, e quest’ultima riceve nuova luce dalla celebrazione liturgica (gesti, testi e contesti): si viene così formando un ordito preziosissimo e raffinato, tutto da svelare e da gustare. E che non cessa di sorprendere.

 

Il buon ladrone nella liturgia del tempo di Pasqua: un “precedente” che crea giurisprudenza.

Dobbiamo fidarci dei patrologi e degli esperti di filologia, nell’accettare le attribuzioni che stabiliscono. E’ indubbio però che vi sia una sorprendente affinità fra l’inno, attribuito ad Ambrogio, Hic est dies verus Dei, e alcuni passaggi di Sermoni oggi attribuiti a san Massimo di Torino. In passato vi era più confusione: alcuni mettevano in dubbio la paternità santambrosiana dell’inno che l’odierna Liturgia delle Ore assegna all’Ufficio delle Letture del tempo di Pasqua, altri – al contrario – attribuivano a sant’Ambrogio, finanche a Sant’Agostino, pure i Sermoni di cui vorremmo parlare qui, dopo aver già scritto qualcosa a proposito dell’inno (cf. https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2013/11/23/un-ladrone-impunito-una-fede-breve-e-veloce-misericordia-questo-e-il-regno-di-dio/).
Più recenti studi hanno contribuito a precisare le questioni (1), e si è riusciti a contestualizzare alcuni testi nella predicazione liturgica (2) del Vescovo Massimo di Torino (†417/423). Non si può stabilire con certezza se i due si siano conosciuti personalmente, ma si può constatare agevolmente un’affinità fra i due, quanto all’esegesi e alla sensibilità teologica. In particolare, fra le fonti di Massimo vi è senza dubbio il commento a san Luca di sant’Ambrogio.
Comunque siano andate le cose, è fuori di dubbio che la figura del buon ladrone sia stato un personaggio assai attraente per la predicazione dei due Padri. Si tratta, decisamente, di un tema pasquale.

Il sermone più vicino all’Inno Hic est dies verus Dei è il Sermone 53, predicato nel giorno di Pasqua. L’abbrivio era il versetto 24 del Salmo 118(117) [Haec est dies quam fecit Dominus: exultemus et laetemur in ea], un testo evidentemente proclamato o cantato nella celebrazione pasquale. Si noteranno facilmente le somiglianze e gli echi del testo poetico di Sant’Ambrogio. Sottolineiamo una particolare espressione, resa da questa traduzione con “precedente”. Il termine “praerogativa”, almeno nel latino classico, apparteneva al linguaggio giuridico. Il santo vescovo Massimo avrà voluto intendere in tal senso l’episodio del buon ladrone graziato: una sentenza che ha creato giurisprudenza?

Fratelli, tutti in questo santo giorno dobbiamo esultare [Igitur, fratres, omnes in hac die sancta exultare debemus]. Nessuno si sottragga alla comune letizia per la coscienza dei peccati, nessuno si lasci distogliere dalla preghiere pubbliche per il fardello delle colpe [Nullus se a communi laetitia peccatorum conscientia subtrahat, nullus a publicis votis delictorum sarcina revocetur!]. Per quanto peccatore, in questo giorno non deve disperare del perdono; c’è, infatti, un precedente non da poco [Quamvis enim peccator, in hac die de indulgentia non debet desperare; est enim praerogativa non parva]. Se il ladrone meritò il paradiso, perché non dovrebbe meritare il perdono il cristiano? E se il Signore ha misericordia di lui quand’è crocifisso, tanto più avrà misericordia di costui, quando risorge; e se l’umiliazione della passione tanto procurò a chi confessava, la gloria della risurrezione quanto recherà a chi supplica? [Si enim latro paradysum meruit, cur non mereatur veniam christianus? Et si illi Dominus cum crucifigitur miseretur, multo magis huic miserebitur cum resurgit; et si passionis humilitas tantum praestit confidenti, resurrectionis gloria quantum tribuet depraecanti?]

I due sermoni che seguono, secondo il parere degli studiosi, sono stati predicati in Quaresima: ma ciò non stupisca, la figura del buon ladrone è un ottimo spunto per predicare la conversione e il pentimento in vista delle festività pasquali. Del resto, anche sant’Ambrogio pensava che esso fosse uno splendido esempio del dovere di aspirare con tutte le forze alla conversione [pulcherrimum adfectandae conversionis exemplum].

Sermone 74
Il fortunato ladrone, infatti, mentre patisce il supplizio, ottiene il regno celeste [Beatus enim latro dum supplicium patitur, regnum caeleste consequitur]. Ecco un reo, come si dice, cui giovò in quel momento essere condannato [Ecce reus, sicut dicitur, cui damnari id temporis expediunt]. […]
Meraviglia! Confessa il ladrone colui che il discepolo rinnegò. Meraviglia, ripeto! Il ladrone rende onore, mentre lo vede patire, a Colui che Giuda tradì, mentre lo baciava [Mira res: confitetur latro quem discipulus abnegavit. Mira, inquam, res: latro honorificat patientem, quem Iudas prodidit osculantem].

Sermone 75
La Bontà vostra ricorda, fratelli, che ho spiegato il motivo per cui il ladrone, da tempo dedito a crimini tanto gravi e condannato dalla confessione dei propri delitti, potè meritare il paradiso proprio sul patibolo del supplizio e fu salvato con tale prontezza che la grazia raggiunse i suoi peccati prima della pena e dai propri mali egli ricevette gloria prima che punizione [et tanta fuerit celeritate salvatus, ut peccata eius gratia praevenerit antequam poena, et prius in malis suis gloriari coeperit quam puniri].
A Pietro Cristo dice: Non puoi seguirmi ora, mi seguirai dopo. A costui, invece, dice: Oggi sarai con me in paradiso. L’uno vien fatto aspettare come avesse troppa fretta e l’altro viene invitato come un compagno [tamquam praeproperus ille differtur, et hic tamquam socius invitatur]; l’uno è posto in attesa fino al momento del premio, l’altro è già amato fino alla condivisione della sorte [ille adhuc reservatur ad premium, et iam ad consortium iste diligitur]. Non puoi, dice, seguirmi ora. E’ impossibile per Pietro seguire il Signore e già è facile per il ladrone essere con il Signore [Impossibile est Petro sequi Dominum, et iam facile latroni esse cum Domino]. Oggi, dice, sarai con me in paradiso. Non è rimandato a un altro momento, non è posto in attesa per un altro giorno [Non in aliud differtur tempus, non in diem alteram reservatur]. Nella stessa ora in cui il paradiso accolse il Signore, accolse anche il ladrone [Ipsa hora, qua paradysus Dominum suscepit, suscepit et latronem]. Uno solo patì per la salvezza di tutti, ma per i due allo stesso modo la porta dell’immortalità si apre. […] Ma fu la fede a garantire al ladrone una tale gloria. E’ la fede, infatti, che copre i peccati, che vince i crimini, che trasforma dei ladroni in uomini innocenti. Per quanto grande sia la colpa di chi sbaglia, ancor più grande è la grazia della fede [Quamvis enim delinquentium grandis culpa sit, fidei tamen maior est gratia]. Vale di più l’aver creduto in Cristo che l’aver sbagliato in terra: conta di più l’aver sperato il perdono dal Signore che l’aver contratto la colpa dal mondo [Plus est enim credi disse in Christo quam in saeculo deliquisse; et plenioris est meriti veniam sperasse a Domino quam culpam contraxisse de mundo].
[…]
Grande, ripeto, fu la fede in quel ladrone e paragonabile a quella dei santi apostoli, se non che forse la anticipò addirittura [Magna, inquam, fides in illo latrone fuit et sanctis apostolis comparando, nisi quod et forte praecesserit]. Giunse prima, infatti, per devozione colui che giunse prima anche per il premio [Praecessit enim devotione, qui praecessit et praemio]. E il ladrone pervenne al paradiso prima degli apostoli [Prior enim latro ad paradysum quam apostoli pervenerunt].

