“La riforma tra principi e prassi: il Rito della Penitenza”. Non c’è davvero altro da dire?

rivista di pastorale liturgica

Il numero 302 (Gennaio/Febbraio 2014) di Rivista di Pastorale Liturgica ha un titolo interessante, e la lettura dell’editoriale è ancora più intrigante, per l’ambizioso progetto della rivista per l’intera annata: “Riflettendo su quanto è avvenuto nei decenni successivi alla riforma conciliare, verificheremo se c’è stato accordo o discontinuità nella prassi sacramentale rispetto ai principi di Sacrosanctum Concilium e agli Ordines che ne sono nati. Ci occuperemo delle strutture celebrative di penitenza, confermazione, matrimonio, battesimo dei bambini, liturgia delle Ore, benedizioni. Apre l’anno la riflessione sulla struttura del Rito della penitenza, l’Ordo rinnovato tra i meno rispettati e il sacramento più in crisi”. Poi l’editoriale continua presentando i singoli articoli del fascicolo.

Non si ha la pretesa, in poche righe, di entrare nel merito di ogni contributo. Si vuole soltanto segnalare l’impressione che non si riesca proprio a fare un fruttuoso passo in avanti. Pare che si continui a camminare su una strada già battuta, di cui si sa che non porta tanto lontano.

Ci sono evidentemente dei problemi. Se il rito della penitenza ha avuto un “iter redazionale travagliato”, era forse inevitabile che anche nell’attuazione pratica si riscontrassero delle difficoltà. Quello che lascia perplessi è una certa insistenza nell’immaginare soluzioni impraticabili. E’ possibile che le Norme pastorali circa l’assoluzione collettiva (Congregazione per la Dottrina della Fede) invadano ancora, e in modo così pesante, il campo della riflessione teologico-liturgica, distogliendo attenzione da altre questioni che forse – ipotizziamo – potrebbero aprire altre prospettive più salutari e fruttuose. Senza dubbio le questioni teologiche sono molte e complesse, ma dal punto di vista eminentemente liturgico, non potrebbe essere più utile, ad esempio, concentrarsi un dato che pure viene più volte citato nei diversi articoli del fascicolo: la vera novità costituita dalla presenza, nel Rituale di Paolo VI, della Parola di Dio in ciascuna delle tre forme celebrative della penitenza. Nel quarto contributo, ad esempio, si dice: “La celebrazione comunitaria del sacramento della Penitenza non è una ‘preparazione’ all’esame di coscienza. Quando la si proclama in una assemblea riunita, la parola di Dio letta e commentata ha un valore sacramentale. La Scrittura non è un banale strumento pedagogico che serve a ‘confessarsi bene’, anzi, nella celebrazione comunitaria assume pienamente il suo ruolo kerigmatico e di ‘causa’ della conversione. Quindi la liturgia della Parola della penitenza ha la stessa dignità di quella dell’eucaristia” (D. Piazzi, “Le celebrazioni comunitarie con assoluzione individuale: struttura rituale ed elementi costitutivi”, 27-28). Non sarebbe, questa, una tematica assai più intrigante da approfondire? L’efficacia della Parola, la relazione strutturale Parola – Sacramento nella penitenza, non potrebbere essere questioni, anche dal punto di vista teologico, più feconde, rispetto alla ripetuta lamentela del fatto che, almeno qui in Italia, questo libro liturgico è utilizzabile solamente privo di una delle sue tre forme rituali?

La questione dell’assoluzione collettiva senza previa confessione individuale è stata chiusa in modo autoritativo; spesso la pastorale del sacramento langue per stanchezza e ripetività (e la proclamazione della Parola è, generalmente, il primo elemento che salta o che viene comunque bistrattato); perchè anche la teologica-liturgica dovrà rimanere bloccata in questioni stantie? Davvero non si può fare altro?

Siamo assolutamente sicuri del contrario.

E, come esempio, rimandiamo ad un altro saggio di uno degli autori dei contributi apparsi su questo numero di RPL. Non è del tutto corretto paragonare un breve articolo ad una ricerca vasta e approfondita, ma lo facciamo per mostrare la diversità di tono e di prospettiva: si può intuire quale sia la strada da perseguire.

Cf. G. Busca, “La teologia delle Premesse del Rito della penitenza”, RPL 302 (2014) 3-9 e G. Busca, La riconciliazione “sorella del battesimo”, Roma 2011.

Si veda anche la riflessione di Schmemann riportata nel post precedente: https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/02/26/sulla-soglia-della-quaresima-con-adamo-in-viaggio-si-ritorna-in-paradiso/

Sulla soglia della quaresima, con Adamo, pronti per un viaggio: si ritorna in Paradiso!

In un libretto sulla quaresima nella tradizione bizantino-ortodossa troviamo degli spunti assai interessanti per il nostro blog. Se riusciremo, vorremmo mostrare alcuni parallelismi e agganci molto intriganti fra alcuni elementi della tradizione liturgica latina ed altri di provenienza orientale. Nella liturgia della penitenza pubblica latina, soprattutto nelle fonti medioevali, il peccatore – espulso all’inizio della quaresima dall’assemblea eucaristica – doveva rivivere l’esperienza di Adamo cacciato dal Paradiso, per potervi rientrare simbolicamente, una volta convertito, con la riammissione alla pienezza della comunione sacramentale, alla fine della penitenza quaresimale. Ma su questo torneremo. Cominciamo, invece, con un contributo di una figura di primissimo piano nell’ortodossia, Alexander Schmemann. Basandosi sui testi liturgici, l’autore riesce a mostrare in modo assai preclaro come la Scrittura e la liturgia, intrecciate in modo mirabile, riescano a dare al pentimento e alla conversione contenuti assai più esistenziali ed efficace di quanto possa fare un moralismo intriso di categorie “moderne”. Nella meditazione sulla Scrittura che le composizioni liturgiche offrono come invito e sostegno al cammino verso l’esperienza del perdono e della riconciliazione, la figura di Adamo non è uno strano personaggio di una storia antica. Adamo è il peccatore che si riconosce “in esilio” e, grazie alla liturgia quaresimale, accoglie, compunto ma pieno di speranza, l’invito a tornare all’Eden perduto.

 Prima di presentare i testi liturgici in questione, è assai significativa la riflessione di Schmemann, che riportiamo sottolineando quanto ci pare ancor più rilevante per le affinità con quanto intendiamo mostrare con il nostro minuscolo blog.

È oggi molto importante tornare all’idea e all’esperienza della Quaresima in quanto viaggio spirituale, il cui scopo è di trasferirci da uno stato spirituale ad un altro. All’inizio della Quaresima, come inaugurazione, troviamo il Canone di s. Andrea di Creta, il grande canone penitenziale che è come il diapason che dà il tono all’intera melodia. Diviso in quattro parti, viene letto al Grande Apodipnon (compieta), la sera dei primi quattro giorni di Quaresima. Lo si può adeguatamente descrivere come una lamentazione penitenziale, che ci rivela l’estensione e la profondità del peccato, che scuote l’anima con la disperazione, il pentimento e la speranza. Con un’arte straordinaria, sant’Andrea ha intrecciato i grandi temi biblici – Adamo ed Eva, il paradiso e la caduta, Noè e il diluvio, i patriarchi, Davide, la terra promessa, e infine Cristo e la Chiesa – con la confessione del peccato e il pentimento. Gli eventi della storia sacra sono presentati come eventi della mia vita, le azioni di Dio nel passato come azioni che concernono me e la mia salvezza, la tragedia del peccato e del tradimento come mia tragedia personale. La mia esistenza mi viene mostrata come parte della lotta gigantesca e universale fra Dio e le potenze delle tenebre che si rivoltano contro di lui.

Il Canone inizia con questa nota profondamente personale: “Da dove comincerò a piangere sulle azioni abominevoli della mia vita? Quale fondamento porrò, o Cristo, per questa lamentazione?”.

Uno dopo l’altro, i miei peccati vengono rivelati nel loro rapporto profondo con il dramma perenne della relazione dell’uomo con Dio; la storia della caduta dell’uomo è la mia storia: “Ho fatto mio il misfatto di Adamo; mi riconosco privato di Dio, del Regno eterno e della beatitudine, a motivo dei miei peccati…”.

Ho perduto tutti i doni divini: “Ho macchiato la veste del mio corpo, ho oscurato l’immagine e la somiglianza di Dio… Ho ottenebrato la bellezza della mia anima; ho lacerato la mia prima veste intessuta per me da Creatore, ed eccomi nella nudità…”.

Così, per quattro sere consecutive, le nove odi del Canone mi dicono e ridicono la storia spirituale del mondo che è anche la mia storia. Esse mi confrontano con gli eventi e le azioni decisive del passato, il cui significato e la cui portata, tuttavia, sono eterni, perché ogni anima umana – unica e insostituibile – passa attraverso lo stesso dramma, si trova ad affrontare le stesse scelte fondamentali, scopre la stessa realtà ultima. Gli esempi scritturistici sono ben più di semplici “allegorie”, come pensano tanti, i quali trovano, perciò, questo Canone “sovraccarico”, troppo appesantito da nomi ed episodi irrilevanti. Perché parlare, si chiedono molti, di Caino e Abele, di Davide e Salomone, quando sarebbe tanto più semplice dire “Ho peccato”? ciò che non comprendono, però, è che la parola stessa peccato ha, nella tradizione biblica e cristiana, una profondità e una densità che l’uomo “moderno” è incapace di cogliere e che fa della sua confessione dei peccati qualcosa di molto differente dal vero pentimento cristiano. La cultura in cui viviamo e che modella la nostra visione del mondo esclude in effetti la nozione di peccato. Perché, se il peccato è innanzitutto la caduta dell’uomo da un’altezza incredibilmente elevata, se è il rigetto da parte dell’uomo della sua “alta vocazione”, che cosa può significare tutto questo all’interno di una cultura che ignora e nega questa “altezza” e questa “vocazione”, e definisce l’uomo non a partire “dall’alto”, bensì “dal basso”? Che spazio può avere in una cultura che, anche quando non nega Dio apertamente, è di fatto materialistica da cima a fondo e pensa la vita dell’uomo esclusivamente in termini di beni materiali ignorandone la vocazione trascendente? Il peccato, in tale contesto, è visto in primo luogo come una “debolezza” naturale, dovuta di solito a un “disadattamento”, il quale, a sua volta, ha delle radici sociali e può, quindi essere eliminato da una migliore organizzazione sociale ed economica. Per questo, anche quando confessa i propri peccati, l’uomo “moderno” non si pente più: in base alla comprensione che egli ha della religione, o enumera in modo formale delle trasgressioni formali a regole formali, oppure comunica i propri “problemi” al confessore, attendendosi dalla religione qualche trattamento terapeutico che lo renda di nuovo felice e ben inserito nel suo ambiente. Ma in nessuno dei due casi abbiamo il pentimento come esperienza sconvolgente di colui che vede in se stesso “l’immagine della gloria ineffabile” e si rende conto di averla deturpata, tradita e rifiutata nella propria vita; come dispiacere che viene dal più profondo della coscienza dell’uomo, come desiderio di ritornare, come un arrendersi all’amore e alla misericordia di Dio. Questo il motivo per cui non è sufficiente dire: “Ho peccato”. Una tale confessione prende significato ed efficacia solo se il peccato è compreso e sperimentato in tutta la sua profondità e tristezza.

