A proposito del segno della croce, introdotto con il Messale di Paolo VI all’inizio della celebrazione della Messa – di cui abbiamo parlato nel post precedente (https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/02/13/paolo-vi-bugnini-e-il-consilium-un-dettaglio-esemplare-ed-eloquente-al-di-la-di-facili-pregiudizi/) -, segnaliamo oggi un testo di J. Ratzinger. Profondissimo e ricco di spunti, ma allo stesso tempo aperto a risvolti esistenziali e assai concreti. E’ davvero sorprendente la sua capacità di passare dai Padri alla filosofia greca, dall’Antico al Nuovo Testamento, per finire con il ricordo assai personale ed intimo della benedizione che riceveva dai suoi genitori: «Benedire è un gesto sacerdotale: in quel segno della croce noi (bambini) percepivamo il sacerdozio dei genitori, la sua particolare dignità e la sua forza. Penso che questo gesto del benedire, come piena e benevola espressione del sacerdozio universale di tutti i battezzati, debba tornare molto più fedelmente a far parte della vita quotidiana e abbeverarla con l’energia dell’amore che proviene dal Signore».
Il gesto fondamentale della preghiera del cristiano è e resta il segno della croce. E’ una professione, espressa mediante il corpo, di fede in Cristo Crocifisso, secondo le parole programmatiche di San Paolo: “Noi annunciamo Cristo Crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani, ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio” (1Cor 1,23s). E ancora: “Io non volli sapere tra di voi se non Cristo, e questi crocifisso” (2,2). Segnare se stessi con il segno della croce è un si visibile e pubblico a Colui che ha sofferto per noi; a Colui che nel corpo ha reso visibile l’amore di Dio fino all’estremo; al Dio che non governa mediante la distruzione, ma attraverso l’umiltà della sofferenza e dell’amore, che è più forte di tutta la potenza del mondo e più saggia di tutta l’intelligenza e di tutti i calcoli dell’uomo. Il segno della croce è una professione di fede: io credo in Colui che ha sofferto per me ed è risorto; in Colui che ha trasformato il segno dello scandalo in un segno di speranza e dell’amore presente di Dio per noi. La professione di fede è una professione di speranza: credo in Colui che nella sua debolezza è l’Onnipotente; in Colui che, proprio nell’apparente assenza ed estrema debolezza, può salvarmi e mi salverà. Nel momento in cui noi ci segniamo con la croce, ci poniamo sotto la protezione della croce, la teniamo davanti a noi come uno scudo che ci protegge nelle tribolazioni delle nostre giornate e ci dà il coraggio per andare avanti. La prendiamo come un segnale che ci indica la strada da seguire: “Chi vuol essere mio discepolo, rinneghi se stesso, prenda la sua croce su di sé e mi segua” (Mc 8,34). La croce ci mostra la strada della vita: la sequela di Cristo.