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(1) Cf. l’introduzione all’«Hic est dies verus Dei» offerto nell’edizione degli Inni curata da A. Bonato: S. Ambrogio, Inni, Introduzione, traduzione e commento di Antonio Bonato (Letture cristiane del primo millennio, 12), Milano 1992, 222-225.

(2) Massimo di Torino, Sermoni liturgici, Introduzione, traduzione e note di Milena Mariani Puerari (Letture cristiane del primo millennio, 28), Milano 1999.

La versione originale, in spagnolo, del contributo di F.M. Arocena

Abbiamo notato che vi sono alcuni lettori del blog provenienti da Paesi di lingua spagnola. Per loro pubblichiamo il contributo di F.M. Arocena anche nella versione originale, testo che avevamo tradotto in italiano e pubblicato nel precedente post.

LOS SALMOS Y LAS ANTÍFONAS DE COMUNIÓN:
UN CIERTO SALTERIO EUCARÍSTICO?

Sobre las antífonas de comunión, la Ordenación general del Misal romano prescribe:

“Mientras el sacerdote comulga el Sacramento, comienza el canto de comunión, canto que debe expresar, por la unión de voces, la unión espiritual de quienes comulgan, demostrar la alegría del corazón y manifestar claramente la índole «comunitaria» de la procesión para recibir la Eucaristía. El canto se prolonga mientras se administra el Sacramento a los fieles. En el caso de que se cante un himno después de la comunión, el canto de comunión conclúyase a su tiempo (…).
Para canto de comunión se puede emplear o la antífona del Gradual Romano, con salmo o sin él, o la antífona con el salmo del Gradual simple, o algún otro canto adecuado, aprobado por la Conferencia de los Obispos. Lo cantan el coro solo o también el coro o un cantor, con el pueblo.
Si no hay canto, la antífona propuesta por el Misal puede ser rezada por los fieles, o por algunos de ellos, o por un lector, o, en último término, la recitará el mismo sacerdote, después de haber comulgado y antes de distribuir la Comunión a los fieles” (nn. 86-87).

El canto de comunión, del que existen ya testimonios en los siglos IV-V, consistió primeramente en el canto responsorial de un salmo. El salmo 33, por ejemplo, aparece en casi todos las Iglesias locales primitivas como canto para la comunión en razón del versículo: “gustad y ved qué bueno es el Señor”. El Ordo RomanusI habla de un salmo cantado ya íntegramente por el coro. Los versículos del salmo fueron disminuyendo con la disminución de la comunión de los fieles, y ésta, al desaparecer prácticamente, hizo que desapareciera también el canto del salmo y quedó sólo la antífona. Actualmente, en las antífonas de comunión tienen una triple temática:

a) la referencia al Evangelio proclamado en la celebración.
En ocasiones esto se ha buscado y se propone de intento, pues si lo que resuena en el momento de la comunión es el Evangelio, entonces es fácil captar la conexión intrínseca que se da entre la palabra proclamada en la celebración y el Don de la Eucaristía.

b) el propio del tiempo o de la fiesta.
Una morada a las antífonas de comunión de Adviento, Navidad, Cuaresma y Pascua muestra que los textos están elegidos en función de la espiritualidad propia de esos “tiempos fuertes”. En ellos, son escaas las antífonas que se toma del Salterio.

c) la Eucaristía.
Frecuente sobre todo en el tiempo ordinario. A lo largo de las 34 semanas de este ciclo, casi siempre las antífonas de comunión se toman del Salterio. Un examen sincrónico de esas antífonas revela que los versículos sálmicos se han elegido para cada domingo con el fin de dar un determinado color eucarístico a cada celebración. Lo comprobamos en la tabla que sigue:

DOM. SALMO ANTÍFONA DE COMUNIÓN

1 Sal 35, 10 Señor, en ti está la fuente de la vida, y tu luz nos hace ver la luz.
2 Sal 22, 5 Para mí, Señor, has preparado la mesa y has llenado la copa hasta los bordes.
3 Sal 33, 6 Acudid al Señor, poned en él vuestra confianza y no quedaréis defraudados.
4 Sal 30, 17-18 Ven, Señor, en ayuda de tu siervo y sálvame por tu misericordia. Que no me arrepienta nunca de haberte invocado.
5 Sal 106, 8-9 Demos gracias al Señor por su misericordia, por las maravillas que hace por su pueblo; porque da de beber al que tiene sed y les da de comer a los hambrientos.
6 Sal 77, 29-30 El Señor colmó el deseo de su pueblo: comieron y quedaron satisfechos.
7 Sal 9, 2-3 Proclamaré Señor, todas tus maravillas y me alegraré en ti y entonaré salmos a tu nombre, Dios Altísimo.
8 Sal 12, 6 Cantaré al Señor por el bien que me ha hecho; y entonaré un himno de alabanza al Dios Altísimo.
9 Sal 16, 6 Yo te invoco, porque tú me respondes, Dios mío; inclina el oído y escucha mis palabras.
10 Sal 17, 3 Señor, tú eres mi amor, mi fuerza y mi refugio, mi liberación y mi ayuda. Tú eres mi Dios.
11 Sal 26, 4 Una sola cosa he pedido al Señor y es lo único que busco: habitar en su casa todos los días de mi vida.
12 Sal 144, 15 Los ojos de todos los hombres te miran, Señor, llenos de esperanza, y tú das a cada uno su alimento.
13 Sal 102, 1 Alma mía, bendice al Señor y alaba de corazón su santo nombre.
14 Sal 33, 9 Probad y ved qué bueno es el Señor; dichoso el que se acoge a él.
15 Sal 83, 4-5 Dichosos los que se acercan a tu altar, Señor. Dichosos los que vivenen tu casa y pueden alabarte siempre, Rey mío y Dios mío.
16 Sal 110, 4-5 Para perpetuar su amor, el Señor nos ha dejado el memorial de sus prodigios, y ha dado a sus amigos el signo de un banquete que les recuerde para siempre su alianza.
17 Sal 102, 2 Bendice, alma mía, al Señor y no olvides sus muchos beneficios.
18 Sb 16, 20 Nos has enviado, Señor, un pan del cielo que encierra en sí toda delicia y satisface todos los gustos.
19 Sal 147, 12.14 Alaba, Jerusalén, al Señor, porque te alimenta con lo mejor de su trigo.
20 Sal 129, 7 Mi alma espera al Señor con más ansia que los centinelas el amanecer, porque con el Señor viene la misericordia y la abundancia de su gracia.
21 Sal 103, 13-15 La tierra está llena, Señor, de dones tuyos, de ti proviene el pan y el vino que alegra el corazón humano.
22 Sal 30, 20 Qué grande es la delicadeza del amor que tienes reservada, Señor, para tus hijos.
23 Sal 41,2-3 Como la cierva busca el agua de los ríos, así, sedienta, mi alma te busca a ti, Dios mío.
24 Sal 35, 8 Señor Dios, qué valioso es tu amor. Por eso los hombres se acogen a la sombra de tus alas.
25 Sal 118, 4-5 Tú promulgas, Señor, tus preceptos para que se observen con exactitud. Que mi conducta se ajuste siempre, al cumplimiento de tu voluntad.
26 Sal 118, 49-50 Recuerda, Señor, la promesa que le hiciste a tu siervo; en ella he puesto toda mi esperanza y ha sido ella mi consuelo en la aflicción.
27 Lm 3, 25 Bueno es el Señor con los que en él confían, con aquellos que no cesan de buscarlo.
28 Sal 33, 11 Los que buscan riquezas, sufren pobreza y hambre; los que buscan al Señor, no carecen de nada.
29 Sal 32, 18-19 Los ojos del Señor están puestos en sus hijos, en los que esperan en su misericordia, para librarlos de la muerte y reanimarlos en tiempo de hambre.
30 Sal 19, 6 Llenos de júbilo porque nos ha salvado, alabemos la grandeza del Señor, nuestro Dios.
31 Sal 15, 11 Me has enseñado el sendero de la vida, me saciarás de gozo en tu presencia.
32 Sal 22, 1-2 El Señor es mi pastor, nada me falta; en verdes praderas me hace recostar; me conduce hacia fuentes tranquilas para reparar mis fuerzas.
33 Sal 72, 28 Mi felicidad consiste en estar cerca de Dios y en poner sólo en él mis esperanzas.
34 Sal 116, 1-2 Alabad al Señor todas las naciones, aclamadlo todos los pueblos, porque grande es su amor hacia nosotros y su fidelidad dura por siempre.

En los 34 domingos, las antífonas de comunión vienen a ser como la sedimentación sacramental y el remanso oracional de cada celebración eucarística. Durante el tiempo ordinario, el canto de cada una de estas antífonas es la musicalización de la comunión de cada día. Es tal la selección y “re-contextualización”de estos versículos sálmicos, que el conjunto de todos ellos parece sugerirnos un cierto “Salterio eucarístico”.

En resumen, el hecho de que las antífonas de entrada y de comunión sean versículos tomados del Salterio, al menos en algunos formularios de misas, pone de manifiesto la riqueza de los salmos, los cuales, por recoger en clave oracional los más variados sentimientos y estados de ánimo, nos disponen a un amplio género de celebraciones, que discurren desde las misas de Adviento, Navidad, Cuaresma… pasando por la celebración de los Santos, hasta las misas para diversas necesidades, votivas y rituales.

La fuente de estas antífonas es, generalmente, la Vulgata de san Jerónimo. La nueva edición típica del Misal Romano, aunque es posterior a la publicación de la Neovulgata, sin embargo no ha modificado el texto de estas antífonas, sino que ha añadido a la cita la indicación “cfr.” cuando el texto no coincidía con el de la Neovulgata. De este modo se respetan las venerables melodías gregorianas, recogidas en el Gradual romano, y que durante siglos se han cantado en las celebraciones del Rito Romano.

100 articoli! Un traguardo che festeggiamo con un contributo di Felix M. Arocena Solano

Il Blog ha raggiunto un traguardo importante: sono stati postati 100 “articoli”, o post, con un linguaggio più adatto al formato.

Festeggiamo questa meta postando la nostra traduzione di un contributo che ci ha inviato dalla Spagna il prof. Félix Maria Arocena Solano. Per conoscere il valore e la produzione del professore, si può consultare la pagina a lui dedicata sul sito dell’Università di Navarra ( http://www.unav.es/adi/servlet/Cv2.ara?personid=78332 ).

E’ un onore saperlo fra i lettori del blog. Il contributo che ci aveva inviato qualche tempo fa testimoniava l’affinità con le tematiche e le intenzioni del nostro minuscolo blog. Lo consideriamo davvero un regalo gradito e un incoraggiamento importante. Con il suo gentile consenso, il testo da lui preparato diventa il modo di festeggiare i 100 articoli raggiunti.

Approfittiamo dell’occasione di ringraziare tutti i lettori.