Scopo del Grande Canone è proprio quello di rivelarci il peccato e di condurci così al pentimento; ed esso lo svolge non attraverso definizioni ed enumerazioni, bensì attraverso una profonda meditazione sulla grande storia biblica, che è, in effetti, la storia del peccato, del pentimento e del perdono. Questa meditazione ci introduce in un mondo spirituale diverso, ci confronta con una visione totalmente differente dell’uomo, della sua vita, delle sue mete e delle sue motivazioni. Essa ristabilisce in noi il quadro spirituale fondamentale, all’interno del quale ridiventa possibile il pentimento. Per esempio, quando noi ascoltiamo: “Non ho fatto mia la giustizia di Abele, o Gesù, non ti ho offerto un dono accettabile né un’azione divina né un sacrificio puro né una vita immacolata…”, noi comprendiamo che la storia del primo sacrificio, ricordato in forma così breve dalla Bibbia, rivela qualcosa di essenziale riguardo alla nostra propria vita, riguardo all’uomo stesso. Comprendiamo che il peccato è innanzitutto il rifiuto della vita in quanto offerta o sacrificio a Dio o, in altri termini, il rifiuto dell’orientamento della vita a Dio; che il peccato, quindi, è, nelle sue radici, la deviazione del nostro amore dal suo fine ultimo. È questa rivelazione che ci permette allora di affermare qualcosa che è profondamente rimosso dalla nostra esperienza “moderna” della vita, ma che ora diventa “esistenzialmente” vero: “Riempiendo di vita la polvere, tu mi hai dato carne ed ossa alitando il tuo soffio di vita. O Creatore, Redentore e Giudice, accetta il mio pentimento…”.

Per ascoltare in modo appropriato il Grande Canone è necessario aver indubbiamente una certa conoscenza della Bibbia e la capacità di meditare sul significato che essa ha per noi. Se oggi tanti trovano la Bibbia noiosa e senza interesse, è perché la loro fede non si nutre più alla sorgente delle sante Scritture, che per i Padri della Chiesa erano la sorgente della fede. Dobbiamo reimparare a penetrare nel mondo qual è rivelato dalla Bibbia e a vivere in esso; e per questo non c’è via migliore di quella della liturgia della Chiesa, che non solo ci trasmette gli insegnamenti biblici, ma ci rivela il modo di vivere conforme alla Bibbia. Il viaggio quaresimale comincia così con un ritorno al “punto di partenza”: il mondo della creazione, della caduta e della redenzione; il mondo in cui tutte le cose parlano di Dio e ne riflettono la gloria, in cui tutti gli eventi sono riferiti a Dio, in cui l’uomo trova la vera dimensione della propria vita e, una volta trovata, si converte.

A. Schmemann, La grande Quaresima. Ascesi e liturgia nella Chiesa Ortodossa, Casale Monferrato (Al) 1986, 66-71.

Nei prossimi post, se interessa e se ne avremo le forze, lasceremo parlare più direttamente i testi liturgici stessi. Già da ora, buona quaresima. E buon viaggio!

Imparare lo “stile” di Dio, nella liturgia: non solo rubriche.

Un’altra citazione interessante, tratta da un articolo di un biblista che interviene su una rivista liturgica! Man mano che ci si addentra nella liturgia, si scopre di non poter fare a meno della Bibbia. La Rivelazione è una chiave fondamentale perché ci siano dischiusi i tesori della vita liturgica e sacramentale della Chiesa. Dalla Parola di Dio si apprende lo “stile” di Dio, la storia della salvezza ci educa al Suo operare, che oggi continua nella liturgia. Per comprendere i sacramenti, dunque, è imprescindibile entrare in questo orizzonte. Non bastano le rubriche!

 B. Maggioni, «I Sacramenti e la “Historia salutis”», Rivista Liturgica 54 (1967) 7-20.

 «Il sacramento non solo possiede una grazia di salvezza, ma è inserito nella storia della salvezza. E’ assai utile tenere presente questo rilievo. Anzitutto, i sacramenti della Chiesa (nel loro modo di operare, e nei simbolismi di cui sono rivestiti) appaiono come qualcosa di armonico nel piano di Dio: qualcosa da aspettarsi, di perfettamente coerente, in istile. Un segno della “fedeltà” di Dio» (18).

 

cf. anche post precedenti: https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2013/09/26/san-tommaso-reloaded/; https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2013/11/14/la-vera-continuita-quella-delloperare-di-Dio/

“Non sunt inventiones nostrae commissionis”: la difesa della commissione De Liturgia preparatoria nelle parole di un Padre conciliare.

Abbiamo già qualche volta dato conto di alcuni interventi di padri conciliari, nel corso della discussione dello schema della Costituzione liturgica. Certamente gli Atti del Vaticano II non sono testi di facile lettura corsiva: forse spaventa la mole della documentazione – nelle biblioteche i ponderosi tomi degli Acta Synodalia sono spesso corredati di considerevoli strati di polvere-, senza dubbio il latino rende meno fruibile l’accesso diretto e lo stesso genere letterario sembra sconsigliare una lettura di tutti gli interventi, uno dopo l’altro. E’ più frequente una lettura “tematica” (cosa dissero i padri su quell’argomento), una lettura selezionata in base a criteri diversi (cosa dissero i padri di una determinata area geografica, la posizione degli uomini della Curia…). La ricerca e lo studio diretto delle fonti comunque non è mai infruttuosa, e anche le migliori sintesi e presentazioni ragionate non rendono meno fondamentale il confronto con i testi originali. La notevole fatica della lettura è spesso ricompensata dalla scoperta di qualche aspetto interessante.

Oggi vorremmo riportare l’intervento di mons. F. Zauner, vescovo di Linz (Austria). Oggetto del suo intervento in aula è il tema della concelebrazione. Senza entrare nel dettaglio della questione specifica, il punto interessante è il riferimento ai lavori della Commissione preparatoria, di cui aveva fatto parte. Il presule austriaco appare abbastanza risentito dalle insinuazioni che taluni andavano facendo e difende con vigore la fatica di chi preparò lo schema liturgico:

 «Propongo questo emendamento: si estenda la concelebrazione ai casi enumerati nello schema della Commissione preparatoria. Il Cap. 2°, di cui ora parliamo, sembra ad alcuni il culmine delle esagerazioni dei liturgisti; perciò abbiamo dovuto ascoltare parole pesanti sulla nostra violazione dei canoni dei Concili, sui pericoli di scisma e di modernismo che noi prepariamo per la Chiesa, specialmente attraverso la concelebrazione e la comunione sotto le due specie. Giova, quindi, dire qualcosa della nostra Commissione preparatoria. I membri erano 20 tra i quali 7 vescovi, tutti provenienti dalla cura delle anime; inoltre più di 30 periti. Chi ci chiamò? Nessuno si era presentato, da sé: fummo chiamati dal Sommo Pontefice felicemente regnante, e lo seguimmo, lieti, da tutte le parti del mondo. Erano tutti giovani i membri ed i periti? Il nostro confratello, il vescovo di Passau, ha superato gli 82 anni; il vescovo di Biella i 72; il vescovo di Gand i 69. Io, purtroppo, sono già vicino ai 60! Siamo tutti in eta avanzata. Lo stesso vale degli altri membri e periti: molti presentavano già una veneranda canizie! Tutti gli articoli di questa Costituzione furono approvati dai membri della nostra Commissione all’unanimità, ad eccezione di uno o due voti. Bisogna sapere che dalla Commissione preparatoria furono esclusi i curiali (eccettuato il Presidente): ciò prova che il S. Padre non voleva conoscere le proposte liturgiche della sola Congregazione, che può sempre consultare, ma quelle dei membri e dei periti di tutto il mondo cattolico. Ci adoperammo con sudore e lavoro. Purtroppo durante le nostre sessioni morirono due abati, ed anche il Presidente della nostra Commissione, a lavori finiti, fu colto dalla morte! Queste tre vittime sono segno del nostro lavoro. Sembra proprio assurdo che ci siamo lasciati guidare soltanto dalle novità. I membri della Commissione preparatoria e della Sottocommissione, che prepararono gli articoli sulla concelebrazione, si lasciarono guidare anzitutto dalle proposte e dai suggerimenti inviati dai vescovi e dai prelati in vista del Concilio e raccolti in grossi volumi: lì si trovano espressi i desideri di tutto il mondo e quei voti ripetutamente auspicano un ampliamento della concelebrazione. Non sono invenzioni della nostra Commissione!».

 Emendatio mea proposita sic est: extendatur concelebratio ad casus qui in schemate commissionis praeparatoriae enumerati erant. Cap. II, de quo nunc agimus, videtur quibusdam culmen exaggerationis Liturgistarum esse; ideo gravia verba audivimus de nostra laesione canonum Conciliorum ac periculis schismatis et modernismi, quae nos paramus Ecclesiae, et praesertim quidem per concelebrationem et communionem sub utraque specie. Ideo iuvat quaedam dicere de nostro coetu commissionis praeparatoriae. Fuerunt 20 membra et inter eos 7 episcopi, omnes ex cura animarum, insuper plus quam 30 periti. Quis nos vocavit? Nemo seipsum praesentavit! Fuimus vocati a Sanctissimo Patre feliciter regnante. Secuti sumus laeti ex totius mundi partibus. Fueruntne omnes membra et periti iuvenes? Episcopus Passaviensis, confrater noster, 82 annos superavit. Episcopus Bugellensis etiam 72, Episcopus Gandavensis 69 annos natus. Ego, proh dolor!, iam proximus sum anno 60. Sumus omnes in provecta aetate. Idem valet de ceteris membris et peritis: multi habebant iam canitiem venerandarn. Omnes articuli huius constitutionis a membris coetus nostri votum unanime acceperunt, vix uno vel alio dissentiente. Scitu dignum est a Commissione praeparatoria exclusos fuisse curiales excepto praeside secundum ordinem statutum. Hoc probat Ss.mum Patrem noluisse scire vota liturgica SS. Congregationum tantum, quas Semper potest consulere, sed vota membrorum necnon peritorum ex omnibus orbis catholici partibus. Laboravimus cum sudore et labore. Proh dolor! duo abbates, tempore sessionum nostrarum, mortui sunt. Ipse praeses nostrae commissionis, piae memoriae, etiam post sessiones morte correptus est. Sunt omnia signa nostri laboris istae tres victimae. Omnino absonum videretur nos tantum novarum rerum studio ductos fuisse. Socii commissionis praeparaloriae et subcommissionis, qui exaraverunt articulos de concelebratione, imprimis ducti sunt per vota et consilia praeconciliaria episcoporum et praelatorum, quae collecta sunt in amplis voluminibus; ea continent vota [quasi] totius mundi et haec vota toties amplificationem concelebrationis exprimunt. Non sunt inventiones nostrae commissionis.

