Giovanni XXIII e la futura Sacrosanctum Concilium, una decisione “marginale” ma decisiva

Nei cruciali momenti della preparazione del Concilio Vaticano II, pare significativo un dettaglio attribuibile senz’altro alla volontà dell’ormai santo Papa Giovanni XXIII. Il 17 maggio 1959 venne resa nota l’istituzione di una Commissione Antipreparatoria, con l’incarico “di prendere gli opportuni contatti con l’Episcopato Cattolico delle varie Nazioni per averne consigli e suggerimenti; raccogliere le proposte formulate dai Sacri Dicasteri della Curia Romana; tracciare le linee generali degli argomenti da trattare nel Concilio, uditi anche i pareri delle facoltà teologiche e canoniche delle università cattoliche; suggerire la composizione dei diversi Organi (Commissioni, Segretariati, ecc.), i quali dovranno curare la preparazione prossima dei lavori, che il Concilio sarà chiamato a svolgere” (1). Il presidente di tale Commissione Centrale Antipreparatoria, il card. Tardini, già nell’adunanza del 26 maggio, presentò un progetto di questionario da inviare ad ogni vescovo. La bozza era articolata in 5 sezioni, con due articoli direttamente concernenti la liturgia:

Schema questionum exc.mis Episcopis ponendarum pro futuro Concilio Oecumenico
I) De veritate sancte custodienda
II) De sanctitate et apostolatu clericorum et fidelium
a) De clericis
[…]
4. De sacra liturgia fovenda. (sull’incremento della sacra liturgia)
5. Qua opportuniore ratione fideles ad participandum cultum liturgicum invitari queant. Quidam hodie serpentes et ideo oppugnandi hac in materia errores. (con quale ragione più opportuna possano essere invitati i fedeli a partecipare al culto liturgico. Alcuni errori che oggi si insinuano, e perciò devono essere combattuti, in questa materia)
[…]
III) De ecclesiastica disciplina
IV) De scholis.
V) De Ecclesiae unitate. (2)

Il Papa non gradì questa impostazione e prevalse la decisione coraggiosa di non incanalare gli orientamenti dei pastori in schematizzazione precostituite a tavolino. Pertanto il 18 giugno 1959 venne inviata ai Vescovi e ai Superiori religiosi una lettera in cui si chiedeva loro di esporre “omni cum libertate et sinceritate, animadversiones, consilia et vota, quae pastoralis sollicitudo zelusque animarum Excellentiae Tuae suggerant circa res et argomenta quae in futuro Concilio tractari poterunt (con ogni libertà e sincerità, proposte, consigli e desideri, che la sollecitudine pastorale e lo zelo delle anime suggerisco alla Tua Eccellenza, intorno a questioni ed argomenti che potranno essere trattati nel futuro Concilio)” (3).
Questi suggerimenti e vota, man mano che pervenivano alla Commissione, erano riassunti ed espressi in forma di diverse propositiones, raccolte poi in uno schema organico e sintetico, l’Analyticus conspectus consiliorum et votorum quae ab Episcopis e Praelatis data sunt, in due tomi, dal quale le varie Commissioni preparatorie attinsero spunti e riflessioni per la redazione degli schemi preparatori. Padre C. Braga ha valutato la consistenza delle propositiones legate a questioni liturgiche in una percentuale del 20 % (4): sembra dunque che la liturgia occupasse uno spazio considerevole nelle riflessioni dei vescovi, lungi dall’essere oggetto di speculazioni di specialisti e di esteti cultori di archeologia.
Nella documentazione ufficiale, di questo cambio di impostazione rimane una traccia nel verbale dell’adunanza della Commissione Antipreparatoria del 30 giugno 1959, in cui il card. Tardini spiegava ai membri che era stata riformulata la lettera che, nel frattempo, era stata già inviata ai vescovi (5). Si deve alla fede coraggiosa di Giovani XXIII questo maggiore coinvolgimento della “periferia” – come va di moda dire oggi -; la questione liturgica poteva così assurgere all’importante posto che le spettava.
Abbiamo un motivo in più per gioire con tutta la Chiesa per la prossima canonizzazione: Sacrosanctum Concilium ha un santo patrono in più, in Paradiso.

(1) ACTA ET DOCUMENTA CONCILIO OECUMENICO VATICANO II APPARANDO (=AD), SERIES I, Acta Summi Pontificis Ioannis XXIII, Città del Vaticano 1960, 23.
(2) ACTA SYNODALIA, Appendix, Città del Vaticano 1983, 12.
(3) AD, SERIES I, Consilia et Vota Episcoporum et Praelatorum, Pars I, Città del Vaticano 1960, X-XI.
(4) Cf. C. BRAGA, «La “Sacrosanctum Concilium” nei lavori della Commissione Preparatoria», Notitiae 20 (1984) 87-88.
(5) Cf. ACTA SYNODALIA, Appendix, Città del Vaticano 1983, 14-15.

L’invito di Dio: accogliamolo, e godiamo di questa Pasqua di Resurrezione!

Scopriamo, dall’Ufficiatura bizantina del mattutino di Pasqua, questa bellissima catechesi di san Giovanni Crisostomo. Sembra riecheggiare, per alcuni aspetti, il più sobrio, eppure profondissimo, sermone di san Leone Magno, che la liturgia latina proclama nell’Ufficio delle Letture del Natale del Signore: “Esulti il santo…gioisca il peccatore…riprenda animo il pagano..”

Con questo brano, auguriamo a tutti i lettori del blog una santa e allegra Pasqua di Resurrezione!

Gli invitati di Dio. (Da un’omelia di san Giovanni Crisostomo [cf. PG 59,721-723])

Se uno è pio e amico di Dio, goda di questa solennità bella e luminosa. Il servo d’animo buono entri gioioso nella gioia del suo Signore. Chi ha faticato nel digiuno, goda ora il suo denaro.

Chi ha lavorato sin dalla prima ora, riceva oggi il giusto salario. Se uno è arrivato dopo la terza ora, celebri grato la festa.
Se uno è giunto dopo la sesta ora, non dubiti perché non ne avrà alcun danno.
Se uno ha tardato sino all’ora nona, si avvicini senza esitare.
Se uno è arrivato solo all’undicesima ora, non tema per la sua lentezza: perché il Sovrano è generoso e accoglie l’ultimo come il primo.
Egli concede il riposo a quello dell’undicesima ora, come a chi ha lavorato sin dalla prima. Dell’ultimo ha misericordia, e onora il primo. Dà all’uno e si mostra benevolo con l’altro.

Entrate dunque tutti nella gioia del nostro Signore: primi e secondi, riceverete la ricompensa; ricchi e poveri, danzate in coro insieme.
Continenti e indolenti, festeggiate questo giorno.
Abbiate digiunato o no, rallegratevi in questo giorno.
Il banchetto è pronto, perciò venite tutti. Il vitello grasso è servito, nessuno se ne vada con la fame. Tutti godete il banchetto della fede. Tutti godete la ricchezza della bontà.