“Una sorta di salterio eucaristico”, di F.M. Arocena Solano

Sulle antifone di comunione, l’Ordinamento generale del Messale romano prescrive: Mentre il sacerdote assume il Sacramento, si inizia il canto di Comunione: con esso si esprime, mediante l’accordo delle voci, l’unione spirituale di coloro che si comunicano, si manifesta la gioia del cuore e si pone maggiormente in luce il carattere ‘comunitario’ della processione di coloro che si accostano a ricevere l’Eucaristia. Il canto si protrae durante la distribuzione del Sacramento ai fedeli. Se però è previsto che dopo la Comunione si esegua un inno, il canto di Comunione s’interrompa al momento opportuno. […] Per il canto alla Comunione si può utilizzare o l’antifona del Graduale romanum, con o senza salmo, o l’antifona col salmo del Graduale simplex, oppure un altro canto adatto, approvato dalla Conferenza Episcopale. Può essere cantato o dalla sola schola, o dalla schola o dal cantore insieme al popolo. Se invece non si canta, l’antifona alla Comunione proposta dal Messale può essere recitata o dai fedeli, o da alcuni di essi, o dal lettore, altrimenti dallo stesso sacerdote dopo che questi si è comunicato, prima di distribuire la Comunione ai fedeli” (nn. 86-87).
Il canto di comunione, di cui esistono testimonianze già nei secoli IV-V, consisteva da principio nel canto responsoriale di un salmo. Il salmo 33, ad esempio, appare in quasi tutte le Chiese locali primitive come canto alla Comunione, in ragione del versetto: “gustate e vedete com’è buono il Signore”. L’Ordo Romanus I parla di un salmo già cantato integralmente dal coro. I versetti del salmo diminuirono progressivamente con il diminuire della comunione dei fedeli, e quando questa di fatto scomparve, fece sì che sparisse anche il canto del salmo e rimase solo l’antifona. Attualmente, le antifone di comunione hanno una triplice tematica.
a) Il riferimento al Vangelo proclamato nella celebrazione
Lo si è cercato e lo si propone appositamente, giacché se ciò che risuona nel momento della Comunione è il Vangelo, allora sarà facile cogliere la connessione intrinseca tra la parola proclamata nella celebrazione e il Dono dell’Eucaristia.
b) Il proprio del tempo o della festa.
L’attenzione alle antifone di Comunione di Avvento, Natale, Quaresima e Pasqua mostra che i testi sono stati scelti in funzione della spiritualità propria di questi tempi forti. In essi, le antifone che si prendono dal Salterio sono piuttosto scarse.
c) L’Eucaristia.
Frequente soprattutto nel tempo ordinario. Lungo le 34 settimane di questo ciclo, quasi sempre le antifone di Comunione sono prese dal Salterio. Un’analisi sincronica di queste antifone rivela che i versetti salmici sono stati scelti per ciascuna domenica con lo scopo di dare un certo “colore” eucaristico a ciascuna celebrazione. Ne è prova la tabella che segue:
Dom.     Salmo
1 Sal 35,10 Presso di te, Signore, è la sorgente della vita, nella tua luce vedremo la luce
2 Sal 22,5 Dinanzi a me hai preparato una mensa e il mio calice trabocca
3 Sal 33,6 Guardate al Signore e sarete raggianti, e il vostro volto non sarà confuso
4 Sal 30,17-18 Fa’ risplendere sul tuo servo la luce del tuo volto, e salvami per la tua misericordia. Che io non resti confuso, Signore, perché ti ho invocato
5 Sal 106,8-9 Rendiamo grazie al Signore per la sua misericordia, per i suoi prodigi verso i figli degli uomini; egli sarà sazio il desiderio dell’assetato e ricolma di beni l’affamato
6 Sal 77,29-30 Hanno mangiato e si sono saziati e Dio li ha soddisfatti nel loro desiderio, la loro brama non è stata delusa
7 Sal 9,2-3 Annunzierò tutte le tue meraviglie. In te gioisco ed esulto, canto inni al tuo nome, o Altissimo
8 Sal 12,6 Voglio cantare a Dio per il bene che mi ha fatto, voglio lodare il nome del Signore Altissimo
9 Sal 16,6 Innalzo a te il mio grido e tu mi rispondi, o Dio; tendi a me il tuo orecchio, ascolta le mie parole
10 Sal 17,3 Il Signore è mia roccia e mia fortezza: è lui, il mio Dio, che mi libera e mi aiuta
11 Sal 26,4 Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita
12 Sal 144,15 Gli occhi di tutti, Signore, si volgono a te fiduciosi, e tu provvedi loro il cibo a suo tempo
13 Sal 102,1 Anima mia, benedici il Signore: tutto il mio essere benedica il suo santo nome
14 Sal 33,9 Gustate e vedete quanto è buono il Signore; beato l’uomo che in lui si rifugia
15 Sal 83,4-5 Il passero trova la casa, la rondine il nido dove porre i suoi piccoli, presso i tuoi altari, Signore degli eserciti, mio re e mio Dio. Beato chi abito la tua casa: sempre canta le tue lodi
16 Sal 110,4-5 Ha lasciato un ricordo dei suoi prodigi: buono è il Signore e misericordioso, egli dà il cibo a coloro che lo temono
17 Sal 102,2 Anima mia, benedici il Signore: non dimenticare tanti suoi benefici
18 Sap 16,20 Ci hai mandato, Signore, un pane dal cielo, un pane che porta in sé ogni dolcezza e soddisfa ogni desiderio
19 Sal 147,12.14 Gerusalemme, loda il Signore, egli ti sazia con fiore di frumento
20 Sal 129,7 Presso il Signore è la misericordia, e grande presso di lui la redenzione
21 Cfr. Sal 103,13-15 Con il frutto delle tue opere sazi la terra, o Signore, e trai dai campi il pane e il vino che allietano il cuore dell’uomo
22 Sal 30,20 Quant’è grande la tua bontà, Signore! La riservi per quelli che ti temono
23 Sal 41,2-3 Come il cervo anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio: l’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente
24 Sal 35,8 Quanto è preziosa la tua misericordia, o Dio! Gli uomini si rifugiano all’ombra delle tue ali
25 Sal 118,4-5 Hai dato, Signore, i tuoi precetti, perché siano osservati fedelmente. Siano diritte le mie vie nell’osservanza dei tuoi comandamenti
26 Sal 118,49-50 Ricorda, Signore, la promessa fatta al tuo servo: in essa mi hai dato speranza, nella mia miseria essa mi conforta
27 Lam 3,25 Il Signore è buono con chi spera in lui, con l’anima che lo cerca
28 Sal 33,11 I ricchi impoveriscono e hanno fame, ma chi cerca il Signore non manca di nulla
29 Sal 32,18-19 Gli occhi del Signore sono su quanti lo temono, su quanti sperano nella sua grazia, per salvare la loro vita dalla morte, per farli sopravvivere in tempo di fame
30 Sal 19,6 Esulteremo per la tua salvezza e gioiremo nel nome del Signore, nostro Dio
31 Sal 15,11 Tu mi indichi il sentiero della vita, Signore, gioia piena nella tua presenza
32 Sal 22,1-2 Il Signore è mio pastore, non manco di nulla; in pascoli di erbe fresche mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce
33 Sal 72,28 Il mio bene è stare vicino a Dio, nel Signore Dio riporre la mia speranza
34 Sal 28,10-11 Re in eterno siede il Signore: benedirà il suo popolo con la pace

Nelle 34 domeniche, le antifone di Comunione costituiscono come la sedimentazione sacramentale e come l’acqua quieta della preghiera di ciascuna celebrazione eucaristica. Nel tempo ordinario, il canto di ognuna di queste antifone è la musicalizzazione della comunione quotidiana. La scelta e la ri-contestualizzazione di questi versetti salmici, che essi, nell’insieme, paiono suggerirci una sorta di “Salterio eucaristico”.
Riassumendo, il fatto che le antifone di ingresso e di comunione siano versetti presti dal Salterio, tranne per alcuni formulari di messa, manifesta la ricchezza dei Salmi, i quali, raccogliendo in preghiera i più vari sentimenti e stati d’animo, ci preparano a un ampio genere di celebrazioni, che vanno dalle messe di Avvento, Natale, Quaresima… passando per le celebrazioni dei santi, fino alle messe per diverse necessità, votive e rituali.
La fonte di queste antifone è, generalmente, la Vulgata di san Girolamo. La nuova edizione tipica del Messale romano, anche se è posteriore alla pubblicazione della Neovulgata, non ha tuttavia modificato il testo delle antifone, ma aggiunto alla citazione l’indicazione “cfr.”, qualora il testo non coincidesse con quella della Neovulgata. In questo modo si rispettano le venerabili melodie gregoriane, raccolte nel Graduale romano, e che durante secoli si sono cantate nelle celebrazioni del Rito romano.