Da sottolineare che mons. Zauner fece parte anche della Commissione liturgica conciliare, avendo ricevuto 2231 voti nella consultazione del 20 ottobre 1962 (terza congregazione generale), quando i Padri elessero i membri delle commissioni.

La traduzione in italiano del testo è quella offerta da Il Concilio Vaticano II, Cronache del Concilio, ed. G. Caprile, Roma 1968, 118. Il testo latino è consultabile, oltre che negli Acta Synodalia, in un libro forse più agevole: F. Gil Hellín, Concilii Vaticani II Synopsis in ordinem redigens schemata cum relationibus necnon Patrum orazione atque animadversiones, Constitutio de sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, Città del Vaticano 2003, 682.

Intorno al tema della riforma del rito della concelebrazione è assai prezioso – in esso vengono editi gli schemi preparati dal peculiare gruppo di studio del Consilium – il lavoro di N. Giampietro, La concelebrazione eucaristica e la comunione sotto le due specie nella storia della Liturgia, Verona 2011, anche se dobbiamo segnalare alcune imprecisioni: fra esse, l’aver attribuito l’intervento di Zauner ad un altro vescovo, mons. Zak (cf. le pag. 49-50).

Il Segno della Croce. La sintesi di Ratzinger: cosmo, filosofia, Sacra Scrittura, patristica, e i suoi genitori.

A proposito del segno della croce, introdotto con il Messale di Paolo VI all’inizio della celebrazione della Messa – di cui abbiamo parlato nel post precedente (https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2014/02/13/paolo-vi-bugnini-e-il-consilium-un-dettaglio-esemplare-ed-eloquente-al-di-la-di-facili-pregiudizi/) -, segnaliamo oggi un testo di J. Ratzinger. Profondissimo e ricco di spunti, ma allo stesso tempo aperto a risvolti esistenziali e assai concreti. E’ davvero sorprendente la sua capacità di passare dai Padri alla filosofia greca, dall’Antico al Nuovo Testamento, per finire con il ricordo assai personale ed intimo della benedizione che riceveva dai suoi genitori: «Benedire è un gesto sacerdotale: in quel segno della croce noi (bambini) percepivamo il sacerdozio dei genitori, la sua particolare dignità e la sua forza. Penso che questo gesto del benedire, come piena e benevola espressione del sacerdozio universale di tutti i battezzati, debba tornare molto più fedelmente a far parte della vita quotidiana e abbeverarla con l’energia dell’amore che proviene dal Signore».

Il gesto fondamentale della preghiera del cristiano è e resta il segno della croce. E’ una professione, espressa mediante il corpo, di fede in Cristo Crocifisso, secondo le parole programmatiche di San Paolo: “Noi annunciamo Cristo Crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani, ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio” (1Cor 1,23s). E ancora: “Io non volli sapere tra di voi se non Cristo, e questi crocifisso” (2,2). Segnare se stessi con il segno della croce è un si visibile e pubblico a Colui che ha sofferto per noi; a Colui che nel corpo ha reso visibile l’amore di Dio fino all’estremo; al Dio che non governa mediante la distruzione, ma attraverso l’umiltà della sofferenza e dell’amore, che è più forte di tutta la potenza del mondo e più saggia di tutta l’intelligenza e di tutti i calcoli dell’uomo. Il segno della croce è una professione di fede: io credo in Colui che ha sofferto per me ed è risorto; in Colui che ha trasformato il segno dello scandalo in un segno di speranza e dell’amore presente di Dio per noi. La professione di fede è una professione di speranza: credo in Colui che nella sua debolezza è l’Onnipotente; in Colui che, proprio nell’apparente assenza ed estrema debolezza, può salvarmi e mi salverà. Nel momento in cui noi ci segniamo con la croce, ci poniamo sotto la protezione della croce, la teniamo davanti a noi come uno scudo che ci protegge nelle tribolazioni delle nostre giornate e ci dà il coraggio per andare avanti. La prendiamo come un segnale che ci indica la strada da seguire: “Chi vuol essere mio discepolo, rinneghi se stesso, prenda la sua croce su di sé e mi segua” (Mc 8,34). La croce ci mostra la strada della vita: la sequela di Cristo.

Noi leghiamo il segno della croce con la professione di fede nel Dio Trinità – Padre, Figlio e Spirito Santo. Esso diventa così ricordo del battesimo, in maniera ancor più chiara quando lo accompagniamo con l’uso dell’acqua benedetta. La croce è un segno della passione, ma è allo stesso tempo anche segno della resurrezione: essa è per così dire il bastone della salvezza che Dio ci porge, il ponte su cui superiamo l’abisso della morte e tutte le minacce del male e possiamo giungere fino a Lui. Essa è resa presente nel battesimo, nel quale diveniamo contemporanei alla croce e alla resurrezione di Cristo (Rm 6,1-14). ogni volta che ci facciamo il segno della croce rinnoviamo il nostro battesimo: Cristo dalla Croce ci attira fino a se stesso (Gv 12,32) e fin dentro la comunione con il Dio vivente. Poiché il battesimo e il segno della croce, che lo rappresenta e rinnova, sono soprattutto un evento di Dio: lo Spirito Santo ci conduce a Cristo, e Cristo ci apre la porta verso il Padre. Dio non è più il Dio sconosciuto; ha un nome. Possiamo chiamarlo, e Lui chiama noi. Possiamo quindi dire che nel segno della croce, nella sua invocazione trinitaria è riassunta tutta l’essenza dell’avvenimento cristiano, è presente il tratto distintivo del cristianesimo. Nello stesso tempo, però, esso ci apre la strada anche nell’ampiezza della storia delle religioni e nel messaggio di Dio presente nella creazione. Già nel 1873 vennero scoperte sul Monte degli Ulivi delle iscrizioni sepolcrali greche ed ebraiche risalenti all’incirca al tempo di Gesù, che erano accompagnate dal segno della croce; gli archeologi ne dedussero che si trattava di cristiani delle primissimi origini. Intorno al 1945 vennero fatte numerose scoperte di tombe giudaiche recanti il segno della croce, risalenti più o meno al primo secolo dopo Cristo. Tali scoperte non consentivano più di ritenere che si trattasse di cristiani della prima generazione; si dovette piuttosto riconoscere che i segni della croce erano presenti anche in ambito giudaico. Che senso aveva tutto questo? La chiave interpretativa era fornita da Ez 9,4ss. Nella visione ivi descritta Dio stesso dice al suo messaggero vestito di lino che porta al fianco la borsa da scriba: “Vai in mezzo alla città e scrivi un Tau sulla fronte di tutti gli uomini che sospirano e piangono per tutti gli abomini che vi si compiono”. Nella catastrofe spaventosa che si preannuncia coloro che non si riconoscono nel peccato del mondo, ma soffrono per esso a motivo di Dio – soffrono senza potere fare nulla, ma sono appunto lontani dal peccato – devono essere segnati con l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, la Tau, che veniva scritta a forma di croce (T oppure + oppure X). La Tau, che in effetti aveva la forma di una croce, diventa il sigillo della proprietà di Dio. Risponde al desiderio e al doloro dell’uomo per Dio e lo mette così sotto la particolare protezione di Dio. E. Dinkler ha potuto dimostrare che la stigmatizzazione cultuale – sulle mani o sulla fronte – è preannunziata in diversi modi nell’Antico Testamento e che questa usanza era nota anche in epoca neotestamentaria; Ap 7,1-8 riprende nel Nuovo Testamento l’idea fondamentale della visione di Ezechiele. I reperti tombali, unitamente ai testi contemporanei, mostrano che in determinati circoli del giudaismo la Tau era diffusa come segno santo, come segno della professione di fede nel Dio di Israele e, allo stesso tempo, come segno di speranza nella sua protezione. Dinkler riassume i suoi studi nell’affermazione che nel Tau a forma di croce è «riassunta un’intera professione di fede in un solo segno», che le «realtà credute, sperate, sono riprese in un’immagine visibile. Un’immagine, certamente, che è più di uno specchio, da cui piuttosto si spera una forza capace di salvezza..» (24). Per quello che possiamo saperne finora, i cristiani non si sono dapprima richiamati a questo simbolo giudaico, ma hanno trovato il segno della croce a partire dal profondo della loro fede, potendovi cosi riconoscere la somma di tutta la loro fede. In seguito, però, la visione di Ezechiele della Tau salvifica e tutta la tradizione che su di essa si basava non dovevano apparire loro come uno sguardo aperto sul futuro? Non veniva forse ora «velato» (cfr. 2Cor 3,18) ciò che si era voluto intendere con questo segno misterioso? Non era ora finalmente chiaro a chi esso apparteneva e da chi riceveva la sua forza? Non dovevano, dunque, vedere in tutto questo una prefigurazione della croce di Cristo, che aveva realmente dato alla Tau la forza di salvare? Ancor più direttamente coinvolti da un’altra scoperta furono i Padri legati al contesto culturale greco. Essi trovarono in Platone una strana immagine della