Nessuno pianga la propria miseria: a tutti è aperto il regno.
Nessuno pianga le proprie colpe, perché il perdono si è alzato dalla tomba.
Nessuno tema la morte, perché la morte del Salvatore ci ha reso liberi.
Ha spogliato l’inferno, colui che nell’inferno è disceso

Dov’è, o morte il tuo pungiglione? Dov’è, o inferno, la tua vittoria? È risorto il Cristo, e tu sei stato precipitato. È risorto il Cristo, e i demoni sono caduti. È risorto il Cristo, e gioiscono gli angeli. È risorto il Cristo, e regna la vita. È risorto il Cristo, e tutti i morti lasciano la tomba. Sì, Cristo è risorto dai morti, primizia di quelli che dormono.
A lui la gloria e il potere per i secoli dei secoli. Amen.

La colpa di Adamo (e la nostra): felice o infelice? La parola, definitiva e autorevole, a Sant’Ambrogio.

Il sabato santo si apre, nell’Ufficio divino, con uno dei testi insieme assai lirico e di una profondità spirituale, un brano tratto da un’Antica Omelia sul sabato santo (cf. http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20010414_omelia-sabato-santo_it.html). Ma non è l’unico testo eccezionale di questo giorno: la notte delle notti, nella madre di tutte le veglie, ci farà ascoltare un’altra inarrivabile composizione, l’Exultet. Come non stupirsi, grati e commossi, di fronte all’annuncio audace della così straordinaria vittoria di Cristo risorto, che cambia la sorte e la qualità della colpa di Adamo? Ma pure questo testo ebbe i suoi censori.
L’eccellente saggio di R. AMIET, purtroppo non ancora tradotto in italiano, La veillée pascale dans l’Église latine, I, Le rite romain, Paris 1999, dà notizia dei maldestri tentativi di elidere dal Preconio Pasquale l’eccezionale espressione lirica “O certe necessarium Adae peccatum, quod Christi morte deletum est. O felix culpa, quae talem ac tantum meruit habere redemptorem”. Provvidenzialmente il Messale della Curia Romana del XIII secolo conserva quel passaggio “litigieux”, e da lì poi il Messale romano del 1570 lo assumerà, mettendolo definitivamente al riparo da improbabili censori e oltremodo zelanti teologi improvvisati che, ritenendosi illuminati, elidevano questa strofa dai manoscritti. Addirittura vi fu chi ritenne doveroso correggere quello che forse consideravano un eccesso imperdonabile: “Dans Saint-Brieuc 1543, ces deux phrases ont été biffe par un gros trait à l’encre noire et remplacées, dans la marge inférieure de la page, par les deux suivantes: O nimis abominationis Adae peccatum, quod Christi morte deleri necesse fuit. O infelix culpa, quae tale opus habuit. On aimerait connaître par son nom l’excellent ecclésiastique de ce diocèse, auteur de cet extraordinaire transformation de texte!” (209)
Se un tale correttore ci è ignoto, dell’idea originale, nel suo contenuto teologico, abbiamo un nome certo, e non è un nome da tenere poco in conto: il santo Vescovo di Milano, Ambrogio.
Ecco alcuni, fra svariati, passaggi che echeggiano quel versetto del Preconio:

– “Ti ho sempre invocato, chiedendo che non abbiano mai a vantarsi i miei nemici, perché anche se ho peccato, il peccato tu me lo rimetti; anche se sono caduto, tu mi rialzi, perché non esultino quelli che godono dei peccati altrui. Infatti noi, che abbiamo peccato di più, abbiamo guadagnato di più, perché la tua grazia ci rende più beati della nostra assenza di colpa (Plus enim adquisivimus qui plus peccavimus, quia beatiores facit tua gratia quam nostra innocentia). […] Non è fatale la caduta di una debolezza (non est gravis infirmitatis ruina), se non l’accompagna la deliberata volontà di rialzarti (si non sit etiam voluntatis studium ab ea non surgendi). Abbi dunque questa volontà di rialzarti: è vicino a te chi ti fa rialzare (Habe voluntatem surgendi: praesens est qui faciat ut resurgas). (Commento al Salmo 37,47)
– “Il Signore non aveva detto ad Adamo: ‘Sarai con me’ (come fece con il buon ladrone, ndr), perché sapeva che sarebbe caduto, per essere poi redento da Cristo. Felice caduta, che trova una rinascita più bella! (Felix ruina, quae reparatur in melius). (Commento al Salmo 39,20).

A proposito dell’episodio del buon ladrone, ecco cosa Ambrogio poteva dire poco prima:

“Egli ha confessato il suo peccato, che poteva perdonarlo, perché sulla croce ha contemplato con gli occhi dello spirito quel regno di Dio che Giuda non è riuscito a vedere nella cena di Cristo. Perciò l’invocazione del ladrone è stata seguita da questa parola celeste: In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso. Esultavi, drago infernale, perché avevi sottratto a Cristo un suo apostolo: ma hai perso più di quanto hai guadagnato, perché ti tocca vedere un ladrone trasportato in paradiso. Allora vuol dire che nessuno può esserne escluso, dal momento che un ladrone, un tuo seguace, ne è stato ammesso ed è tornato nel luogo donde tu sei stato cacciato”. (Commento al Salmo 39,17)

Per finire tornando all’inizio, se si vuole, una bellissima meditazione di Benedetto XVI, davanti alla Sindone (o2/05/2010), che riprende, anche, l’antica Omelia sul sabato:

Cari amici,
questo è per me un momento molto atteso. In diverse altre occasioni mi sono trovato davanti alla sacra Sindone, ma questa volta vivo questo pellegrinaggio e questa sosta con particolare intensità: forse perché il passare degli anni mi rende ancora più sensibile al messaggio di questa straordinaria Icona; forse, e direi soprattutto, perché sono qui come Successore di Pietro, e porto nel mio cuore tutta la Chiesa, anzi, tutta l’umanità. Ringrazio Dio per il dono di questo pellegrinaggio, e anche per l’opportunità di condividere con voi una breve meditazione, che mi è stata suggerita dal sottotitolo di questa solenne Ostensione: “Il mistero del Sabato Santo”.
Si può dire che la Sindone sia l’Icona di questo mistero, l’Icona del Sabato Santo. Infatti essa è un telo sepolcrale, che ha avvolto la salma di un uomo crocifisso in tutto corrispondente a quanto i Vangeli ci dicono di Gesù, il quale, crocifisso verso mezzogiorno, spirò verso le tre del pomeriggio. Venuta la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato solenne di Pasqua, Giuseppe d’Arimatea, un ricco e autorevole membro del Sinedrio, chiese coraggiosamente a Ponzio Pilato di poter seppellire Gesù nel suo sepolcro nuovo, che si era fatto scavare nella roccia a poca distanza dal Golgota. Ottenuto il permesso, comprò un lenzuolo e, deposto il corpo di Gesù dalla croce, lo avvolse con quel lenzuolo e lo mise in quella tomba (cfr Mc 15,42-46). Così riferisce il Vangelo di san Marco, e con lui concordano gli altri Evangelisti. Da quel momento, Gesù rimase nel sepolcro fino all’alba del giorno dopo il sabato, e la Sindone di Torino ci offre l’immagine di com’era il suo corpo disteso nella tomba durante quel tempo, che fu breve cronologicamente (circa un giorno e mezzo), ma fu immenso, infinito nel suo valore e nel suo significato.
Il Sabato Santo è il giorno del nascondimento di Dio, come si legge in un’antica Omelia: “Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme … Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi” (Omelia sul Sabato Santo, PG 43, 439). Nel Credo, noi professiamo che Gesù Cristo “fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto, discese agli inferi, e il terzo giorno risuscitò da morte”.
Cari fratelli e sorelle, nel nostro tempo, specialmente dopo aver attraversato il secolo scorso, l’umanità è diventata particolarmente sensibile al mistero del Sabato Santo. Il nascondimento di Dio fa parte della spiritualità dell’uomo contemporaneo, in maniera esistenziale, quasi inconscia, come un vuoto nel cuore che è andato allargandosi sempre di più. Sul finire dell’Ottocento, Nietzsche scriveva: “Dio è morto! E noi l’abbiamo ucciso!”. Questa celebre espressione, a ben vedere, è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana, spesso la ripetiamo nella Via Crucis, forse senza renderci pienamente conto di ciò che diciamo. Dopo le due guerre mondiali, i lager e i gulag, Hiroshima e Nagasaki, la nostra epoca è diventata in misura sempre maggiore un Sabato Santo: l’oscurità di questo giorno interpella tutti coloro che si interrogano sulla vita, in modo particolare interpella noi credenti. Anche noi abbiamo a che fare con questa oscurità.
E tuttavia la morte del Figlio di Dio, di Gesù di Nazaret ha un aspetto opposto, totalmente positivo, fonte di consolazione e di speranza. E questo mi fa pensare al fatto che la sacra Sindone si comporta come un documento “fotografico”, dotato di un “positivo” e di un “negativo”. E in effetti è proprio così: il mistero più oscuro della fede è nello stesso tempo il segno più luminoso di una speranza che non ha confini. Il Sabato Santo è la “terra di nessuno” tra la morte e la risurrezione, ma in questa “terra di nessuno” è entrato Uno, l’Unico, che l’ha attraversata con i segni della sua Passione per l’uomo: “Passio Christi. Passio hominis”. E la Sindone ci parla esattamente di quel momento, sta a testimoniare precisamente quell’intervallo unico e irripetibile nella storia dell’umanità e dell’universo, in cui Dio, in Gesù Cristo, ha condiviso non solo il nostro morire, ma anche il nostro rimanere nella morte. La solidarietà più radicale.
In quel “tempo-oltre-il-tempo” Gesù Cristo è “disceso agli inferi”. Che cosa significa questa espressione? Vuole dire che Dio, fattosi uomo, è arrivato fino al punto di entrare nella solitudine estrema e assoluta dell’uomo, dove non arriva alcun raggio d’amore, dove regna l’abbandono totale senza alcuna parola di conforto: “gli inferi”. Gesù Cristo, rimanendo nella morte, ha oltrepassato la porta di questa solitudine ultima per guidare anche noi ad oltrepassarla con Lui. Tutti abbiamo sentito qualche volta una sensazione spaventosa di abbandono, e ciò che della morte ci fa più paura è proprio questo, come da bambini abbiamo paura di stare da soli nel buio e solo la presenza di una persona che ci ama ci può rassicurare. Ecco, proprio questo è accaduto nel Sabato Santo: nel regno della morte è risuonata la voce di Dio. E’ successo l’impensabile: che cioè l’Amore è penetrato “negli inferi”: anche nel buio estremo della solitudine umana più assoluta noi possiamo ascoltare una voce che ci chiama e trovare una mano che ci prende e ci conduce fuori. L’essere umano vive per il fatto che è amato e può amare; e se anche nello spazio della morte è penetrato l’amore, allora anche là è arrivata la vita. Nell’ora dell’estrema solitudine non saremo mai soli: “Passio Christi. Passio hominis”.
Questo è il mistero del Sabato Santo! Proprio di là, dal buio della morte del Figlio di Dio, è spuntata la luce di una speranza nuova: la luce della Risurrezione. Ed ecco, mi sembra che guardando questo sacro Telo con gli occhi della fede si percepisca qualcosa di questa luce. In effetti, la Sindone è stata immersa in quel buio profondo, ma è al tempo stesso luminosa; e io penso che se migliaia e migliaia di persone vengono a venerarla – senza contare quanti la contemplano mediante le immagini – è perché in essa non vedono solo il buio, ma anche la luce; non tanto la sconfitta della vita e dell’amore, ma piuttosto la vittoria, la vittoria della vita sulla morte, dell’amore sull’odio; vedono sì la morte di Gesù, ma intravedono la sua Risurrezione; in seno alla morte pulsa ora la vita, in quanto vi inabita l’amore. Questo è il potere della Sindone: dal volto di questo “Uomo dei dolori”, che porta su di sé la passione dell’uomo di ogni tempo e di ogni luogo, anche le nostre passioni, le nostre sofferenze, le nostre difficoltà, i nostri peccati – “Passio Christi. Passio hominis” -, da questo volto promana una solenne maestà, una signoria paradossale. Questo volto, queste mani e questi piedi, questo costato, tutto questo corpo parla, è esso stesso una parola che possiamo ascoltare nel silenzio. Come parla la Sindone? Parla con il sangue, e il sangue è la vita! La Sindone è un’Icona scritta col sangue; sangue di un uomo flagellato, coronato di spine, crocifisso e ferito al costato destro. L’immagine impressa sulla Sindone è quella di un morto, ma il sangue parla della sua vita. Ogni traccia di sangue parla di amore e di vita. Specialmente quella macchia abbondante vicina al costato, fatta di sangue ed acqua usciti copiosamente da una grande ferita procurata da un colpo di lancia romana, quel sangue e quell’acqua parlano di vita. E’ come una sorgente che mormora nel silenzio, e noi possiamo sentirla, possiamo ascoltarla, nel silenzio del Sabato Santo.
Cari amici, lodiamo sempre il Signore per il suo amore fedele e misericordioso. Partendo da questo luogo santo, portiamo negli occhi l’immagine della Sindone, portiamo nel cuore questa parola d’amore, e lodiamo Dio con una vita piena di fede, di speranza e di carità.

La reposizione della santa Eucaristia del Giovedì santo: semplice tabernacolo, sepolcro o giardino? Incoerenze e suggestioni

Fa sempre bene, nello sforzo di comprendere e vivere meglio la liturgia, non dimenticare le origini dei segmenti rituali. Non deve sorprendere il fatto che molti dei riti liturgici, complessi o minimi che siano, abbiano, all’inizio, una spiegazione, passi l’espressione, del tutto pratica.