 

Il Salmo 2 e il mistero pasquale, divagazioni in margine all’uso liturgico del salterio.

Nella liturgia della Parola della messa del venerdì della IV settimana di Pasqua, il salmo secondo è stato proclamato, diciamo così, due volte. La prima occorrenza è dovuta al fatto che gli Atti degli Apostoli (prima lettura: At 13,26-33) riportano il keryma di Paolo, nel quale l’apostolo delle genti cita esplicitamente il versetto 7 (“Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato”); la seconda occorrenza è costituita dal salmo responsoriale, per l’appunto il salmo 2. Ma risulta interessante la divisione delle strofe, che escludono dal testo proclamato in questa celebrazione i versetti 1-5. Nella prima lettura, la citazione di compimento era relativa alla resurrezione: nell’odierno salmo responsoriale vengono pertanto ritenuti i versetti nei quali la regalità del Figlio/Messia viene affermata con più forza, tralasciando invece i versetti in cui si fa riferimento all’ostilità delle potenze avverse a Dio. Siamo nel clima sereno della Pasqua, e il dramma del rifiuto è ormai vinto dalla parola definitiva del Padre: “Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato”. Un eco più forte del combattimento pasquale del Signore Gesù sembra aversi, invece, nell’altra celebrazione del tempo di Pasqua in cui il salmo 2 viene proposto come salmo responsoriale. Si tratta del lunedì della seconda settimana: in quella celebrazione sono riportati anche i primi versetti del salmo (“Perché le genti congiurano…”). E anche in quel caso nella prima lettura vi è una citazione esplicita. Questa volta, però, i versetti del salmo 2 interpretano il mistero della Passione del Signore e l’ostilità inaudita che si è levata contro l’inviato del Padre (cf. At 4,23-31).
In sorprendente continuità con l’uso neotestamentario, la liturgia adopera lo stesso salmo per sottolineare, ora uno ora un altro, i diversi aspetti dell’unico contenuto del kerygma pasquale, la Passione, Morte e Resurrezione del Signore Gesù Cristo.
Ma non si esaurisce qui la capacità della liturgia di incastonare, quale gemme preziose, singoli elementi per formarne nel tutto dell’ordito un’opera d’arte finissima e di maestria stupefacente: infatti, nella liturgia delle Ore del Triduo e dell’Ottava di Pasqua troviamo, di nuovo, una strana frequenza del salmo secondo.

L’attenzione a questo dettaglio può essere davvero utile.

Non è infatti infrequente leggere di storici della liturgia, forse eccessivamente “puristi”, che stigmatizzino, fra le righe, la progressiva storicizzazione che ha portato a separare i vari aspetti dell’unico mistero di Cristo, distribuendone il contenuto unitario in diverse feste e giorni liturgici. In effetti, per la celebrazione del mistero pasquale, da un antica unica celebrazione, con la sua complessiva pienezza di significato globale (morte-passione-resurrezione), si è arrivati, in base ad una visione più storicizzante e ad una forma di rappresentazione vagamente imitativa, alle celebrazioni del triduo. E’ senza dubbio vero che questo processo, descritto ora in modo troppo grossolano, rechi con sé alcuni rischi. La decomposizione dell’unità teologica passione-morte-resurrezione può indurre ad accentuazioni parziali: la devozione popolare può più facilmente enfatizzare l’aspetto della passione-morte, che fra l’altro è meglio “rappresentabile”. Nella predicazione, nella catechesi e nella spiritualità è fatale non cogliere l’unità del mistero pasquale. Tuttavia, se si avvicina la liturgia con attenzione e penetrazione, si scoprono in essa stessa i “rimedi” contro quei rischi. E questo non può non sorprendere ed affascinare. Ma torniamo al salmo 2…
La liturgia delle Ore del triduo pasquale rappresenta un unicum: oltre agli elementi propri (letture, responsori, preghiere) tipici dei tempi forti dell’anno liturgico, anche la distribuzione dei salmi nelle diverse Ore si discosta in modo eccezionale dal consueto ciclo quadrisettimanale (anche nell’Ottava di Pasqua si ritrova analoga particolarità). Un’altra particolarità, se si vuole marginale, ma pur sempre segno di una realtà significativa, è il fatto che per i salmi propri, assegnati in quelle Ore di preghiera in modo peculiare, non viene indicato né titolo né sentenza, elementi, questi, che secondo l’Institutio Generalis, sono generalmente intesi a favorire l’interpretazione e la preghiera dei Salmi (1). La mancanza di queste indicazioni lascia intravedere che occorre andare al contesto ampio delle celebrazioni di ciascun giorno del triduo, con i testi biblici ed eucologici e con i riti in esse presenti: è proprio esso ad aiutare la lettura cristiana del salmo, come del resto i salmi aiutano a cogliere il cuore del mistero che la liturgia celebra.
Ebbene, fra i salmi propri del triduo pasquale(2), il primo salmo dell’Ufficio delle Letture del Venerdì Santo è il salmo 2, canto regale di intronizzazione, già riferito al Messia dalla tradizione ebraica. Siamo nel giorno in cui la violenza dell’ingiustizia si manifesta in tutta la sua tragica forza, e l’antifona sottolinea un aspetto della passione, vista come un grande combattimento escatologico in cui le potenze della terra si scatenano contro Dio e contro il suo Messia: Astiterunt reges terrae, et principes convenerunt in unum adversus Dominum, et adversus Christum eius [Insorgono i re della terra, i potenti congiurano insieme contro il Signore e contro il suo Cristo]. Siamo invitati a meditare, nella preghiera, il grande mistero dell’iniquità, che scatenatosi contro Cristo, continua, nella storia, contro i cristiani, fino ai nostri giorni. Il salmo secondo diventerà la preghiera degli Apostoli nella persecuzione.

“Appena rimessi in libertà, [Pietro e Giovanni] andarono dai loro fratelli e riferirono quanto avevano detto i sommi sacerdoti e gli anziani. All’udire ciò, tutti insieme levarono la loro voce a Dio dicendo: “Signore, tu che hai creato il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, tu che per mezzo dello Spirito Santo dicesti per bocca del nostro padre, il tuo servo Davide: Perché si agitarono le genti e i popoli tramarono cose vane? Si sollevarono i re della terra e i principi si radunarono insieme, contro il Signore e contro il suo Cristo; davvero in questa città si radunarono insieme contro il suo santo servo Gesù, che hai unto come Cristo, Erode e Ponzio Pilato con le genti e il popolo di Israele, per compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano preordinato che avvenisse. Ed ora, Signore, volgi lo sguardo alle loro minacce e concedi ai tuoi servi di annunziare con tutta franchezza la tua parola” (At 4,23-29).