croce tracciata nel cosmo (Timeo 34 A/B e 36 B/C). Platone l’aveva ripresa da tradizioni pitagoriche che, a loro volta, stavano in rapporto con tradizioni dell’antico Oriente. Si tratta anzitutto di un’affermazione astronomica: i due grandi movimenti stellari conosciuti dall’astronomia antica – l’eclittica (il grande cerchio intorno alla sfera terrestre, su cui scorre il movimento apparente del sole) e l’orbita terrestre – si incontrano e formano insieme la lettera greca Chi, che, a sua volta, e rappresentata a forma di croce (come una X). Il segno della croce è quindi inscritto nel cosmo nella sua totalità. Platone – riprendendo altre, più antiche tradizioni – aveva messo in relazione questo dato con l’immagine della divinità: il demiurgo (colui che plasma il mondo) avrebbe, cioè, «dispiegato» l’anima del mondo «attraverso tutto l’universo». Giustino martire, il primo filosofo tra i Padri, originario della Palestina e morto intorno al 165, scoprì questo testo di Platone e non esitò a metterlo in rapporto con la dottrina del Dio trinitario e con il suo intervento salvifico in Gesù Cristo. Nell’immagine del demiurgo e dell’anima del mondo egli vede dei presagi del mistero del Padre e del Figlio, presagi che certamente necessitavano di essere corretti, ma che erano anche capaci di correzioni. Quello che Platone dice sull’anima del mondo gli pare un richiamo alla venuta del Logos, del Figlio di Dio. E cosi egli può arrivare a dire che la figura della croce è il massimo simbolo della signoria del Logos, senza il quale l’intera creazione non potrebbe stare insieme (1 Apol. 55). La croce del Golgota è prefigurata nella struttura stessa del cosmo; lo strumento di martirio, su cui il Signore è morto, è inscritto nella struttura dell’universo. Il cosmo ci parla della croce, e la croce ci disvela il mistero del cosmo. Essa è la vera chiave interpretativa di tutta la realtà. La storia e il cosmo sono l’una parte dell’altro. Se apriamo gli occhi, leggiamo il messaggio di Cristo nel linguaggio dell’universo e, d’altra pane, Cristo ci dona di comprendere il messaggio della creazione. A partire da Giustino questa «profezia della croce» e la connessione da essa derivante tra cosmo e storia è divenuta una delle idee fondamentali della teologia patristica. Per i Padri fu sconvolgente scoprire che il filosofo che riassumeva e interpretava le più antiche tradizioni aveva parlato della croce come sigillo dell’universo. Ireneo di Lione (morto intorno al 200), il vero fondatore della teologia sistematica nella sua forma cattolica, nel suo scritto apologetico intitolato Esposizione della predicazione apostolica afferma: il Crocifisso “è Lui stesso la parola del Dio onnipotente che penetra della sua invisibile presenza il nostro universo. E per questo abbraccia tutto il mondo, la sua ampiezza e la sua lunghezza, la sua altezza e la sua profondità; poiché mediante la Parola di Dio tutte le cose sono state guidate all’ordine. E il Figlio di Dio è crocifisso in esse, essendo Egli impresso in tutte le cose nella forma della croce” (1,3). Questo testo del grande padre della Chiesa nasconde una citazione biblica che è di grande importanza per la teologia biblica della croce. La lettera agli Efesini ci ammonisce a essere radicati nell’amore e a fondarci su di esso, così da divenire capaci “di comprendere insieme con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza” (3,l8s). Non c’è quasi dubbio che già questa lettera, appartenente alla scuola di san Paolo, accenni qui alla croce cosmica, recependo quindi delle tradizioni religiose che parlano dell’albero cosmico a forma di croce che sostiene l’universo – una concezione religiosa che, tra l’altro, era nota anche in India. Agostino ha dato una interpretazione straordinariamente esistenziale di questo importante passo paolino. Egli vi vede raffigurate le dimensioni della vita umana, in riferimento alla figura del Cristo crocifisso, le cui braccia circondano il mondo, la cui via giunge fino agli abissi degli inferi e fino all’altezza di Dio stesso (De doctr. Christ. II 41,62-C.Ch. XXXII, 75s). Hugo Rahner ha raccolto i più bei testi patristici che parlano del mistero cosmico della croce. Vorrei qui citarne solo due. In Lattanzio († ca. 325) leggiamo: “Nel suo dolore Dio allargò le braccia e abbracciò così il mondo, per prefigurare già allora che fin dal sorgere del sole e sino al suo tramonto un popolo che doveva venire si sarebbe raccolto sotto le sue ali” (81). Un ignoto greco del secolo quarto contrappone la croce al culto del sole e dice: ora Helios (il sole) è stato sconfitto dalla croce “e l’uomo, che il sole creato nel cielo non poté istruire, ecco, ora viene rischiarato dalla luce solare della croce e illuminato (nel battesimo)”. Poi l’anonimo riprende un’espressione di sant’Ignazio di Antiochia (morto intorno al 110), che aveva definito la croce come «l’argano» (mechane) del cosmo per la risalita nel cielo (Eph. 9,1) e dice: “O sapienza veramente divina! O croce, tu argano per il cielo. La croce è stata piantata – ed ecco, la schiavitù degli idoli è stata annientata. Non è un legno come gli altri, ma un legno di cui Dio si è servito per la vittoria” (87s).

Nel suo discorso escatologico Gesù aveva annunciato che alla fine dei tempi “il segno del Figlio dell’uomo comparirà nel cielo” (Mt 24,30). L’occhio della fede poteva allora già riconoscere questo suo segno come inscritto nel cosmo fin dal principio e vedere quindi confermata dal cosmo la fede nel Redentore crocifisso. Allo stesso tempo, i cristiani sapevano in questo modo che le vie delle religioni andavano verso Cristo, che la loro attesa, espressa in molte immagini, portava fino a Lui. Ciò significava, d’altra parte, che la filosofia e la religione donavano alla fede le immagini e i pensieri in cui questa stessa poteva comprendersi pienamente.

“Diventerai una benedizione”, aveva detto Dio ad Abramo al principio della storia della salvezza (Gn 12,2). In Cristo, figlio di Abramo, questa parola è pienamente compiuta. Egli è una benedizione, ed è benedizione per l’intera creazione e per tutti gli uomini. La croce, che è il suo segno nel cielo e sulla terra, doveva dunque divenire il vero gesto di benedizione dei cristiani. Facciamo su noi stessi il segno della croce ed entriamo così nella potenza benedicente di Gesù Cristo; tracciamo questo segno sulle persone per cui desideriamo la benedizione; lo tracciamo anche sulle cose che ci accompagnano nella vita e che noi vogliamo ricevere nuove dalla mano di Gesù Cristo. Mediante la croce possiamo divenire gli uni per gli altri dei benedicenti. Personalmente, non dimenticherò mai con quale devozione e con quale interiore dedizione mio padre e mia madre segnavano noi bambini con l’acqua benedetta, facendoci il segno della croce sulla fronte, sulla bocca e sul petto quando dovevamo partire, tanto più se poi si trattava di un’assenza particolarmente lunga. Questa benedizione era un gesto di accompagnamento, da cui noi ci sapevamo guidati: il farsi visibile della preghiera dei genitori che ci seguiva e la certezza che questa preghiera era sostenuta dalla benedizione del Redentore. La benedizione era anche un richiamo a noi, a non uscire dallo spazio di questa benedizione. Benedire è un gesto sacerdotale: in quel segno della croce noi percepivamo il sacerdozio dei genitori, la sua particolare dignità e la sua forza. Penso che questo gesto del benedire, come piena e benevola espressione del sacerdozio universale di tutti i battezzati, debba tornare molto più fedelmente a far parte della vita quotidiana e abbeverarla con l’energia dell’amore che proviene dal Signore.

J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello Balsamo (Mi), 2001, 173-180.

Paolo VI, Bugnini e il Consilium. Un dettaglio esemplare ed eloquente, al di là di facili pregiudizi.

Intorno alla riforma liturgica post-conciliare, in certi ambienti e in certa pubblicistica, capita frequentemente che sia veicolata, senza alcuna prova, la vulgata secondo cui la riforma stessa fu un’operazione forzata all’insaputa di Paolo VI. Il responsabile principe di questa presunta macchinazione sarebbe mons. Annibale Bugnini, organizzatore e tessitore occulto del lavoro del Consilium, il gruppo di liturgisti e studiosi incaricati di studiare e preparare le bozze dei nuovi rituali[1]. A conferma di questa tesi viene normalmente citata la sorprendente assegnazione del Bugnini stesso alla nunziatura di Teheran[2]: tale inusuale spostamento viene letto, infatti, come una punizione inflitta dal Papa, una volta aperti gli occhi su quanto – di male – si era fatto, per attuare le indicazioni della Costituzione conciliare sulla sacra Liturgia.

Non abbiamo la presunzione di affrontare questa complessa questione in tutte le sue implicazioni. Per la verità ci pare assai offensivo e irrispettoso immaginare il Papa talmente sprovveduto e ingannato per così tanto tempo, e che, per giunta, avendo scoperto il danno subito, non abbia saputo fare altro che spedire Bugnini “in esilio”, senza poi tentare di riparare o arginare la portata del suo operato. Ma certo non contribuisce alla ricerca della verità la nostra personale opinione. E non abbiamo riferimenti se non le personali memorie di una delle parti[3].

L’unica strada è quella di studiare le carte e la documentazione ufficiale. E, fortunatamente, in questi ultimi anni diventano sempre più frequenti le pubblicazioni che attingono e pubblicano fonti non facilmente reperibili o comunque inedite. La ricerca e lo studio minuzioso sui documenti, se forse da un parte non riesce a fornire un quadro globale e compiuto di tutta la vicenda della riforma nella sua complessità, su questioni più specifiche è assolutamente dirimente: avendo a disposizione il materiale documentario si possono in poco tempo relativizzare, se non ribaltare del tutto, letture ideologiche e pregiudiziali. Scrivere una storia generale di quegli anni e di quelle vicende è un’operazione assai complicata; rimane più facile concentrarsi su dettagli, per ricostruire tessere che poi potranno eventualmente comporre un più grande mosaico. Ma nella pur frammentaria e puntuale circonstanzialità, appare evidente che l’immagine di liturgisti ed esperti estremisti, guidati da Bugnini in un lucido e preordinato  progetto di imporre i loro progetti ed esperimenti studiati a tavolino, deve essere finalmente abbandonata.