La confezione straordinaria delle specie eucaristiche nella messa del giovedì santo era in funzione della comunione sacramentale del giorno dopo, in cui non era celebrato il sacrificio eucaristico. L’abbondanza di particole rendeva quindi necessaria la conservazione in un luogo a parte, come poteva essere la sacrestia. Sembra che originariamente venisse conservato anche il vino consacrato.
Questo segmento rituale era dunque una semplice traslazione, più che una processione. Man mano, come frutto della devozione eucaristica, cresce l’apparato e la solennità con cui vengono accompagnate le specie eucaristiche (dal XI sec. sparisce l’usanza di conservare il vino consacrato). Si sceglie come luogo della conservazione un altare di qualche cappella laterale, ornato in modo speciale. Era quasi inevitabile che a tale rito venisse associata una interpretazione simbolica. Anche se non tutti gli storici della liturgia sono unanimi nell’attribuirne l’idea (Amalario nel sec. IX? altri liturgisti medioevali?), i fedeli, ormai esclusi dalla comunione eucaristica, fecero propria la suggestione che quel tabernacolo provvisorio potesse essere concepito come immagine del sepolcro di Cristo (non parve strana tale interpretazione, nonostante la liturgia non avesse ancora celebrato la passione e la morte del Signore, sottolineature – queste- del venerdì santo).
Di questa devozione al “sepolcro”, o anche ai “sepolcri”, con la visita dei vari altari della reposizione approntati nelle varie parrocchie del paese o della città, si hanno ancora persistenti echi nelle usanze del popolo di Dio, nonostante le ripetute esortazioni di parroci che vorrebbero, seguendo le riforme della liturgia della settimana santa, offrire una più profonda possibilità di meditazione, contemplazione e preghiera nella sera del giovedì santo che non una mimesi del “funerale del Signore”. Ma sembra non abbiano tanto esito le rampogne di sacerdoti forse troppo zelanti che, ammonendo stancamente “Non è il sepolcro!!”, deludono fedeli, magari già pronti alla devozione tombale (ci è capitato di vedere fedeli e fedeli già inginocchiati all’altare della reposizione ancora prima dell’inizio della S. Messa in Coena Domini, con il tabernacolo aperto e visibilmente vuoto, i ceri spenti, etc…ma forse la loro fede supera quella dei liturgisti?). A proposito, anche taluni liturgisti paiono arrendersi: “Ci si potrebbe chiedere se non sarebbe possibile introdurre nella nostra liturgia del Venerdì Santo una celebrazione della sepoltura di Cristo, ispirandosi, ad esempio, alla liturgia bizantina. La realizzazione di questa proposta potrebbe avere conseguenze pastorali non indifferenti. Occorre però riconoscere che una celebrazione del genere non è mai stata pensata né tanto meno attuata nella liturgia romana, per la quale, se la morte di Cristo costituisce un elemento fondamentale del mistero pasquale, essa è tuttavia considerata nel suo movimento verso un vertice sommo, che è la risurrezione. L’esperienza sembra comunque indicare che in numerose Chiese locali ciò non venga compreso e che i fedeli durante la settimana santa siano come alla ricerca della sepoltura di Cristo che continuano a confondere con il ‘tabernacolo provvisorio’ del giovedì santo” (1).
Né è sufficiente la rigorosa ed esatta distinzione fra una normale adorazione eucaristica, in cui le specie eucaristiche sono esposte, e la particolarissima adorazione della riserva del giovedì santo, riservata propriamente per la comunione del giorno dopo: “la processione all’altare della reposizione, dopo la messa della Cena del Signore, è completamente diversa da altre processione con il Santissimo Sacramento. Ciò che si trasporta il Giovedì santo è una pisside piena di ostie consacrate che continua a far parte dell’azione eucaristica più ampia e non una singola ostia, non spezzata, collocata al centro dell’attenzione” (2) del culto eucaristico fuori della messa. La terza edizione tipica, l’ultima, del Messale romano aggiunge una rubrica interessante: “Se la celebrazione della Passione del Signore il Venerdì seguente non ha luogo nella stessa chiesa, la messa termina nel modo consueto e il Santissimo Sacramento viene posto nel tabernacolo”, senza, quindi, solenne processione. Tuttavia, per il popolo fedele, queste, paiono sottigliezze da specialisti. Sembra invece più saggio, oltre alla precisione rubricale, offrire contenuti spirituali più forti e più coinvolgenti.
Ci ha piacevolmente sorpreso, in questo senso, una suggestione che raccogliamo da un testo di J. Ratzinger, che ancora una volta ci conferma la sapienza libera e audace di questo maestro della fede:

Al termine della liturgia del Giovedì Santo la Chiesa imita il cammino di Gesù, portando il Santissimo fuori dal tabernacolo in una cappella laterale, che sta a rappresentare la solitudine del Getsemani, la solitudine della mortale angoscia di Gesù. I fedeli pregano in questa cappella, vogliono seguire Gesù nell’ora della sua solitudine, affinché essa cessi di essere solitudine. Questo cammino del Giovedì Santo non deve rimanere un mero gesto e segno liturgico. Deve essere per noi compito di entrare sempre nella sua solitudine, di cercare sempre lui, il dimenticato, il deriso, là dove egli è solo, dove gli uomini non vogliono riconoscerlo e di stare con lui. Questo cammino liturgico è per noi esortazione a cercare la solitudine della preghiera. Ma è anche invito a cercarlo fra coloro che sono soli, dei quali nessuno si preoccupa, ed a vegliare con lui, e con lui nel mezzo delle tenebre rinnovare la luce della vita, che è “lui”. Perché è il suo cammino che in questo mondo ha fatto sorgere il nuovo giorno, la vita della Risurrezione, che non conosce più la notte.
J. RATZINGER, Il cammino pasquale, Milano 2003, 96.

(1) A. Nocent, “Il triduo pasquale e la settimana santa”, in Anamnesis, 6, L’anno liturgico, 1989, 114-115.
(2) P. Regan, Dall’Avvento alla Pentecoste. La Riforma liturgica nel Messale di Paolo VI, Bologna 2013, 178.

“Mangiare la Pasqua”

Lungi dal contrapporre i contenuti delle due antiche linee catechetico-liturgiche (e teologiche) riassunte nelle due espressioni Pasqua-Passione (Pasqua perché Cristo patì) e Pasqua-Passaggio (Pasqua perché Cristo passò da morte e vita), c’è una ricchezza da cogliere in entrambe le sottolineature, senza eccedere nelle distinzioni e tenendo insieme, cattolicamente, tutte le sfumature. Per di più, odierni studi hanno dimostrato come queste due visioni non fossero affatto unilaterali o mutuamente esclusive (1) . Per questo non abbiamo timore di offrire, a commento dell’antifona al Benedictus delle lodi di questo giovedì santo, un brano dell’antica omelia dell’Anonimo quatordecimano. Il mangiare la Pasqua e il soffrire la Passione da parte di Cristo non è un fatto “statico”, e la nostra contemplazione di tale mistero non ci fa meri spettatori. C’è un dinamismo interiore da cogliere anche in questa concezione. Lo stesso Anonimo dirà: “Dalla (sua) passione la (nostra) impassibilità, dalla sua morte la nostra immortalità, dalla sua piaga la nostra guarigione, dalla sua caduta la nostra risurrezione, dalla sua discesa la nostra risalita”. La morte di Cristo ottiene come effetto il passaggio dell’uomo dalla morte alla vita. Si percepisce l’eco del grande tema paolino di Cristo, nuovo Adamo, che ripristina l’uomo in grazia, riscattando con la sua obbedienza la disobbedienza del primo Adamo (Rom 5,12ss). Alcuni accenni espliciti di questa lettura tipologica (il legno dell’albero del paradiso e il legno della croce, la mano di Adamo che si protende verso il frutto proibito e la mano di Cristo che si lascia inchiodare sulla croce) ci fanno ricordare un altro prezioso testo della liturgia latina (2) .