Noi leghiamo il segno della croce con la professione di fede nel Dio Trinità – Padre, Figlio e Spirito Santo. Esso diventa così ricordo del battesimo, in maniera ancor più chiara quando lo accompagniamo con l’uso dell’acqua benedetta. La croce è un segno della passione, ma è allo stesso tempo anche segno della resurrezione: essa è per così dire il bastone della salvezza che Dio ci porge, il ponte su cui superiamo l’abisso della morte e tutte le minacce del male e possiamo giungere fino a Lui. Essa è resa presente nel battesimo, nel quale diveniamo contemporanei alla croce e alla resurrezione di Cristo (Rm 6,1-14). ogni volta che ci facciamo il segno della croce rinnoviamo il nostro battesimo: Cristo dalla Croce ci attira fino a se stesso (Gv 12,32) e fin dentro la comunione con il Dio vivente. Poiché il battesimo e il segno della croce, che lo rappresenta e rinnova, sono soprattutto un evento di Dio: lo Spirito Santo ci conduce a Cristo, e Cristo ci apre la porta verso il Padre. Dio non è più il Dio sconosciuto; ha un nome. Possiamo chiamarlo, e Lui chiama noi. Possiamo quindi dire che nel segno della croce, nella sua invocazione trinitaria è riassunta tutta l’essenza dell’avvenimento cristiano, è presente il tratto distintivo del cristianesimo. Nello stesso tempo, però, esso ci apre la strada anche nell’ampiezza della storia delle religioni e nel messaggio di Dio presente nella creazione. Già nel 1873 vennero scoperte sul Monte degli Ulivi delle iscrizioni sepolcrali greche ed ebraiche risalenti all’incirca al tempo di Gesù, che erano accompagnate dal segno della croce; gli archeologi ne dedussero che si trattava di cristiani delle primissimi origini. Intorno al 1945 vennero fatte numerose scoperte di tombe giudaiche recanti il segno della croce, risalenti più o meno al primo secolo dopo Cristo. Tali scoperte non consentivano più di ritenere che si trattasse di cristiani della prima generazione; si dovette piuttosto riconoscere che i segni della croce erano presenti anche in ambito giudaico. Che senso aveva tutto questo? La chiave interpretativa era fornita da Ez 9,4ss. Nella visione ivi descritta Dio stesso dice al suo messaggero vestito di lino che porta al fianco la borsa da scriba: “Vai in mezzo alla città e scrivi un Tau sulla fronte di tutti gli uomini che sospirano e piangono per tutti gli abomini che vi si compiono”. Nella catastrofe spaventosa che si preannuncia coloro che non si riconoscono nel peccato del mondo, ma soffrono per esso a motivo di Dio – soffrono senza potere fare nulla, ma sono appunto lontani dal peccato – devono essere segnati con l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, la Tau, che veniva scritta a forma di croce (T oppure + oppure X). La Tau, che in effetti aveva la forma di una croce, diventa il sigillo della proprietà di Dio. Risponde al desiderio e al doloro dell’uomo per Dio e lo mette così sotto la particolare protezione di Dio. E. Dinkler ha potuto dimostrare che la stigmatizzazione cultuale – sulle mani o sulla fronte – è preannunziata in diversi modi nell’Antico Testamento e che questa usanza era nota anche in epoca neotestamentaria; Ap 7,1-8 riprende nel Nuovo Testamento l’idea fondamentale della visione di Ezechiele. I reperti tombali, unitamente ai testi contemporanei, mostrano che in determinati circoli del giudaismo la Tau era diffusa come segno santo, come segno della professione di fede nel Dio di Israele e, allo stesso tempo, come segno di speranza nella sua protezione. Dinkler riassume i suoi studi nell’affermazione che nel Tau a forma di croce è «riassunta un’intera professione di fede in un solo segno», che le «realtà credute, sperate, sono riprese in un’immagine visibile. Un’immagine, certamente, che è più di uno specchio, da cui piuttosto si spera una forza capace di salvezza..» (24). Per quello che possiamo saperne finora, i cristiani non si sono dapprima richiamati a questo simbolo giudaico, ma hanno trovato il segno della croce a partire dal profondo della loro fede, potendovi cosi riconoscere la somma di tutta la loro fede. In seguito, però, la visione di Ezechiele della Tau salvifica e tutta la tradizione che su di essa si basava non dovevano apparire loro come uno sguardo aperto sul futuro? Non veniva forse ora «velato» (cfr. 2Cor 3,18) ciò che si era voluto intendere con questo segno misterioso? Non era ora finalmente chiaro a chi esso apparteneva e da chi riceveva la sua forza? Non dovevano, dunque, vedere in tutto questo una prefigurazione della croce di Cristo, che aveva realmente dato alla Tau la forza di salvare? Ancor più direttamente coinvolti da un’altra scoperta furono i Padri legati al contesto culturale greco. Essi trovarono in Platone una strana immagine della