La potenza tenebrosa del male non è negata né cessa di inquietare; tuttavia, in opposizione agli intrighi oscuri e abissali del male, già dalle prime Ore del Venerdì Santo è svelata anche la forza paziente e sovrana del piano di Dio e la sorte beata di chi in lui si rifugia. La lotta delle potenze ostili a Dio e al suo Cristo è paradossalmente inefficace; questa lotta è inutile: Dio intronizza il suo Messia con la resurrezione. E quando, nel tempo pasquale, con la Liturgia delle Ore si pregherà di nuovo l’Ufficio delle Letture, uno dei primi salmi sarà proprio il salmo 2. Si tratta del lunedì dell’Ottava di Pasqua. Se teniamo presente, del resto, che il giorno di Pasqua coloro che hanno partecipato alla solenne veglia della Notte omettono quest’Ora di preghiera (comunque costituita in modo del tutto peculiare e inconsueta) (3), si può affermare che sia proprio il salmo 2 ad accompagnarci nella primissima contemplazione della vittoria pasquale della risurrezione. Si tratta di un dato del tutto tradizionale: nel Breviario precedente all’attuale, il Mattutino del giorno di Pasqua, allora presente, riportava anch’esso il nostro salmo. La Liturgia delle Ore di Paolo VI ha ereditato da esso l’antifona che accompagna il salmo, una parafrasi del v. 8, che mette sulle labbra di Cristo risuscitato: Postulavi Patrem meum;dedit mihi gentes, alleluia, in hereditatem, alleluia [Ho invocato il Padre mio: mi ha fatto erede di tutte le nazioni].
Lo stesso salmo, pregato il Venerdì di passione e il primo giorno dell’Ottava di Pasqua, ci permette di tenere insieme i due aspetti del mistero pasquale. Proprio per questo, infine, il salmo secondo è stato assegnato, nel ciclo consueto quadrisettimanale, all’Ufficio delle Letture della prima domenica: è stato giudicato fra i più adatti ad esprimere il mistero pasquale (4); abbiamo visto che nel contesto della preghiera della Chiesa, esso riceve una luce nuova e può riflettere varie sfumature, come pure può aiutare la preghiera stessa a rimanere ancorata alla Rivelazione senza perdere di vista il centro. Un piccolo e marginale saggio di come la Liturgia possa stupirci.

Ben altro che rubriche e merletti!!

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(1) Dai “Principi e norme per la Liturgia delle Ore”:
110. Tre elementi nella tradizione latina hanno contribuito molto a far comprendere i salmi e a trasformarli in preghiera cristiana: i titoli, le orazioni dopo i salmi e soprattutto le antifone.
111. Nel salterio della Liturgia delle Ore, ad ogni salmo è premesso un titolo sul suo significato e la sua importanza per la vita umana del credente. Questi titoli, nel libro della Liturgia delle Ore, sono proposti unicamente a utilità di coloro che recitano i salmi. Per alimentare la preghiera alla luce della rivelazione nuova, si aggiunge una sentenza del Nuovo Testamento o dei Padri che invita a pregare in senso cristologico.
112. Le orazioni sui salmi hanno il fine di aiutare coloro che li recitano a interpretarli in senso soprattutto cristiano. Sono proposte per i singoli salmi nel Supplemento al libro della Liturgia delle Ore e si possono liberamente usare, secondo una antica tradizione. Così terminato il salmo e fatta una pausa di silenzio, l’orazione raccoglie e conclude i sentimenti di coloro che hanno recitato il salmo.
113. Anche quando la Liturgia delle Ore è eseguita senza canto, ogni salmo ha la propria antifona, che si dice ugualmente nella recita individuale. Le antifone, infatti, aiutano a illustrare il genere letterario del salmo; trasformano il salmo in preghiera personale: mettono meglio in luce una frase degna di attenzione, che altrimenti potrebbe sfuggire; danno un certo tono particolare a qualche salmo a seconda delle circostanze; anzi, purché si escludano adattamenti stravaganti, giovano molto all’interpretazione tipologica o festiva; possono rendere piacevole e varia la recita dei salmi.

(2) Il vespro del Giovedì santo non ha salmi propri ma si utilizzano quelli del giovedì della II settimana.

(3) Per coloro che non hanno partecipato alla veglia nella Notte, l’Ufficio delle Letture del giorno di Pasqua è costituto da alcune letture della veglia seguite dai rispettivi cantici o salmi e orazioni, proprio come nella veglia. Non vi sono i tre salmi che normalmente precedono le letture.

(4) PNLO 129: Per la domenica, inclusi l’Ufficio delle letture e l’Ora media, sono stati scelti quei salmi che, secondo la tradizione, sono più indicati per esprimere il mistero pasquale.

Paolo VI, Bugnini e il Consilium, un dettaglio esemplare ed eloquente al di là di facili pregiudizi (2): un documento inedito

Avevamo già accennato alla questione del segno della croce all’inizio della Messa, se si vuole di secondo piano ma pur sempre significativa, rivelatrice dell’attenzione con cui il Papa Paolo VI seguì l’attuazione della riforma liturgica, terminato il Concilio Vaticano II.https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/02/13/paolo-vi-bugnini-e-il-consilium-un-dettaglio-esemplare-ed-eloquente-al-di-la-di-facili-pregiudizi/
Di questa problematica possiamo ora documentare più direttamente uno di quei passaggi, grazie ad un documento interno del Consilium (un fascicolo dattiloscritto di comunicazioni, titolato Res Secretariae, antenato di quella che diventerà la rivista ufficiale della Congregazione per il Culto divino Notitiae). Il fascicolo, di tre pagine, redatto dalla Segreteria del Consilium, presenta lo status quaestionis preparato per l’adunanza XI (8-17 ottobre 1968).
Della prima pagina ne alleghiamo il file in pdf, dopo averne offerto una nostra traduzione in italiano.

9 ottobre 1968

Res Secretariae, n. 34

SU ALCUNE ANNOTAZIONI DEL SOMMO PONTEFICE
RIGUARDO L’ORDO MISSAE

Dopo la discussione avuta nella Sessione del mese di Aprile 1968, l’Ordo Missae è stato presentato al Sommo Pontefice con i suggerimenti e le proposte fatte dal “Consilium”, relative alle osservazioni che lo stesso Sommo Pontefice aveva espresso dopo il Sinodo. Il Sommo Pontefice, tuttavia, volle che l’Ordo Missae fosse inviato ai Prefetti delle Congregazioni Romane come pure alla Segreteria della Curia, per chiedere il loro parere. Le risposte quindi ricevute furono fatte conoscere al Sommo Pontefice il giorno 24 luglio 1968.
Il giorno 22 settembre il medesimo Sommo Pontefice trasmise di nuovo alcune osservazioni al “Consilium”, con queste annotazioni: “Si prega di tener conto, con libero e ponderato giudizio, di queste osservazioni”.
E’ da notare che intorno a queste questioni il “Consilium” aveva discusso non solo in una occasione. Sulle singole questioni quindi proponiamo un breve status quaestionis, per rendere il nuovo esame più facile e spedito.