I dettagli di cui vorremmo parlare qui – a titolo di esempio – sono i passaggi che portarono alla revisione del segmento iniziale dell’Ordo Missae. Analizzando come si arrivò alla decisione di inserire – come primo momento dialogato della Messa – il segno della Croce con le parole “In nomine Patris…” e la risposta “Amen”, si avrà una visione del tutto opposta, e questa volta documentabile, ufficiali, dei rapporti fra Paolo VI, Bugnini, e la riforma liturgica. Non possiamo certamente in questo poco spazio scrivere compiutamente la storia della riforma dell’Ordo Missae: vorremmo piuttosto mettere in primo piano alcuni passaggi di tale vicenda, oggi più facilmente ricostruibile grazie alla pubblicazione della documentazione relativa ai lavori del Consilium in questo ambito. Di questo, dobbiamo essere enormemente grati alla ricerca di M. Barba, La riforma conciliare dell’«Ordo Missae». Il percorso storico-redazionale dei riti d’ingresso, di offertorio e di comunione, Roma 2002. Tale volume riporta in appendice parecchi schemi relativi al lavoro di riforma del rito della Messa. Ad essi qui si fa riferimento, mentre si offre una nostra traduzione della documentazione, quasi integralmente in lingua latina.

 Intorno ai riti iniziali della Messa, già dalle prime discussioni il gruppo di studio preposto ( il Coetus a studiis X, costituito nell’aprile 1964) si trovò d’accordo sulla necessità di snellire il complesso di gesti e preghiere che oscuravano, appesantendone la fase preparatoria, il momento e l’importanza della proclamazione della Parola di Dio. Sembrava opportuno ridurre anche gli elementi dal carattere più “privato” e di apologia. Senza entrare nei singoli passaggi della preparazione, possiamo passare alla prima bozza di “Ordo Missae”, presentata il 19 settembre 1965. In essa si dice che «radunato il popolo, il sacerdote e i ministri si avviano verso l’altare, mentre si esegue il canto di ingresso. Giunti all’altare, fatta la debita riverenza, si segnano con il segno della croce e per un certo tempo rimangono fermi. Quindi il sacerdote saluta l’altare, e secondo l’opportunità incensa l’altare e il popolo. Dopo con i ministri si reca alla sede. Stando tutti in piedi, il sacerdote, rivolto al popolo ed estendendo le mani, lo saluta, cantando o con voce distinta dicendo: Dominus Vobiscum. Il popolo risponde Amen» (Schema n. 106, De Missali 12, del 19 settembre 1965).

Un analogo schema di “Ordo Missae” venne usato nelle celebrazioni nella Cappella Matilde (seconda loggia del Palazzo Apostolico), alla presenza del Papa, i giorni 11,12 e 13 gennaio 1968. Il Papa di seguito consegnò a Bugnini, in un udienza concessagli il 22 gennaio, una nota scritta con alcuni suoi rilievi, fra i quali segnaliamo il seguente: «Studiare una forma più organica e normale per l’introduzione (segno della Croce e parte penitenziale)». Negli schemi successivi è evidente la dinamica di adattamento ai desideri del Papa. In una primissima revisione (lo schema n. 271, De Missali 45, del 10 febbraio 1968) le rubriche riportano «Radunato il popolo, il sacerdote con i ministri si avviano all’altare, mentre si esegue il canto di ingresso. Giunto all’altare, fatta la debita riverenza, l’altare viene venerato con un bacio o un altro segno stabilito e, secondo l’opportunità il sacerdote incensa l’altare e il popolo. Dopo con i ministri si reca alla sede. Il sacerdote e i fedeli, in piedi, si segnano, dicendo: In nomine Patris…. Amen. Quindi il sacerdote, rivolto al popolo ed estendendo le mani, lo saluta, dicendo: Dominus vobiscum». Lo schema seguente, preparato per la presentazione alla plenaria del Consilium (è lo schema n. 281, De Missali 47, del 21 marzo 1968) apporta, in questa sezione, un’ulteriore modifica: «…Dopo con i ministri si reca alla sede. Il sacerdote e i fedeli, in piedi, si segnano. Il sacerdote dice: In nomine Patris… Il popolo risponde: Amen». Interessante è la relazione tenuta ai membri del Consilium, a spiegazione del nuovo schema: «Il mandato del s. Padre è che (dopo il canto di Ingresso) la messa abbia inizio dal segno di croce. Il rev.mo p. Bugnini ha spiegato il volere del s. Pontefice in tal modo che non sia sufficiente congiungere il segno della croce con un’altra formula, ad es. con la formula trinitaria biblica “gratia Domini nostri…” (2Cor 14,13), che già era presente nello schema (come in molte altre liturgie) ma con le parole “In nomine Patris…”, che dovrebbero essere le prime parole». Tuttavia, ai membri del Consilium, il coetus X evidenziò, anche a nome dei relatori degli altri coetus, la perplessità e la fatica di armonizzare il volere del santo Padre con alcuni principi base, come quello di evitare incongruenze e duplicati (due formule trinitarie una dopo l’altra, ossia la formula che accompagna il segno della croce e la formula di saluto). La questione fu quindi affidata allo studio di una speciale sottocommissione, che sorprendentemente ritornò a proporre il segno della croce, fatto in silenzio dal solo sacerdote, in nome della semplicità richiesta da Sacrosanctum Concilium e, soprattutto, poiché il segno della croce con siffatta formula trinitaria come inizio della messa avrebbe rappresentato un’assoluta novità nella tradizione liturgica. La Segreteria del Consilium (Bugnini, quindi) cercò una mediazione suggerendo una duplice possibilità: qualora non vi fosse il canto di ingresso, l’inizio della messa sarebbe potuto essere senza difficoltà il segno della croce con la formula, mentre se vi fosse stato il canto, il segno della croce poteva essere fatto in silenzio. Lo schema del coetus X del 24 maggio 1968 recepiva questa proposta, ma il Papa fu deciso nell’insistere: «E’ opportuno che la formula “In nomine Patris” sia detta a voce alta dal sacerdote, con risposta del popolo». Di fronte alle nuove incertezze del Consilium (una votazione ancora non unanime: 17 favorevoli alle osservazioni del Papa, 13 contrari, 1 favorevole sono nelle messe lette), la Segreteria adottò la rubrica che recepiva il pensiero del Pontefice: la messa inizia sempre con il segno di croce, fatto da tutti, mentre il sacerdote dice la formula trinitaria e il popolo risponde Amen.

 

Da queste vicende, che abbiamo riassunto forse in modo troppo frettoloso, si possono però dedurre considerazioni assai interessanti. Prima di andare avanti con altre testimonianze, fissiamole brevemente: 1) “Conservatori” e particolarmente attenti alla tradizione liturgica risultano essere, nel caso specifico, i periti e i consultori del Consilium, spesso dipinti, al contrario, come “novatores”, privi di qualsiasi scrupolo nell’alterare senza rispetto alcuno gli Ordines liturgici precendenti. 2) Il peso e il ruolo della Segreteria di Bugnini pare rivolto molto di più a far passare i desiderata di Paolo VI che ad assecondare i pareri degli esperti. 3) Infine, lo stesso Papa appare – documenti alla mano – molto più coinvolto e decisivo nelle questioni, di quanto spesso ci viene fatto credere.

 Possiamo ancora riportare una sintesi di Barba, tracciata in un altro studio precedente al volume citato sopra, volume che di fatto, a proposito del segno di croce, riprende in modo identico ciò che scrisse allora, se non appunto per quanto segue: «Le varie vicende legate all’elaborazione del segno di croce nella celebrazione eucaristica evidenziano la preoccupazione dei periti di essere quanto più fedeli alla tradizione che prevedeva l’inizio della celebrazione con il saluto. Il timore di introdurre elementi nuovi fece desistere o quanto meno rallentare il corso verso la formulazione di questo elemento rituale. La lungimiranza del papa Paolo VI, d’altra parte, che aveva chiaro il desiderio di inserire il segno di croce nella Messa, mentre i teologi discutevano su tale opportunità o meno, stimolò insistentemente su tale introduzione, vedendovi in questo particolare elemento dei riti introduttivi un momento significativo dal punto di vista simbolico ed efficace per ciò che concerne la partecipazione di tutta l’assemblea. […] Ciò che contava in quel preciso momento della riforma liturgica della Messa non era solo e soltanto un’investigazione di tipo storico degli elementi rituali, ma sulla base di questa, spingersi fino a cogliere il significato spirituale sotteso per evidenziare il legame fra i dinamismi celebrativi e quelli della vita concreta dell’uomo che celebra»[4]

 Alla luce di quanto spiegato sopra, può essere interessante rileggere un paragrafo di un agile libretto con il quale uno dei periti in questione offre una piccola storia della Messa e dei suoi valori spirituali. A proposito del segno di croce, l’esordio è curioso: «Paolo VI arriva a Bogotà, in Colombia, per il Congresso eucaristico. Questa gente non sa né leggere né scrivere, non ha una grande educazione religiosa, non conosce nulla dell’alta liturgia, ma è conscia della presenza del successore di Pietro. I cuori sono lieti di partecipare alla santa messa insieme con il Papa. Ecco che la voce del supremo pastore celebrante arriva attraverso gli altoparlanti. Non appena le prime sillabe delle note parole si fanno udire, tutti capiscono subito. Erompono in coro insieme col Santo Padre: “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen”. Sudamerica e Roma si uniscono con la professione di fede nella Trinità all’inizio della santa Messa. Da secoli la celebrazione della Messa comincia così. Prima, però, solo il celebrante pronunciava le parole, coperte dai canti di ingresso. Poi, da un paio di decenni, la Messa comunitaria adottò la recita piana e comune delle preghiere ai piedi dell’altare, ma quest’usanza non apparteneva alla Chiesa universale. Ora, in Colombia, viene introdotto il nuovo Messale. Non sono ancora cessate le discussioni circa la sua struttura e la sua forma. Ci si decide infine a Bogotà: la santa Messa non può che cominciare con la preghiera più semplice che ci sia, nient’altro che con il segno di croce. Il Papa viene sommerso e trascinato dal coro del popolo colombiano» (T. Schinitzler, Il significato della Messa. Storia e valori spirituali, Assisi 19933, 45). La religiosità e la spontaneità dei campesinos colombiani, riuniti con il Papa che volle celebrare una messa con loro, il 23 agosto 1968, devono aver davvero impressionato questo liturgista, se poi ne parla con tale entusiasmo. Probabilmente, a seguito di quell’evento, non avrà più sollevato obiezioni in nome della purezza della tradizione liturgica. Un peso importante della devozione e dell’uso popolare sulla decisione di introdurre la novità del comune gesto del segnarsi con la formula “dialogata” fra il sacerdote e il popolo lo riconosce anche Raffa, nel suo studio sulla Messa: nonostante quanto dicevamo sopra sulle difficoltà sollevate dai periti, «Paolo VI, richiamandosi all’uso dei cristiani di cominciare ogni cosa col segno della croce, volle che così fosse anche per la messa. D’altra parte il popolo, al di là delle rubriche, lo praticava in vari luoghi già da una quarantina d’anni con la messa cosiddetta “dialogata”, nella quale tutte le preghiere ai piedi dell’altare erano recitate molto spesso ad alta voce anche dall’assemblea. Il segno della croce iniziale comunitario era più o meno normale nei pii esercizi e perfino già ammesso ufficialmente con l’Istruzione sulla musica sacra del 1958 anche alla messa» (V. Raffa, Liturgia Eucaristica. Mistagogia della Messa: dalla storia e dalla teologia alla pastorale pratica, Roma 2003, 262).