croce tracciata nel cosmo (Timeo 34 A/B e 36 B/C). Platone l’aveva ripresa da tradizioni pitagoriche che, a loro volta, stavano in rapporto con tradizioni dell’antico Oriente. Si tratta anzitutto di un’affermazione astronomica: i due grandi movimenti stellari conosciuti dall’astronomia antica – l’eclittica (il grande cerchio intorno alla sfera terrestre, su cui scorre il movimento apparente del sole) e l’orbita terrestre – si incontrano e formano insieme la lettera greca Chi, che, a sua volta, e rappresentata a forma di croce (come una X). Il segno della croce è quindi inscritto nel cosmo nella sua totalità. Platone – riprendendo altre, più antiche tradizioni – aveva messo in relazione questo dato con l’immagine della divinità: il demiurgo (colui che plasma il mondo) avrebbe, cioè, «dispiegato» l’anima del mondo «attraverso tutto l’universo». Giustino martire, il primo filosofo tra i Padri, originario della Palestina e morto intorno al 165, scoprì questo testo di Platone e non esitò a metterlo in rapporto con la dottrina del Dio trinitario e con il suo intervento salvifico in Gesù Cristo. Nell’immagine del demiurgo e dell’anima del mondo egli vede dei presagi del mistero del Padre e del Figlio, presagi che certamente necessitavano di essere corretti, ma che erano anche capaci di correzioni. Quello che Platone dice sull’anima del mondo gli pare un richiamo alla venuta del Logos, del Figlio di Dio. E cosi egli può arrivare a dire che la figura della croce è il massimo simbolo della signoria del Logos, senza il quale l’intera creazione non potrebbe stare insieme (1 Apol. 55). La croce del Golgota è prefigurata nella struttura stessa del cosmo; lo strumento di martirio, su cui il Signore è morto, è inscritto nella struttura dell’universo. Il cosmo ci parla della croce, e la croce ci disvela il mistero del cosmo. Essa è la vera chiave interpretativa di tutta la realtà. La storia e il cosmo sono l’una parte dell’altro. Se apriamo gli occhi, leggiamo il messaggio di Cristo nel linguaggio dell’universo e, d’altra pane, Cristo ci dona di comprendere il messaggio della creazione. A partire da Giustino questa «profezia della croce» e la connessione da essa derivante tra cosmo e storia è divenuta una delle idee fondamentali della teologia patristica. Per i Padri fu sconvolgente scoprire che il filosofo che riassumeva e interpretava le più antiche tradizioni aveva parlato della croce come sigillo dell’universo. Ireneo di Lione (morto intorno al 200), il vero fondatore della teologia sistematica nella sua forma cattolica, nel suo scritto apologetico intitolato Esposizione della predicazione apostolica afferma: il Crocifisso “è Lui stesso la parola del Dio onnipotente che penetra della sua invisibile presenza il nostro universo. E per questo abbraccia tutto il mondo, la sua ampiezza e la sua lunghezza, la sua altezza e la sua profondità; poiché mediante la Parola di Dio tutte le cose sono state guidate all’ordine. E il Figlio di Dio è crocifisso in esse, essendo Egli impresso in tutte le cose nella forma della croce” (1,3). Questo testo del grande padre della Chiesa nasconde una citazione biblica che è di grande importanza per la teologia biblica della croce. La lettera agli Efesini ci ammonisce a essere radicati nell’amore e a fondarci su di esso, così da divenire capaci “di comprendere insieme con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza” (3,l8s). Non c’è quasi dubbio che già questa lettera, appartenente alla scuola di san Paolo, accenni qui alla croce cosmica, recependo quindi delle tradizioni religiose