1. Sul segno della croce all’inizio della Messa.
Il testo dell’Ordo Missae approvato dal Consilium recitava così: “Giunto all’altare, fatta con i ministri la debita riverenza, (il sacerdote) si segna con il segno della croce senza dire nulla, quindi venera l’altare con un bacio o un altro segno stabilito dalla Conferenza Episcopale e, secondo l’opportunità, lo incensa. Quindi si reca alla sede”.
Come è noto, il Sommo Pontefice aveva chiesto che il segno della croce si facesse con le parole pronunciate ad alta voce, e con la risposta del popolo. Il “Consilium” ha manifestato diversamente la sua opinione, sostenuta da ragioni che al Sommo Pontefice sono state esposte con le parole della stessa relazione preparata dal Relatore (del gruppo di studio) De ordine Missae, dopo tutta quanta la discussione nella Commissione speciale e nella Sessione plenaria. Avevano aderito al parere 19 Padri, essendo contrari 3, essendosi astenuti 3.
La Segreteria aveva proposto al Sommo Pontefice, su questo punto, che le parole che accompagnano il segno della croce dovessero essere obbligatorie solamente nelle Messe nelle quali capitasse che i canti di ingresso potessero essere omessi, secondo le motivazioni allegate dal “Consilium”.
Ma ora il Sommo Pontefice, di nuovo, annota: “E’ opportuno che la formula ‘In nomine Patris’ sia detta ad alta voce dal sacerdote, con risposta del popolo”.

Res Secretariae, n. 34,

 

 

Da un lettore attento una preziosa segnalazione: ancora su “geografia” liturgica, ancora J. Ratzinger

Grazie alla segnalazione di un lettore, Mattia – evidentemente attento e competente – , riportiamo un altro passo di J. Ratzinger sulla liturgia stazionale romana e sul quel particolare itinerario di “geografia spirituale”, creato dalle celebrazioni nelle diverse chiese dell’Urbe.
Si tratta di una meditazione offerta per gli Esercizi spirituali al Papa (Giovanni Paolo II) e ai Membri della Curia romana, nella Quaresima del 1983. Pur non valendo più il legame fra lezionario e chiesa stazionale, il card. Ratzinger riesce comunque, partendo dal testo dell’Orazione colletta, a far trasparire la ricchezza della liturgia, non con un tono polemico e lo sguardo nostalgico rivolto al passato, ma cogliendo il meglio dell’antico ordo, attualizzandone il contenuto in senso spirituale davvero profondo. Solamente un maestro può permettersi operazioni di questo tipo, senza cadere in sterile erudizione e archeologismo nostalgico.
Ringraziamo, di nuovo, Mattia, e godiamoci questo testo.

“L’antica liturgia romana aveva creato una geografia della fede, partendo dall’idea, che con l’arrivo di Pietro e di Paolo e, in maniera definitiva, con la distruzione del Tempio e il rifiuto del Signore da parte del suo popolo, Gerusalemme si fosse trasferita a Roma. La conseguenza è che anche la geografia della vita e della morte di Gesù si iscrive nelle strade, nella fisionomia spirituale di questa città. La Roma cristiana è intesa come una ricostruzione della Gerusalemme di Gesù dentro le mura di Roma; questo fatto contiene più di un ricordo del passato. Iscrivendo i lineamenti di Gerusalemme in questa città, si prepara qui a Roma e in questo mondo la Gerusalemme nuova, la nuova città, nella quale Dio abita. E ancora un’altra cosa vi è da aggiungere. Questa geografia interiore della città non è né puro ricordo del passato, né vuota anticipazione del futuro; essa descrive un cammino interiore, il cammino dalla Roma antica verso la Roma nuova, dalla città antica verso la città nuova, il cammino della conversione, che va dal passato per l’amore crocifisso di Gesù verso il futuro. La città nuova comincia in questo cammino interiore, espresso nella rete dei cammini terreni di Gesù e della storia della salvezza. Da questa visione appare l’importanza permanente della geografia spirituale insita nelle chiese “stazionali” della Quaresima. La connessione profonda tra i testi della liturgia e questi luoghi forma un insieme di logica esistenziale della fede, che segue Gesù dal deserto, attraverso la sua vita pubblica, fino alla Croce e alla Risurrezione”.

J. Ratzinger, Il cammino pasquale, Milano 2000, 22-23

Per completezza, riportiamo un brano di un altro studioso, P. Regan, alla cui comparazione fra il Messale del 1962 e quello di Paolo VI siamo debitori di preziose informazioni.

Partendo dalla domenica di Settuagesima e continuando fino all’ottava di Pasqua inclusa, il MR del 1962 riporta il nome della chiesa stazionale a Roma, dove anticamente il papa, circondato dalla sua corte e dal popolo cristiano, celebrava quella determinata messa. Con una certa frequenza i testi di quelle messe alludono al luogo della celebrazione. Ad esempio, il sabato della terza settimana, quando l’epistola, tratta da Dn 13, parla dei due anziani malvagi che spiano di nascosto l’onesta Susanna mentre fa il bagno, la chiesa stazionale è quella di Santa Susanna. Evidentemente molti di questi formulari di messe furono compilati in vista dei luoghi in cui dovevano essere usati. […] Il Messale di Paolo VI non indica più le chiese stazionali, probabilmente perché destinato a tutte le chiese a livello mondiale, dove i nomi di quelle chiese romane hanno poca importanza. Inoltre, oggi il papa non celebra più la messa in nessuna di esse durante la Quaresima, a parte Santa Sabina il Mercoledì delle Ceneri. Le chiese stazionali hanno quindi perso il loro legame con le messe quaresimali del pontefice. Infine, il Rito romano riveduto non è più la liturgia papale della Città Eterna trasferita in altre parti del mondo, ma una liturgia composta specificamente per la Chiesa universale. Tuttavia, in ricordo dell’antica usanza romana, una rubrica nella pagina prima del Mercoledì delle Ceneri incoraggia il vescovo diocesano a celebrare l’eucaristia con i fedeli in determinate chiese della città durante questo tempo liturgico: “E buona tradizione che nella chiesa locale si facciano, soprattutto in Quaresima, riunioni di preghiera nella forma delle ‘stazioni’ romane. Si raccomanda di conservare e incrementare questa tradizione, almeno nelle principali città, e nel modo più indicato per i singoli luoghi”.

P. Regan, Dall’Avvento alla Pentecoste. La Riforma liturgica nel Messale di Paolo VI, Bologna 2013, 105-106.

Si può parlare della crisi del quarto sacramento, con serietà e con fede?! Incredibile, ma vero!