Ant. al Ben. “Quanto ho desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima di patire”.
Desiderio desideravit hoc Pascha manducare vobiscum, antequam patiar.
(cf. Luca 22,15-16: Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio)

Questa era la Pasqua che Gesù desiderava patire per noi. Con la Passione ci ha liberati dalla passione; con la morte ha vinto la morte e per mezzo del cibo visibile ci ha elargito la sua vita immortale. Questo era il desiderio salvifico di Gesù, questo il suo amore tutto spirituale: mostrare le figure per figure e dare invece, al loro posto, ai discepoli il suo sacro Corpo: “Prendete, mangiate: questo è il mio Corpo. Prendete, bevete: questo è il mio Sangue, la nuova Alleanza, che sarà versato per molti in remissione dei peccati”. Per questo non è tanto mangiare la Pasqua che desiderava, quanto piuttosto patirla, onde liberare noi dalla passione incorsa mangiando.
Per questo egli soppianta il legno con il legno e in luogo della mano perversa protesasi empiamente all’origine egli lascia inchiodare piamente la sua mano immacolata e mostra su di esso tutta la vera Vita appesa. Tu, Israele, non ne hai potuto mangiare; noi però, forniti di una gnosi spirituale indistruttibile, ne mangiamo e mangiando non moriamo.

Anonimo quatordecimano, Omelia sulla Pasqua, in R. Cantalamessa, I più antichi testi pasquali della Chiesa, CLV – Edizioni liturgiche, Roma 2009.

(1) Cf. R. CANTALAMESSA, La Pasqua della nostra salvezza. Le tradizioni pasquali della Bibbia e della primitiva Chiesa, Genova 2000.

(2) https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2013/09/18/ipse-lignum-tunc-notavit-ancora-sulla-teologia-della-storia-a-partire-dal-legno-della-croce/

Liturgia e gravitazione!? Un’accostamento improbabile, ma “benedetto”.

Altre volte avevamo sottolineato l’insuperabile maestria mostrata da Benedetto XVI nel raccogliere insieme spunti e concetti provenienti da ambiti assai diversi ed offrire, quindi, delle sintesi originalissime. Tale ricchezza di contenuti e di riferimenti, tuttavia, aveva spesso agganci immediati con qualche elemento della celebrazione all’interno della quale era tenuta l’omelia. Oltre naturalmente ai testi biblici del lezionario, erano frequenti i richiami ai testi liturgici (antifone, inni, preghiere) e alle particolari ritualità. Mentre Papa Francesco pare meno attento al legame fra il testo biblico e il contesto liturgico in cui quel testo viene proclamato – mostrando la sua geniale ispirazione in efficaci e colorite attualizzazioni di diverso tenore -, la predicazione di Benedetto XVI assumeva il carattere di una modernissima mistagogia.
Non potendo addentrarci in considerazioni di omiletica – non ne siamo capaci – né, tantomeno, intendendo soffermarci in paragoni o confronti, queste parole volevano solamente introdurre un’omelia di Benedetto XVI, in occasione della domenica delle Palme dell’anno 2011, sottolineando, come già abbiamo fatto in occasioni precedenti, il suo frequente ricorrere alle scienze naturali. Solo ad un genio poteva venire in mente di collegare la celebrazione della Domenica delle Palme alla gravitazione! Questo mostra, fra l’altro, quanto l’attenzione alla dimensione cosmica della liturgia fosse per Ratzinger una sensibilità meditata profondamente ed interiore, e non solamente – come per taluni altri – un pretesto ideologico per giustificare polemiche o rivendicazioni (si pensi, ad es. alla questione dell’orientamento). Ma, bando alle polemiche, e gustiamoci la meditazione di Benedetto XVI:

La nostra processione odierna vuole quindi essere l’immagine di qualcosa di più profondo, immagine del fatto che, insieme con Gesù, c’incamminiamo per il pellegrinaggio: per la via alta verso il Dio vivente. È di questa salita che si tratta. È il cammino a cui Gesù ci invita. Ma come possiamo noi tenere il passo in questa salita? Non oltrepassa forse le nostre forze? Sì, è al di sopra delle nostre proprie possibilità. Da sempre gli uomini sono stati ricolmi – e oggi lo sono quanto mai – del desiderio di “essere come Dio”, di raggiungere essi stessi l’altezza di Dio. In tutte le invenzioni dello spirito umano si cerca, in ultima analisi, di ottenere delle ali, per potersi elevare all’altezza dell’Essere, per diventare indipendenti, totalmente liberi, come lo è Dio. Tante cose l’umanità ha potuto realizzare: siamo in grado di volare. Possiamo vederci, ascoltarci e parlarci da un capo all’altro del mondo. E tuttavia, la forza di gravità che ci tira in basso è potente. Insieme con le nostre capacità non è cresciuto soltanto il bene. Anche le possibilità del male sono aumentate e si pongono come tempeste minacciose sopra la storia. Anche i nostri limiti sono rimasti: basti pensare alle catastrofi che in questi mesi hanno afflitto e continuano ad affliggere l’umanità.
I Padri hanno detto che l’uomo sta nel punto d’intersezione tra due campi di gravitazione. C’è anzitutto la forza di gravità che tira in basso – verso l’egoismo, verso la menzogna e verso il male; la gravità che ci abbassa e ci allontana dall’altezza di Dio. Dall’altro lato c’è la forza di gravità dell’amore di Dio: l’essere amati da Dio e la risposta del nostro amore ci attirano verso l’alto. L’uomo si trova in mezzo a questa duplice forza di gravità, e tutto dipende dallo sfuggire al campo di gravitazione del male e diventare liberi di lasciarsi totalmente attirare dalla forza di gravità di Dio, che ci rende veri, ci eleva, ci dona la vera libertà.
Dopo la liturgia della Parola, all’inizio della Preghiera eucaristica durante la quale il Signore entra in mezzo a noi, la Chiesa ci rivolge l’invito: “Sursum corda – in alto i cuori!” Secondo la concezione biblica e nella visione dei Padri, il cuore è quel centro dell’uomo in cui si uniscono l’intelletto, la volontà e il sentimento, il corpo e l’anima. Quel centro, in cui lo spirito diventa corpo e il corpo diventa spirito; in cui volontà, sentimento e intelletto si uniscono nella conoscenza di Dio e nell’amore per Lui. Questo “cuore” deve essere elevato. Ma ancora una volta: noi da soli siamo troppo deboli per sollevare il nostro cuore fino all’altezza di Dio. Non ne siamo in grado. Proprio la superbia di poterlo fare da soli ci tira verso il basso e ci allontana da Dio. Dio stesso deve tirarci in alto, ed è questo che Cristo ha iniziato sulla Croce. Egli è disceso fin nell’estrema bassezza dell’esistenza umana, per tirarci in alto verso di sé, verso il Dio vivente. Egli è diventato umile, dice oggi la seconda lettura. Soltanto così la nostra superbia poteva essere superata: l’umiltà di Dio è la forma estrema del suo amore, e questo amore umile attrae verso l’alto.
Il Salmo processionale 24, che la Chiesa ci propone come “canto di ascesa” per la liturgia di oggi, indica alcuni elementi concreti, che appartengono alla nostra ascesa e senza i quali non possiamo essere sollevati in alto: le mani innocenti, il cuore puro, il rifiuto della menzogna, la ricerca del volto di Dio. Le grandi conquiste della tecnica ci rendono liberi e sono elementi del progresso dell’umanità soltanto se sono unite a questi atteggiamenti – se le nostre mani diventano innocenti e il nostro cuore puro, se siamo in ricerca della verità, in ricerca di Dio stesso, e ci lasciamo toccare ed interpellare dal suo amore. Tutti questi elementi dell’ascesa sono efficaci soltanto se in umiltà riconosciamo che dobbiamo essere attirati verso l’alto; se abbandoniamo la superbia di volere noi stessi farci Dio. Abbiamo bisogno di Lui: Egli ci tira verso l’alto, nell’essere sorretti dalle sue mani – cioè nella fede – ci dà il giusto orientamento e la forza interiore che ci solleva in alto. Abbiamo bisogno dell’umiltà della fede che cerca il volto di Dio e si affida alla verità del suo amore.
La questione di come l’uomo possa arrivare in alto, diventare totalmente se stesso e veramente simile a Dio, ha da sempre impegnato l’umanità. È stata discussa appassionatamente dai filosofi platonici del terzo e quarto secolo. La loro domanda centrale era come trovare mezzi di purificazione, mediante i quali l’uomo potesse liberarsi dal grave peso che lo tira in basso ed ascendere all’altezza del suo vero essere, all’altezza della divinità. Sant’Agostino, nella sua ricerca della retta via, per un certo periodo ha cercato sostegno in quelle filosofie. Ma alla fine dovette riconoscere che la loro risposta non era sufficiente, che con i loro metodi egli non sarebbe giunto veramente a Dio. Disse ai loro rappresentanti: Riconoscete dunque che la forza dell’uomo e di tutte le sue purificazioni non basta per portarlo veramente all’altezza del divino, all’altezza a lui adeguata. E disse che avrebbe disperato di se stesso e dell’esistenza umana, se non avesse trovato Colui che fa ciò che noi stessi non possiamo fare; Colui che ci solleva all’altezza di Dio, nonostante la nostra miseria: Gesù Cristo che, da Dio, è disceso verso di noi e, nel suo amore crocifisso, ci prende per mano e ci conduce in alto.
Noi andiamo in pellegrinaggio con il Signore verso l’alto. Siamo in ricerca del cuore puro e delle mani innocenti, siamo in ricerca della verità, cerchiamo il volto di Dio. Manifestiamo al Signore il nostro desiderio di diventare giusti e Lo preghiamo: Attiraci Tu verso l’alto! Rendici puri! Fa’ che valga per noi la parola che cantiamo col Salmo processionale; cioè che possiamo appartenere alla generazione che cerca Dio, “che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe” (Sal 24,6). Amen.

Per l’omelia completa si può vedere: http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2011/documents/hf_ben-xvi_hom_20110417_palm-sunday_it.html

“ad hoc”

Da un comune dizionario:

La locuzione latina “ad hoc”, di uso comune anche nella lingua italiana, il cui significato letterale è “per questo”, è utilizzata per indicare qualcosa creata per uno scopo ben preciso, per esempio: una legge creata ad hoc (cioè con un preciso scopo); un discorso ad hoc (ossia pensato e scritto con uno scopo ben preciso). L’espressione è altresì adoperata, per indicare anche un atteggiamento, un modo di fare “appositamente” concepito per rispondere ad una specifica situazione.

L’inno proposto per l’Ufficio delle Letture nella Settimana Santa, Pange, lingua, gloriosi, proelium certaminis, è un gioiello. Fa impressione, fra tantissimi altri spunti, la quinta strofa: la sintesi del mistero della vita di Cristo è ardita ed efficacemente poetica.

Lustra sex qui iam peracta,
tempus implens corporis,
se volente, natus ad hoc,
Passioni deditus,
Agnus in Crucis levatur
immolandus stipite.

Egli, già trascorsi sei lustri e compiendo il tempo della sua vita mortale, volendolo lui, nato per questo, si offre alla Passione, come Agnello è innalzato sul legno della Croce, per esservi immolato.
E’ fortissimo quel “ad hoc”, insieme al “se volente”! Che mirabile teologia è racchiusa qui. Insieme alle altre strofe, l’inno percorre tutta la storia della salvezza, dal primo peccato al mistero pasquale. Anche il mistero dell’incarnazione riceve luce dalla Pasqua. Ben oltre a qualsiasi accenno sentimentale o devozionale, la liturgia ci permette di entrare nel più profondo cuore del mistero della salvezza, con poche parole, ridicendo la Scrittura e i Padri in modo davvero incredibile.

Tu lo dici; sono re; io sono nato per questo, e per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità.
tu dicis quia rex sum ego, ego in hoc natus sum et ad hoc veni in mundum ut testimonium perhibeam veritati
(Gv 18,37)

Ego crucem volens patior, et mortem in me quam sum perempturus admitto.
Io soffro la croce perché lo voglio, e accetto in me la morte che sto per distruggere.
(Leone Magno, Sermone 48,3,5)

Certamente anche la stessa nascita del Signore da una madre è ordinata a questo mistero, né ci fu altro motivo nella nascita terrena del Figlio di Dio se non quello di poter essere affisso alla croce. Nel seno della Vergine fu assunta la carne mortale, e in quella carne mortale ebbe compimento il disegno della passione, che per l’ineffabile disposizione della misericordia divina fu per noi sacrificio di redenzione, abolizione della colpa e principio di risurrezione alla vita eterna.
Siquidem etiam ipsa Domini ex matre generatio huic sit impensa sacramento, nec alia fuerit Filio Dei causa nascendi, quam ut cruci posset adfigi. In utero enim Virginis suscepta est caro mortalis, in carne mortali completa est dispositio passionis, effectumque est ineffabili consilio misericordiae Dei, ut esset nobis sacrificium redemptionis, abolitio peccati et ad aeternam vitam initium resurgendi.
(Leone Magno, Sermone 35,1)

 

Un salmo, due antifone differenti. Ecco cosa ne traeva J. Ratzinger!