 Per finire, ribadendo il carattere assi parziale e limitato di questa incursione nella documentazione, non possiamo che registrare con paradossale ironia il fatto che – in questo dettaglio particolarissimo – coloro che stigmatizzano la liturgia riformata in nome di una presunta continuità con la tradizione precedente si trovano sulle stesse posizioni dei periti del Consilium, spesso oggetto dei loro strali! E, ancora, quanti argomentano in nome della vitalità della liturgia, intesa come un organismo che si sviluppa organicamente, dovranno riconoscere che l’intervento dell’autorità papale suggellò una prassi che nasceva dal basso, superando gli ostacoli che proprio i puristi della tradizione liturgica opponevano a questa dinamica!

Tanto altro dovrebbe essere detto, e la questione merita certamente maggior approfondimento di quanto così brevemente abbiamo fatto qui: il nostro era semplicemente un tentativo di mostrare come i documenti spesso siano testimoni di una complessità tale da non potersi ridurre a schematiche e drastiche contrapposizioni.

P.S. da una pagina del blog del Prof. Augé, una conferma indiretta, proveniente da un’autorità insospettabile, ossia dalla parte di chi avversa la riforma liturgica:http://liturgia-opus-trinitatis.over-blog.it/article-chi-e-stato-l-artefice-della-riforma-liturgica-98403943.html

 

 

 


[1] C’è da dire subito che i membri veri e propri del Consilium erano vescovi. Ad essi spettava la decisiva valutazione di quanto i periti, cooptati per questioni specifiche, andavano, su mandato del Consilium, man mano proponendo.

[2] La nomina a Nunzio in Iran è del 5 gennaio 1976, ma già dall’estate 1975 Bugnini fu sollevato dal suo incarico, con l’accorpamento dei due Dicasteri dei Sacramenti e del Culto Divino.

[3] A. Bugnini, «Liturgiae Cultor et Amator, Servi la Chiesa». Memorie autobiografiche, ed. G. Pasqualetti, Roma 2012.

[4] M. Barba, «La redazione di alcuni elementi non verbali dell’Ordo Missae: il contributo del Coetus X alla partecipazione liturgica», in Actuosa participatio. Conoscere, comprendere e vivere la liturgia (ed. A. Montan), Città del Vaticano 2002, 22).

L’Eucaristia, frutto di una fissione nucleare nel cuore dell’essere. Le sorprendenti meditazioni di Benedetto XVI. (2)

Riportiamo la seconda parte della meditazione del Card. Vanhoye, una delle fonti della mirabile sintesi biblico-liturgica dell’omelia di Papa Benedetto XVI. La riportiamo sia per mostrare la fondatezza biblica di quanto affermava il Papa a Colonia, di fronte a centinaia di migliaia di giovani, sia per valutare la personale, e geniale, rivisitazione e riproposizione degli stessi concetti, arricchiti dalla prodigiosa immagine della fissione nucleare, portata dall’amore di Gesù Cristo nel cuore dell’essere.

(L’omelia del Papa e la prima parte della meditazione del biblista gesuita si trovano nel post precedente: http://it.wordpress.com/read/post/id/56425576/426/)

(Segue) 4. L’alleanza deve necessariamente avere due dimensioni: quella verticale, di relazione con Dio e quella orizzontale, di relazione con i fratelli. Sono le due dimensioni della croce, che sono molto significative, con al centro il cuore di Gesù che fa l’unione di queste due dimensioni per mezzo dell’amore più grande che si sia realizzato. Nella fondazione dell’alleanza del Sinai la dimensione più appariscente è stata quella verticale. Si legge nell’Esodo che Mosè prese il libro dell’alleanza, lo lesse alla presenza del popolo: “Dissero: ‘Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo’. Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo dicendo: ‘Ecco il sangue dell’Alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole” (Es 24,7 -8). E’ la dimensione verticale di relazione con Dio. Nell’ultima cena, al contrario, la dimensione più appariscente è quella orizzontale, di dono ai fratelli. Il contesto è quello di un pasto preso insieme, un contesto di fratellanza umana. Ogni banchetto ha questo significato di unione tra le persone, di accoglienza reciproca, di relazioni amichevoli, fraterne. Ne1l’AT spesso un banchetto sigillava la conclusione di

un’alleanza. Cosi per gli accordi fra Isacco e Abimelec (Gen 26) e per quelli tra Giacobbe e Labano (Gen 31). In questo contesto di pasto preso insieme, Gesù offre in cibo il proprio corpo e in bevanda il proprio sangue: “Questo è il mio corpo dato per voi. Questo è il calice della nuova alleanza nel mio sangue versato per voi”. Si tratta, dunque, di una comunione fraterna espressa nel modo più intimo e più perfetto possibile. Il sangue dell’alleanza è dato per essere bevuto e non soltanto asperso come era avvenuto nella prima alleanza nel Sinai. Il risultato è una interiorità reciproca: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui” (Gv 6,56). Non è possibile attuare un’alleanza più stretta.

Notate che questo aspetto di comunione profonda tra Gesù e i discepoli presente nell’ultima cena non lo si ritrova più sul Calvario, dove si manifesta soltanto l’aspetto di completa rottura. Gesù sulla croce muore Solo. Muore per la moltitudine, però respinto dalla moltitudine.

5. La dimensione verticale nell’ultima cena è meno evidente, ma è essenziale e condiziona quella orizzontale. Dove si manifesta? Nella preghiera di ringraziamento che Gesù pronunzia due volte, prima sul pane e poi sul calice. Si tratta di una preghiera di una estrema importanza e la Chiesa l’ha capito perché ha chiamato il sacramento “Eucaristia”, che significa “ringraziamento”.

Durante la sua Vita, Gesù spesso assumeva spontaneamente l’atteggiamento filiale di amore riconoscente, atteggiamento che più corrisponde alla sua condizione di Figlio. Il Figlio riceve tutto dal Padre, perciò la sua reazione normale e quella di rispondere a questi doni con gratitudine filiale.

I vangeli ci riferiscono diversi casi in cui Gesù ha ringraziato pubblicamente il Padre. Qui ne vogliamo prendere in considerazione due che appaiono particolarmente significativi e che hanno un rapporto con l’Eucaristia. Si tratta di due situazioni nelle quali noi non avremmo pensato affatto di rendere grazie a Dio: una situazione di mancanza e una di lutto. La situazione di mancanza e quella che precede la moltiplicazione dei pani (Mt 14,14). In un luogo deserto ci sono 5000 uomini da sfamare e Gesù ha a disposizione soltanto cinque pani. Non sarebbe proprio il caso di rallegrarsi né di rendere grazie! Manca il necessario. Nell’Esodo, in situazioni simili quando mancava il cibo, il popolo non ringraziava certo, ma mormorava e si ribellava. Gesù, invece, ringrazia il Padre e cosi da inizio alla moltiplicazione dei pani. Ha aperto la via all’amore sovrabbondante del Padre.

La situazione di lutto è quella della morte di Lazzaro. Gesù si fa condurre presso la tomba del suo amico, la fa aprire e di fronte al sepolcro aperto si rivolge al Padre con questa preghiera completamente inaspettata nelle circostanze: “Padre ti ringrazio che mi hai ascoltato… E, detto questo, gridò a gran voce: ‘Lazzaro, vieni fuori!’” (Gv 11,41-44).

6 Anche nell’ultima cena Gesù rende grazie come aveva fatto nel momento della moltiplicazione del pani e in un certo senso la situazione è simile e più normale. La preghiera di ringraziamento di Gesù si presenta in questo caso come fatto ordinario della vita quotidiana: la preghiera dell’inizio del pasti. Gli Ebrei prima del pasti benedicevano Dio, cioè ringraziavano Dio come facciamo nella preghiera dell’offertorio: “Benedetto sei tu Signore, Dio dell’universo perché ci hai dato questo pane”. Nell’ultima cena la moltiplicazione non è necessaria perché sono pochi i commensali. I discepoli sentono il ringraziamento di Gesù e il significato che percepiscono è questo: “Padre ti rendo grazie per questo pane che mi dai, tu che sei il creatore di ogni cosa, la sorgente di ogni vita, tu che nutri generosamente tutte le tue creature. Ti rendo grazie per questo vino, simbolo del tuo amore con il quale rallegri il cuore degli uomini”.

Gesù però sa benissimo che questo pasto non sarà un pasto ordinario. Sa che questo pane e questo vino non resteranno pane e vino materiali. Mentre rende grazie, sa ciò che farà subito dopo e vede che il Padre gli offre la possibilità di un dono incomparabilmente più grande, più sostanzioso e generoso: il dono di se stesso per comunicare agli uomini la vita divina e l’amore divino.

Un primo aspetto dell’Eucaristia è quello di essere un dono non di Gesù, ma del Padre. Nel discorso del pane di vita Gesù aveva detto: “Non Mosè vi ha dato il pane dal cielo ma il Padre mio vi da il pane dal cielo quello vero” (Gv 6,32).

Gesù è pienamente consapevole che il dono che egli farà proviene dal Padre. Non pretende di avere lui l’iniziativa di tal dono, ma rende grazie al Padre perché gli dà la capacità di trasmetterlo: ‘Ti ringrazio, Padre, perché per mezzo di questo pane che ho nelle mie mani, io stesso diventerò pane per la vita del mondo. Ti ringrazio per avermi dato un corpo che posso trasformare in cibo spirituale, per avermi dato il sangue che posso versare e trasformare in bevanda spirituale. Ti ringrazio per avermi dato soprattutto un cuore pieno d’amore per poter effettuare questa offerta che desidero ardentemente fare. Ti ringrazio perche cosi posso stabilire l’alleanza nuova tra te e tutti i miei fratelli”. L’Eucaristia dono del Padre che vuole dare ai suoi figli un cibo eccellente. La Chiesa riceve effettivamente l’Eucaristia come dono del Padre e questo aspetto viene ribadito continuamente nelle orazioni liturgiche dopo la comunione. In queste orazioni la Chiesa non ci fa ringraziare Gesù, ma ci fa ringraziare il Padre che ci ha accolto alla sua mensa, il Padre che ci ha nutrito con il corpo e il sangue di Cristo. Nel discorso del pane di vita Gesu aveva detto: “Il pane che io darò è la mia came per la vita del mondo” (Gv 6,51). L’Eucaristia, dono per la vita del mondo. Gesù non limita il suo sguardo al piccolo gruppo che gli sta intorno, ma dicendo ai discepoli: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22, 19) pensa a tanta altra gente… alle moltitudini.