Intorno rituale della Penitenza, riformato dopo il Concilio Vaticano II e promulgato sotto l’autorità di Paolo VI, e più in generale sulla situazione del sacramento della riconciliazione, capita spesso di leggere contributi e approfondimenti un poco negativi, o comunque appesantiti dalla criticità dei problemi. C’è chi parla, a proposito di molti di questi commenti, di “genere letterario”, come fosse ormai abituale e scontato sottolineare difficoltà e scogli nella pastorale della confessione e insormontabili limiti dello stesso rituale. Altri, ancora, rispolverano un termine non tanto frequente nell’italiano corrente, per significare testi dal contenuto pessimista e gravosamente aporetico: geremiade [dal dizionario: discorso lungo e lamentoso, lamentela, piagnisteo, querimonia]. In effeti, dopo la lettura di queste “geremiadi”, si rimane sconfortati: si sviscerano questioni importanti, si analizzano tutti i difetti con dovizia di particolari, ma alla fine non si intravede nessuna soluzione né speranza affidabile. Forse in questa impressione personale c’entra il fatto che siamo stati “costretti” a leggere centinaia e centinaia di pagine di bibliografia relativa al tema, tuttavia l’ipersensibilità maturata non obnubila del tutto l’oggettività dei dati.
Un testo – scovato ormai troppo tardi rispetto alla necessità di qualche tempo fa – ci ha rasserenato: si può parlare con serietà oggettiva e lucida della crisi del quarto sacramento, senza per questo cadere in conclusioni disfattiste e attese illusorie di improbabili e azzardate svolte pastorali.
Ci sembra il caso di poter dire, con proprietà pertinente, che ci troviamo dinanzi ad uno studio di teologia liturgica “in ginocchio”, per citare una qualifica recentemente attribuita – in modo discutibile (?) – alla discussa relazione del card. Kasper, durante l’ultimo Concistoro.
Il brano che proponiamo è l’epilogo dello studio di due grandi gesuiti, professori alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. Nonostante il saggio sia abbastanza datato – è di poco successivo alla pubblicazione del nuovo Rituale -, appare ancora assai stringente e attuale. Tante questioni intorno al sacramento della penitenza sono ancora aperte e gravi: i due autori, tuttavia, ce le presentano in un clima di fede e di speranza. Da quelle pagine traspare un’aria buona.

Parlando dello sviluppo futuro dell’amministrazione della penitenza, spesso si imposta la questione, come se si dovesse scegliere tra due alternative, o confessione auricolare, o celebrazione penitenziale comunitaria. Questa impostazione è falsa, poiché le due cose non si escludono, ma anzi l’una esige l’altra. Abbiamo indicato le ragioni perché la celebrazione comunitaria esige che sia completata dalla confessione particolareggiata. Aggiungiamo che per rianimare la confessione, è indispensabile che introduca progressivamente l’uso della celebrazione comunitaria.
In ciò non vi è nulla di nuovo, poiché nel passato, dove in una comunità si praticava bene la confessione, anche dopo la soppressione della penitenza pubblica, ciò era dovuto ad una celebrazione comunitaria, che abbracciava prediche, canti, preghiere, processioni, come p.es. nei quaresimali, nelle missioni popolari, nei pellegrinaggi, nelle confraternite dei penitenti, ecc. Tutto ciò aveva come fine, preparare il popolo a fare una buona confessione, che significava non solo l’integrità nel racconto dei propri peccati, ma anche e soprattutto un reale cambiamento della vita. Una delle ragioni, per cui oggi la confessione è in crisi è appunto il fatto che queste preparazioni comunitarie, oggi giudicate antiquate, non sono state ancora sostituite da altre forme, più adatte all’attuale contesto culturale. E’ infatti illusorio pensare che la maggior parte dei penitenti possa da sola individualmente prepararsi ad entrare in un dialogo approfondito sul proprio modo di vivere il cristianesimo. Proprio oggi, quando i fedeli vivono in un mondo secolarizzato, anzi ateo, e quando la vita cristiana esige perciò molto più impegno personale, essi hanno il bisogno (e dunque il diritto) ad essere aiutati a prepararsi a quest’incontro con il rappresentante della Chiesa, che non sostituisce ma rende presente Cristo.
Quando si discute su questi problemi, vi è sempre qualcuno il quale fa osservare che tutto ciò è impossibile, le abitudini del popolo non si cambiano, e perciò bisogna continuare tutto come si è fatto fino adesso. Questa obbiezione è molto realistica, poiché di fatti tutta la vita cristiana è impossibile alle forze della natura umana. Nessuno di noi può riconoscere Gesù come Signore senza la mozione interna dello Spirito (cfr. 1Cor 12,3); nessuno viene a Gesù se il Padre non lo attrae (Gv 6,44). Ma proprio questi principi dogmatici ci impediscono di valutare ciò che è possibile o impossibile nella vita pastorale, solo secondo le probabilità statistiche della psicologia sociale. I comportamenti postulati dalla struttura delle istituzioni di Cristo diventano sempre possibili per opera dello Spirito Creatore, che penetra tutto.
Se crediamo che l’istituzione della penitenza ecclesiastica per volontà divina esige che la confessione particolareggiata e personale non solo sia conservata, ma anche approfondita e sviluppata, la nostra fede ci incoraggia a sperare che ciò sarà possibile.
Lo studio della storia della penitenza non che mostrare la fondatezza di questa fiducia. Infatti, dal mare dei peccati, e della mediocrità intellettuale e morale, nel flusso della storia, riemergono sempre le grandi strutture della penitenza cristiana, in forme adatte ai diversi contesti storici. La fedeltà alle strutture essenziali della penitenza, nella storia, era possibile solo attraverso una lunga serie di cambiamenti, abbastanza radicali, che spesso provocano reazioni violente. Pensiamo alla “riforma” con cui invalse l’uso di dare la riconciliazione una sola volta nella vita, e a quella che cominciava di nuovo a riconciliare i relapsi; pensiamo al cambiamento di rimandare la soddisfazione dopo l’assoluzione (quanti potevano domandare: perché devo ancora fare penitenza? sono assolto, sì o no?), e alla prescrizione del concilio Lateranense IV, riguardo la confessione annuale. Le persone di buon senso e di mentalità pratica dovevano aspettare (con segreto compiacimento) che questi tentativi di riforma fallissero; e chi non aveva la fede, non poteva aspettare altro che uno scivolamento lento della vita penitenziale della Chiesa verso un ritualismo formalistico, come suole succedere secondo il dinamismo naturale di ogni istituzione. Noi, che abbiamo la fede, riconosciamo nella sopravvivenza dell’istituzione penitenziale un’opera dello Spirito; e perciò abbiamo la forza di sperare che il valore del sacramento della riconciliazione sarà compreso e rivalorizzato anche ai nostri tempi.

Z. Alszeghy – M. Flick, Il sacramento della riconciliazione, Torino 1976, 208-211.

La Cappella del Cimitero Verano di Roma dove i corpi dei due professori attendono la resurrezione della carne

La Cappella del Cimitero Verano di Roma dove i corpi dei due professori attendono la resurrezione della carne

L'interno della Cappella

L’interno della Cappella