Riportiamo una meditazione di J. Ratzinger, preparata per il Meeting di Rimini del 2002 (la meditazione sarebbe stata poi inviata e pubblicata nella rivista Tracce – Litterae communionis). E’ incredibile la profondità del pensiero dell’allora cardinale, e sorprendente è il fatto che tale meditazione ha l’avvio da quello che, se vogliamo, può essere considerato un “dettaglio” dell’odierna Liturgia delle Ore. Forse ai più sfugge o risulta insignificante il fatto che la disposizione grafica del II volume del Breviario (tempo di Quaresima e Pasqua) abbia disposto di seguito, per uno stesso salmo, tre antifone differenti (da recitarsi rispettivamente in quaresima, nella settimana santa e nel tempo di pasqua), ma per Ratzinger tale “coincidenza” suggerisce qualcosa di molto, molto interessante. Il tema della meditazione è la bellezza, e il suo rapporto con la verità. Un testo tutto da leggere e meditare, tuttavia qui ne riportiamo solo alcuni passaggi. Il testo è stato poi edito nella raccolta di saggi J. RATZINGER, In cammino verso Gesù Cristo, Roma 2004, 27-34. Si può vedere anche http://papabenedettoxvitesti.blogspot.it/2011/03/card-ratzinger-2004-colui-che-e-la.html

Ogni anno, nella liturgia delle ore del tempo di Quaresima, torna a colpirmi un paradosso che s’incontra nei vespri del lunedì della seconda settimana del Salterio. Qui, una accanto all’altra, ricorrono due antifone – una per il tempo di Quaresima, l’altra per la Settimana santa – che introducono il salmo 44, offrendone però una chiave interpretativa del tutto contrapposta. E’ il salmo che descrive le nozze del re, la sua bellezza, le sue virtù, la sua missione, e poi si trasforma in un’esaltazione della sposa. Nella Quaresima il salmo ha come cornice la medesima antifona che viene utilizzata per tutto il resto dell’anno liturgico; si tratta del terzo versetto che recita: “Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, /sulle tue labbra è diffusa la grazia”. La Chiesa, ovviamente, legge questo salmo come espressione poetica/profetica del rapporto speciale di Cristo con la sua Chiesa. Riconosce Cristo come il più bello tra gli uomini; la grazia diffusa sulle sue labbra significa l’intima bellezza della sua parola, significa la gloria del suo annuncio. Non è dunque la bellezza esteriore della figura del Redentore a essere glorificata: ciò che si manifesta in lui è invece la bellezza della Verità, la bellezza stessa di Dio che ci attira e nel contempo ci procura la ferita dell’Amore, l’eros (la “sacra passione”) che ci fa correre, assieme alla Chiesa e nella Chiesa/Sposa, incontro all’Amore che ci chiama. Ma il lunedì della Settimana santa la Chiesa cambia l’antifona, invitandoci a leggere il medesimo salmo alla luce di Is 53,2: “Non ha bellezza né apparenza; / l’abbiamo veduto: un volto sfigurato dal dolore”. Come si conciliano le due visioni? Il “più bello” tra i figli degli uomini è tanto misero d’aspetto al punto che nemmeno lo si vuol vedere. Pilato lo mostra alla folla: Ecce homo! Cerca di suscitare un po’ di pietà verso quell’essere maltrattato e percosso, ormai privo di ogni esteriore bellezza. Sant’Agostino – che nella sua giovinezza aveva scritto un’operetta (andata perduta) “sul bello e sull’utile”, e che era un cultore del bello nel linguaggio, nella musica e nelle arti figurative – aveva colto acutamente questo paradosso, intuendo che la raffinata filosofia greca del bello veniva qui non soltanto accantonata, bensì posta drammaticamente e radicalmente in discussione: cos’è il bello? / cos’è la bellezza? Riferendosi al contenuto dei due testi citati, Agostino parla di “due trombe” che suonano in contrasto tra loro, eppure i loro suoni provengono da un medesimo soffio, dal medesimo Spirito. Nel paradosso egli vede contrapposizione, ma non contraddizione. Unico infatti è lo Spirito che suscita la Scrittura, traendone però differenti note e ponendoci, proprio in questo modo, di fronte alla perfezione della Bellezza, della Verità in sé. Il testo isaiano ha indotto non pochi Padri a domandarsi se Cristo fosse bello oppure no. Ma sotto questo interrogativo cova una questione ben più decisiva: cioè, se la bellezza sia anche vera, o non sia piuttosto la bruttezza a condurci alla verità profonda del reale. Chi crede in Dio, nel Dio che proprio nelle sembianze alterate del Crocifisso si è manifestato come amore “sino alla fine” (GV 13,1), sa che la bellezza è verità e che la verità è bellezza; ma nel Cristo sofferente apprende anche che la bellezza della verità include offesa , dolore e persino l’oscuro mistero della morte. Bellezza e verità possono rinvenirsi soltanto nell’accettazione del dolore, e non nel suo rifiuto. Una certa coscienza del fatto che alla bellezza non è estraneo il dolore, è riscontrabile già nel mondo greco.

[…] Io ho espresso sovente la mia convinzione che la vera apologia del cristianesimo, ovvero la prova più persuasiva della sua verità, contro ogni negazione, sono da un lato i santi, dall’altro la bellezza che la fede è stata capace di generare. Affinché oggi la fede possa crescere dobbiamo facilitare a noi stessi e alle persone in cui c’imbattiamo l’incontro con i santi, il contatto con il bello. Abbiamo già respinto l’obiezione secondo cui ciò che finora è stato sostenuto significherebbe una fuga nell’irrazionale, nel puro estetismo. E’ vero invece l’opposto: proprio così la ragione viene liberata dal suo torpore e messa in condizione d’agire. Maggior peso però ha un’altra obiezione: il messaggio della bellezza verrebbe messo in dubbio dal prevalere della menzogna, della seduzione, della violenza, del male. Può la bellezza pretendere di essere autentica, o alla fine si riduce a pura illusione? La realtà non è forse radicalmente iniqua? Da sempre gli uomini hanno temuto che, alla resa dei conti, non sia affatto lo strale del bello a svelarci la verità, ma che siano piuttosto la menzogna, la bruttezza e il volgare a rappresentare l’autentica “realtà”.