Il suo ringraziamento viene cosi a trovarsi all’origine di una nuova moltiplicazione del pane, dell’unico pane; una moltiplicazione ancora più meravigliosa e più importante di quella avvenuta nel deserto. In effetti lo scopo di quest’ultima non era tanto quello di sfamare alcune migliaia di persone, quanto il prefigurare la moltiplicazione del pane eucaristico. Gli evangelisti hanno sottolineato il legame tra questi due episodi, usando nei due casi le stesse espressioni: Gesù prese il pane, levò gli occhi al cielo, rese grazie con la preghiera di benedizione, spezzò il pane e lo diede. Quando nell’ultima cena Gesù rende grazie al Padre, egli pensa a questa distribuzione infinita: “Padre, mi unisco a te con immensa gratitudine perché tu fai di me il pane vivo che è dato per la vita del mondo, moltiplicabile all’infinito per tutti gli uomini”.

7. Se ora mettiamo a confronto il ringraziamento pronunciato da Gesù nell’ultima cena con quello pronunciato davanti alla tomba di Lazzaro, in un primo momento è la differenza che ci colpisce, al punto che non ci viene affatto in mente di mettere queste due preghiere in relazione l’una con l’altra. Da una parte si tratta di una preghiera fatta all’aperto di fronte a un sepolcro, dall’altra si tratta di un pasto preso insieme nell’intimità del cenacolo. Riflettendo, possiamo però percepire una profonda somiglianza fra queste due preghiere: in entrambi i casi Gesù deve affrontare la morte e vincerla. Nel primo caso deve affrontare la morte del suo amico Lazzaro, nel secondo deve affrontare la propria morte. Nell’ultima cena Gesù esprime gli stessi sentimenti che aveva espresso davanti alla tomba di Lazzaro, quando aveva detto: “Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato”. Allora era sicuro di essere ascoltato dal Padre e di riportare la vittoria sulla morte dell’amico. Similmente, nell’ultima cena, egli ringrazia con pienezza il Padre per la vittoria che riporterà sulla morte: “Padre, ti rendo grazie, perché so in anticipo che mi dai la vittoria sulla morte per me e per tutti. Ti

rendo grazie, perché tu hai messo nel mio cuore tutta la forza del tuo amore, capace di vincere la morte, trasformandola nell’occasione del dono più completo e perfetto di me stesso. Grazie alla forza di questo amore, il mio corpo diventerà, attraverso la morte, il Pane della vita e il mio sangue versato diventerà sorgente di comunione, sangue di alleanza. Tutti potranno ricevere questo dono. Padre, ti rendo grazie per questa possibilità meravigliosa che mi dai”.

Proprio in quanto ringraziamento anticipato, che viene prima della vittoria, questa preghiera costituisce una rivelazione eccezionale della vita interiore di Gesù, della sua unione filiale con il Padre, della sua fiducia assoluta in lui e nello stesso tempo costituisce un’azione estremamente efficace, poiché quel ringraziamento determina tutti gli avvenimenti successivi. L’istituzione dell’Eucaristia, evidentemente, dipende da questo ringraziamento, ma anche la passione vittoriosa, la risurrezione gloriosa e la fondazione della nuova alleanza. Tutto dipende da questo rendimento di grazie, tutto dipende dal dono generoso del Padre ricevuto da Gesù con gratitudine perfetta.

8. Ora possiamo fare un confronto con l’Antico Testamento, per renderci meglio conto della novità dell’Eucaristia in quanto sacrificio di ringraziamento. L’AT conosceva i sacrifici di ringraziamento o sacrifici di lode, chiamati todà, parola ebraica che esprime la riconoscenza e che si usa ancor oggi, in Israele, per dire “grazie”.

Qual è lo schema abituale dei sacrifici di ringraziamento nell’AT? E’ uno schema molto naturale. Una persona si trova in pericolo di morte, invoca Dio con intensa preghiera e promette di offrire un sacrificio di ringraziamento se scamperà alla morte. Questa condizione si verifica, la persona si reca nel Tempio per offrire in mezzo all’assemblea festosa il sacrificio di ringraziamento, sacrificio che si conclude con un pasto nel quale tutti mangiano parte della vittima immolata e a questo banchetto sono invitati specialmente i poveri. Questo schema e ancora vigente ai nostri giorni. Una persona che si trova in grave difficoltà fa una richiesta a Dio e la accompagna con un voto; se verrà esaudita si recherà in qualche santuario per ringraziare Dio. E’ uno schema che ritorna continuamente nei salmi. Ad esempio nel salmo 21(22), il salmo della passione, viene descritto innanzitutto il pericolo con molti dettagli, la situazione disperata del giusto perseguitato: “Mi circondano i tori di Basan, spalancano contro di me la loro bocca, come un leone che ruggisce…”. Poi viene la supplica: “Ma tu, Signore, non stare lontano, mia forza, accorri in mio aiuto”. Quindi, la promessa del sacrificio di ringraziamento: “Annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, in mezzo all’assemblea ti loderò”.

I versetti seguenti riferiscono in anticipo ciò che l’orante dirà dopo essere stato salvato, quando scioglierà i  suoi voti come dice il salmo: “Lodatelo, glorificatelo, perché non ha disprezzato ne sdegnato l’afflizione del misero, non gli ha nascosto il suo volto, ma, al suo grido d’aiuto, lo ha esaudito”. Alla fine, viene annunciato anche il pasto di comunione: “Mangeranno i poveri e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano”. Altri salmi esprimono il rendimento di grazie del fedele scampato al pericolo, come il salmo 137 (l38): “Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore: hai ascoltato le parole della mia bocca. A te voglio cantare davanti agli angeli, mi prostro verso il tuo tempio santo…”. Altri salmi ancora esortano i fedeli esauditi ad offrire i sacrifici di ringraziamento, ad esempio il 106 (107) che elenca diversi casi di pericoli estremi, la prigione con la minaccia di essere messo a morte, il deserto col pericolo di morire di fame e di sete, la tempesta sul mare, la malattia mortale. E ogni volta il fedele viene invitato a ringraziare il Signore il quale lo ha liberato: “Ringrazino il Signore per la sua misericordia e per i suoi prodigi a favore degli uomini. Offrano a lui sacrifici di lode, narrino con giubilo le sue opere”. Pertanto, secondo lo schema abituale, il sacrificio di ringraziamento viene naturalmente alla fine, come felice conclusione di una vicenda che minacciava di finire molto male.

Ciò che è straordinario nel caso di Gesù è che egli ha anticipato il ringraziamento, mettendolo all’inizio, assieme al pasto di comunione. Nell’ultima cena sappiamo bene che Gesù ha anticipato la sua morte, l’ha resa presente in anticipo. Ma non viene abbastanza evidenziato il fatto che Cristo ha anticipato anche il ringraziamento finale per la vittoria sulla morte, ottenuta attraverso la morte stessa. Ha messo cosi per primo l’elemento che di solito viene messo per ultimo, il rendimento di grazie con il banchetto offerto ai fedeli. Nel suo caso il sacrificio di ringraziamento è strettamente legato al sacrificio di alleanza, perché egli ringrazia poter fondare la nuova alleanza, trasformando il suo proprio corpo in cibo di comunione e il suo sangue versato, segno di morte violenta, in sangue di alleanza.

9. Possiamo fare un’ultima osservazione. Di solito si distinguono chiaramente tre elementi successivi: la situazione di pericolo, la liberazione, il rendimento di grazie. Nel caso di Gesù, questi tre momenti successivi sono uniti in modo sorprendente, si compenetrano a vicenda: il rendimento di grazie comincia nella situazione di pericolo. Questo perché il pericolo non è stato soppresso dall’esterno da un intervento miracoloso; Gesù non è stato preservato dalla morte, la morte non è stata miracolosamente evitata.

La morte è stata trasformata dall’interno in strumento di vittoria sulla morte, in strumento di liberazione di alleanza. Cosi la morte stessa suscita sin dall’inizio il rendimento di grazie, perché si tratta di una morte vittoriosa; una morte che vince la morte per mezzo dell’amore che Gesù riceve dal Padre mediante il rendimento di grazie. Ecco perché, mentre in tutti gli altri casi una persona ringrazia dopo l’evento, nel caso di Gesù il ringraziamento precede l’evento e lo accompagna sino alla fine: perché tutto l’evento è un dono positivo di Dio, il dono di un sacerdozio esistenziale.

Tutte queste osservazioni ci aiutano a comprendere la profondità del mistero e soprattutto la forza dell’amore che proviene dal Padre, passa attraverso il cuore di Cristo e trasforma un avvenimento tragico e scandaloso in sorgente di grazie infinite.

Quando celebriamo l’Eucaristia e ci comunichiamo, riceviamo in noi questo intenso dinamismo di amore capace di trasformare tutti gli eventi in occasione di progresso e di vittoria.

Ne dobbiamo prendere meglio coscienza, per diventare effettivamente capaci di superare ogni difficoltà con la forza dell’amore, in un continuo ringraziamento a Dio. Il ruolo principale del sacerdote è quello di comunicare meglio ai fedeli questo dinamismo splendido dell’Eucaristia.

L’Eucaristia, frutto di una fissione nucleare nel cuore dell’essere. Le sorprendenti meditazioni di Benedetto XVI. (1)

Fra i libri che non dovrebbero mancare nella biblioteca personale di un cultore di liturgia, senza dubbio vi è il volume dedicato agli scritti liturgici dell’Opera Omnia, in corso di edizione, di J. Ratzinger[1]. In esso sono raccolti contributi diversi e di svariata portata: insieme ad alcuni studi più corposi, i curatori dell’opera hanno inserito nel volume anche scritti minori, e pure alcune omelie. Per questo ci permettiamo di segnalare una lacuna.

Fra le memorabili ed inarrivabili sintesi di cui era capace Benedetto XVI, spicca – a proposito del mistero eucaristico – l’omelia tenuta in occasione della Messa conclusiva della sua prima Giornata Mondiale della Gioventù, nella sua Germania, a Colonia, il 21 agosto 2005.