che parlano dell’albero cosmico a forma di croce che sostiene l’universo – una concezione religiosa che, tra l’altro, era nota anche in India. Agostino ha dato una interpretazione straordinariamente esistenziale di questo importante passo paolino. Egli vi vede raffigurate le dimensioni della vita umana, in riferimento alla figura del Cristo crocifisso, le cui braccia circondano il mondo, la cui via giunge fino agli abissi degli inferi e fino all’altezza di Dio stesso (De doctr. Christ. II 41,62-C.Ch. XXXII, 75s). Hugo Rahner ha raccolto i più bei testi patristici che parlano del mistero cosmico della croce. Vorrei qui citarne solo due. In Lattanzio († ca. 325) leggiamo: “Nel suo dolore Dio allargò le braccia e abbracciò così il mondo, per prefigurare già allora che fin dal sorgere del sole e sino al suo tramonto un popolo che doveva venire si sarebbe raccolto sotto le sue ali” (81). Un ignoto greco del secolo quarto contrappone la croce al culto del sole e dice: ora Helios (il sole) è stato sconfitto dalla croce “e l’uomo, che il sole creato nel cielo non poté istruire, ecco, ora viene rischiarato dalla luce solare della croce e illuminato (nel battesimo)”. Poi l’anonimo riprende un’espressione di sant’Ignazio di Antiochia (morto intorno al 110), che aveva definito la croce come «l’argano» (mechane) del cosmo per la risalita nel cielo (Eph. 9,1) e dice: “O sapienza veramente divina! O croce, tu argano per il cielo. La croce è stata piantata – ed ecco, la schiavitù degli idoli è stata annientata. Non è un legno come gli altri, ma un legno di cui Dio si è servito per la vittoria” (87s).
Nel suo discorso escatologico Gesù aveva annunciato che alla fine dei tempi “il segno del Figlio dell’uomo comparirà nel cielo” (Mt 24,30). L’occhio della fede poteva allora già riconoscere questo suo segno come inscritto nel cosmo fin dal principio e vedere quindi confermata dal cosmo la fede nel Redentore crocifisso. Allo stesso tempo, i cristiani sapevano in questo modo che le vie delle religioni andavano verso Cristo, che la loro attesa, espressa in molte immagini, portava fino a Lui. Ciò significava, d’altra parte, che la filosofia e la religione donavano alla fede le immagini e i pensieri in cui questa stessa poteva comprendersi pienamente.
“Diventerai una benedizione”, aveva detto Dio ad Abramo al principio della storia della salvezza (Gn 12,2). In Cristo, figlio di Abramo, questa parola è pienamente compiuta. Egli è una benedizione, ed è benedizione per l’intera creazione e per tutti gli uomini. La croce, che è il suo segno nel cielo e sulla terra, doveva dunque divenire il vero gesto di benedizione dei cristiani. Facciamo su noi stessi il segno della croce ed entriamo così nella potenza benedicente di Gesù Cristo; tracciamo questo segno sulle persone per cui desideriamo la benedizione; lo tracciamo anche sulle cose che ci accompagnano nella vita e che noi vogliamo ricevere nuove dalla mano di Gesù Cristo. Mediante la croce possiamo divenire gli uni per gli altri dei benedicenti. Personalmente, non dimenticherò mai con quale devozione e con quale interiore dedizione mio padre e mia madre segnavano noi bambini con l’acqua benedetta, facendoci il segno della croce sulla fronte, sulla bocca e sul petto quando dovevamo partire, tanto più se poi si trattava di un’assenza particolarmente lunga. Questa benedizione era un gesto di accompagnamento, da cui noi ci sapevamo guidati: il farsi visibile della preghiera dei genitori che ci seguiva e la certezza che questa preghiera era sostenuta dalla benedizione del Redentore. La benedizione era anche un richiamo a noi, a non uscire dallo spazio di questa benedizione. Benedire è un gesto sacerdotale: in quel segno della croce noi percepivamo il sacerdozio dei genitori, la sua particolare dignità e la sua forza. Penso che questo gesto del benedire, come piena e benevola espressione del sacerdozio universale di tutti i battezzati, debba tornare molto più fedelmente a far parte della vita quotidiana e abbeverarla con l’energia dell’amore che proviene dal Signore.
J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello Balsamo (Mi), 2001, 173-180.