[…] Non resta dunque che tornare alle “due trombe” della Bibbia da cui avevamo preso le mosse, cioè al paradosso di Cristo, del quale si può dire: “Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo…”, ma anche: “Non ha bellezza né apparenza;…un volto sfigurato dal dolore”. Nella passione di Cristo, l’estetica greca – ammirevole per il suo presunto contatto col divino, che tuttavia rimane indicibile – non viene ricuperata, ma è del tutto superata. L’esperinza del bello riceve una nuova profondità, un nuovo realismo. Colui che è la “Bellezza in sé” si è lasciato percuotere sul volto, coprire di sputi, incoronare di spine: la Sacra Sindone di Torino ci racconta tutto ciò in maniera toccante. Ma proprio in quel volto sfigurato appare l’autentica, estrema Bellezza dell’Amore che ama “sino alla fine”, mostrandosi così più forte di ogni menzogna e violenza. Soltanto chi sa cogliere questa bellezza comprende che proprio la verità, e non la menzogna, è l’estrema “affermazione” del mondo. E’ semplicemente un trucco astuto della menzogna quello di presentarsi come “unica verità”, quasi che al di fuori e al di là di essa non ne esista alcun’altra. Soltanto l’icona del Crocifisso è capace di liberarci da quest’inganno, oggi così prepotente. Ma ad una condizione: che assieme a Lui ci lasciamo ferire, fidandoci di quell’Amore che non esita a svestirsi della bellezza esteriore, per annunciare proprio in questo modo la Verità della Bellezza. La menzogna conosce anche un altro stratagemma: la bellezza ingannevole e falsa, quella bellezza che abbaglia e imprigiona gli uomini in se stessa, impedendo loro di aprirsi all’estasi che indirizza verso l’alto. Una bellezza che non risveglia la nostalgia dell’indicibile, la disponibilità all’offerta, all’abbandono di sé; che alimenta invece la brama e la volontà di dominio, di possesso, di piacere. E’ di questo genere di bellezza che parla la Genesi: Eva vide che il frutto dell’albero era “buono da mangiare e seducente per gli occhi…” (Gn 3.6). La bellezza, così colme la donna la sperimenta, risveglia in lei il desiderio del possesso: la fa come ripiegare su se stessa. Chi non vede, ad esempio, l’abilità estrema con cui la pubblicità fa ricorso alle immagini con lo scopo di risvegliare la brama del possesso, la ricerca del soddisfacimento momentaneo, anziché l’apertura a qualcosa d’altro da sé? Perciò l’arte cristiana si trova oggi (ma forse già da sempre) tra due fuochi: da un lato deve opporsi al culto del brutto, tendente a convincere che ogni bellezza è inganno, e che soltanto la rappresentazione della crudeltà, della bassezza e del volgare sarebbe verità e illuminazione; dall’altro deve contrastare la bellezza menzognera che mira a rendere l’uomo più piccolo, anziché espanderlo nella verità. Con notevole frequenza udiamo citare Dostoevskij: “La bellezza ci salverà”. Ma il più delle volte si dimentica che il grande autore russo pensa alla bellezza redentiva di Cristo. Occorre imparare a “vedere” Cristo. Non basta conoscerlo semplicemente a parole: bisogna lasciarsi colpire dal dardo della sua bellezza paradossale: così avviene la vera conoscenza, attraverso l’incontro personale con la Bellezza della Verità che salva. E nulla può metterci maggiormente a contatto con la Bellezza di Cristo che il mondo del bello realizzato dalla fede, e la luce che risplende sul volto dei santi: così diventa per noi visibile la sua stessa Luce.

..ecclesiarum aulis saepe quasi desertis…

Con le navate delle chiese sovente quasi deserte… Il latino dà un tono di tragica solennità a queste poche parole, che sembrerebbero descrivere l’attuale situazione di crisi di frequenza alla celebrazioni liturgiche.

Si tratta, tuttavia, di una citazione di un documento risalente al 1955, quindi ben prima del Concilio Vaticano II, che secondo alcuni avrebbe aperto una falla irreparabile al processo di secolarizzazione nel popolo cristiano.

La registrazione di quella difficoltà sarà uno dei motivi che spinsero Pio XII a riformare i riti della settimana santa. Non manca chi insinua che la riforma liturgica (è più frequente che sia messa in discussione quella successiva al Concilio, ma anche Pio XII non è risparmiato da accuse di aver stravolto la tradizione) sia la causa della crisi, mentre qui abbiamo una certa testimonianza del principio contrario: proprio perché si constata la difficoltà di vivere la liturgia, nel momento dell’anno liturgico più solenne – la settimana santa -,  si decide di provvedere riformando alcuni aspetti delle celebrazioni. La riforma non è la causa della crisi, ma una delle risposte alla crisi.

Purtroppo non si è trovata disponibile una versione italiana del documento Maxima redemptionis nostra mysterium, il decreto della Sacra Congregazione dei Riti (16/11/1955) con cui viene riformato l’Ordo della Settimana santa. Il testo latino si può vedere qui: http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/ccdds/documents/rc_con_ccdds_doc_19551116_maxima-redemptoris_lt.html. Del paragrafo da cui abbiamo estratto la citazione del titolo offriamo una nostra traduzione. Appena prima di questo paragrafo il documento fa riferimento alla Costituzione apostolica di Urbano VIII Universa per orbem (24/10/1642), con il quale il Papa dovette registrare l’impossibilità di considerare come giorni festivi i giorni del triduo. Si comprende così l’avverbio temporale che dà l’avvio al paragrafo:

Exinde vero fidelium ad sacros hos ritus frequentia necessario decrevit, ea praesertim de causa, quod eorum celebratio iam diu ad horas matutinas anteposita fuerat, quando scilicet scholae, opificia et publica cuiusque generis negotia, ubique terrarum, diebus ferialibus peragi solent et peraguntur. Communis reapse et quasi universalis experientia docet, solemnes gravesque has sacri tridui liturgicas actiones a clericis peragi solere, ecclesiarum aulis saepe quasi desertis.

Da allora, perdipiù, la frequenza dei fedeli a questi sacri riti necessariamente diminuì, specialmente perchè la loro celebrazione già da tempo era stata anticipata alle ore del mattino, quando, dappertutto, nei giorni feriali i fedeli erano e sono tuttora occupati a scuola, al lavoro e in ogni genere di attività pubbliche. In sostanza, l’esperienza comune e pressoché universale insegna che queste solenni ed importanti celebrazioni liturgiche del sacro triduo vengono svolte dal clero con le navate delle chiese sovente quasi deserte.

Possa tu degnarti di venire a questa mia tomba… Una preghiera ispirata da Lazzaro

Dégnati, Signore,

di venire alla mia tomba,

e di lavarmi con le tue lacrime:

nei miei occhi inariditi

non ne dispongo tante

da poter detergere le mie colpe!

Se piangerai per me io sarò salvo.

Se sarò degno delle tue lacrime,

eliminerò il fetore di tutti i miei peccati.

 

Se meriterò

che tu pianga qualche istante per me,

mi chiamerai dalla tomba di questo corpo

e dirai: “Vieni fuori”,

perché i miei pensieri non restino

nello spazio angusto di questa carne,

ma escano incontro a Cristo, per vivere alla luce.

Perché non pensi alle opere delle tenebre

ma a quelle del giorno:

chi pensa al peccato cerca di rinchiudersi nella sua coscienza.

Signore, chiama dunque fuori il tuo servo:

pur stretto nei vincoli dei miei peccati,

con i piedi avvinti e le mani legate,

e pur sepolto ormai

nei miei pensieri e nelle opere morte,

alla tua voce io uscirò libero

e diventerò uno dei commensali al tuo convito.

La tua casa sarà pervasa di profumo,

se custodirai quello che ti sei degnato di redimere.

Ambrogio, La Penitenza, II,71

Utinam ergo ad hoc monumentum meum dignaris accedere, Domine Iesu, tuis me lacrimis laves, quoniam durioribus oculis non habeo tantas lacrimas, ut possim mea lavare delicta! Si inlacrimaveris pro me, salvus ero. Si dignus fuero lacrimis tuis faetorem abstergebo delictorum omnium. […] Voca ergo foras servum tuum. […] Et domus tua pretioso replebitur unguento, si , quem redimere dignatus es, custodieris.