Già nella sera precedente – nella grande veglia nella spianata di Marienfeld -, aveva offerto una lettura del viaggio dei Magi (a Colonia si venerano alcune reliquie di questi Saggi dell’Oriente) davvero sorprendente per la profondità esistenziale e la freschezza: le centinaia di migliaia di giovani presenti ne furono affascinati, a giudicare dal silenzio e dall’attenzione con cui seguivano la meditazione papale. Nella celebrazione conclusiva della Giornata, la domenica, Benedetto XVI ampliò il tema della meditazione della vigilia, continuando il tema dell’adorazione. Ebbe così modo di offrire una meditazione sul mistero eucaristico e sulla dinamica pasquale sottesa nella santa Comunione.

Oltre ad usare con estrema facilità categorie esistenziali, Benedetto XVI sorprese tutti, facendo proprio un concetto desunto dalla fisica molecolare. Attraverso questa immagine, declinò in modo assai riuscito i vari momenti della dinamica eucaristica, dall’Ultima Cena all’offerta della nostra stessa vita, in unione con Cristo.

Una sintesi magistrale, di cui solo Ratzinger poteva essere capace.

Per rendersi conto di quanto abbiamo affermato, a seguire una parte del testo dell’omelia di Benedetto XVI, offriamo una prima parte (la seconda parte sarà pubblicata in un post successivo) di una meditazione del Card. Vanhoye, sicuramente conosciuta a Ratzinger, dove possiamo trovare analoghe riflessioni. Si direbbe che Benedetto XVI abbia attinto dagli scritti del biblista, aggiungendo il suo personale tocco geniale, con l’accostamento ai dati delle scienze naturali, riferimento che spesso ha caratterizzato la riflessione e la predicazione di Ratzinger, cultore e difensore della dimensione “cosmica” della liturgia.

«Con la Celebrazione eucaristica ci troviamo in quell’“ora” di Gesù di cui parla il Vangelo di Giovanni. Mediante l’Eucaristia questa sua “ora” diventa la nostra ora, presenza sua in mezzo a noi. Insieme con i discepoli Egli celebrò la cena pasquale d’Israele, il memoriale dell’azione liberatrice di Dio che aveva guidato Israele dalla schiavitù alla libertà. Gesù segue i riti d’Israele. Recita sul pane la preghiera di lode e di benedizione. Poi però avviene una cosa nuova. Egli ringrazia Dio non soltanto per le grandi opere del passato; lo ringrazia per la propria esaltazione che si realizzerà mediante la Croce e la Risurrezione, parlando ai discepoli anche con parole che contengono la somma della Legge e dei Profeti: “Questo è il mio Corpo dato in sacrificio per voi. Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio Sangue”. E così distribuisce il pane e il calice, e insieme dà loro il compito di ridire e rifare sempre di nuovo in sua memoria quello che sta dicendo e facendo in quel momento.

Che cosa sta succedendo? Come Gesù può distribuire il suo Corpo e il suo Sangue? Facendo del pane il suo Corpo e del vino il suo Sangue, Egli anticipa la sua morte, l’accetta nel suo intimo e la trasforma in un’azione di amore. Quello che dall’esterno è violenza brutale – la crocifissione -, dall’interno diventa un atto di un amore che si dona totalmente. È questa la trasformazione sostanziale che si realizzò nel cenacolo e che era destinata a suscitare un processo di trasformazioni il cui termine ultimo è la trasformazione del mondo fino a quella condizione in cui Dio sarà tutto in tutti (cfr 1 Cor 15, 28). Già da sempre tutti gli uomini in qualche modo aspettano nel loro cuore un cambiamento, una trasformazione del mondo. Ora questo è l’atto centrale di trasformazione che solo è in grado di rinnovare veramente il mondo: la violenza si trasforma in amore e quindi la morte in vita. Poiché questo atto tramuta la morte in amore, la morte come tale è già dal suo interno superata, è già presente in essa la risurrezione. La morte è, per così dire, intimamente ferita, così che non può più essere lei l’ultima parola. È questa, per usare un’immagine a noi oggi ben nota, la fissione nucleare portata nel più intimo dell’essere – la vittoria dell’amore sull’odio, la vittoria dell’amore sulla morte. Soltanto questa intima esplosione del bene che vince il male può suscitare poi la catena di trasformazioni che poco a poco cambieranno il mondo. Tutti gli altri cambiamenti rimangono superficiali e non salvano. Per questo parliamo di redenzione: quello che dal più intimo era necessario è avvenuto, e noi possiamo entrare in questo dinamismo. Gesù può distribuire il suo Corpo, perché realmente dona se stesso.

Questa prima fondamentale trasformazione della violenza in amore, della morte in vita trascina poi con sé le altre trasformazioni. Pane e vino diventano il suo Corpo e Sangue. A questo punto però la trasformazione non deve fermarsi, anzi è qui che deve cominciare appieno. Il Corpo e il Sangue di Cristo sono dati a noi affinché noi stessi veniamo trasformati a nostra volta. Noi stessi dobbiamo diventare Corpo di Cristo, consanguinei di Lui. Tutti mangiamo l’unico pane, ma questo significa che tra di noi diventiamo una cosa sola. L’adorazione, abbiamo detto, diventa unione. Dio non è più soltanto di fronte a noi, come il Totalmente Altro. È dentro di noi, e noi siamo in Lui. La sua dinamica ci penetra e da noi vuole propagarsi agli altri e estendersi a tutto il mondo, perché il suo amore diventi realmente la misura dominante del mondo».

(Per il testo integrale dell’Omelia si veda: http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2005/documents/hf_ben-xvi_hom_20050821_20th-world-youth-day_it.html)

 

Ecco, infine, il testo del card. Vanhoye, frutto di un corso di esercizi spirituali.

l. Quando il profeta Geremia (nel cap. 31) annuncia la nuova alleanza, ne fa una descrizione bellissima: la legge di Dio scritta nei cuori, una relazione reciproca tra Dio e il suo popolo, una relazione personale tra Dio e ciascuno nel popolo di Dio, il perdono generoso dei peccati… Tuttavia Geremia non ne descrive il fondamento. Orbene, perché si stabilisca un’alleanza nuova, occorre che ci sia un fondamento nuovo. Il NT colma la mancanza di Geremia, mostrando che Gesù si e rivelato sacerdote della nuova alleanza quando nell’ultima cena “prese il calice e disse: ‘Questo calice é la nuova alleanza nel mio sangue, viene versato per voi” (Lc 22,20). Una formula simile si trova nella prima lettera ai Corinzi (11,25), il testo più antico dell’istituzione dell’Eucaristia.

In Matteo e Marco non c’è l’espressione “nuova alleanza”, ma soltanto: “Questo é il mio sangue dell’alleanza”, pero é chiaro che si tratta di un’alleanza nuova, perché l`antica alleanza non era stabilita nel sangue di una persona che dava se stessa. L’atto fondamentale della liturgia della nuova alleanza consiste nel rendere di nuovo presente questo evento per mezzo della celebrazione eucaristica affinché il popolo cristiano possa entrare sempre meglio nel dinamismo di comunione della nuova alleanza. E’ importante prendere coscienza del dinamismo della nuova alleanza nell’Eucaristia e farvi entrare la gente. Cercheremo, perciò, di meditare sull’istituzione dell`Eucaristia, mistero della nuova alleanza, tesoro inesauribile, per il quale non possiamo che provare un’ammirazione e una venerazione sempre crescenti. Un fatto impressionante é che tutti i racconti dell`ultima cena mettano l’Eucaristia in rapporto con la passione di Gesù e più precisamente con il tradimento di Giuda.

Paolo dichiara che “il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane.. ”. Nella preghiera eucaristica diciamo: “Nella notte in cui fu tradito”. E’ una sfumatura diversa. Paolo dicendo “veniva tradito” fa capire che il tradimento era in corso quando Gesù prese il pane.

Gli evangelisti Marco e Matteo riferiscono che, prima di istituire l’Eucaristia, Gesù si é mostrato consapevole del tradimento: “Disse: in verità vi dico, uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà” (Mc 14, 18).

Ugualmente Luca vi fa accenno e anche Giovanni. Quindi, la catena degli avvenimenti che porteranno Gesù alla condanna e alla morte infame sulla croce ha già cominciato a mettersi in moto. Il Signore ne è consapevole; egli può ancora agire liberamente. Alcune ore più tardi sarà arrestato, legato e allora non potrà più muoversi con libertà, ancora meno potrà farlo quando sarà inchiodato sulla croce. Nell’ultima cena affronta consapevolmente questa situazione estremamente avversa. Il suo ministero di dedizione generosa a Dio e ai fratelli sta per essere brutalmente interrotto da un tradimento, la colpa più odiosa e più contraria al dinamismo di alleanza.

2. Quale sarebbe la reazione da aspettarsi in una situazione cosi odiosa?

Vediamo la reazione del profeta Geremia. Avvisato dal Signore di un complotto tramato contro di lui, Geremia esclama (11,20-21 e di nuovo 20,12): “Ora, Signore degli eserciti, giusto giudice che scruti il cuore e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di loro, perché a te ho affidato la mia causa”. Pin terribili e più dettagliate sono le imprecazioni del capitolo 18: “Abbandona i loro figli alla fame, gettali in potere della spada; le loro donne restino senza figli e vedove, i loro uomini siano colpiti dalla morte e i loro giovani uccisi dalla spada in battaglia…non lasciare impunita la loro iniquità” (Ger 18,21.23).

Notate che l’atteggiamento di Geremia costituisce già un certo progresso rispetto alla reazione umana istintiva, che sarebbe quella di prendere in mano la spada e di attuare la propria vendetta. Affidare a Dio la vendetta è già  una vittoria sulla tentazione della violenza.

Gesù però riporta una vittoria molto più radicale e positiva. Egli supera il turbamento interiore di cui parla Giovanni in 13,21 e, invece di rinunciare, come fa Geremia, al suo atteggiamento generoso lo spinge fino all’estremo. Giovanni scrive: “Dopo avere amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine”, cioè sino al punto estremo dell’amore (cf. Gv l3,1).

Gesù anticipa la propria morte rendendola presente nel pane spezzato, che diventa il suo corpo, e nel vino versato che diventa il suo sangue e trasforma la propria morte in sacrificio di alleanza per il bene di tutti. Non è possibile immaginare una generosità più grande di questa, né una trasformazione più radicale dell’evento stesso.

Quando si parla dell’Eucaristia, di solito si insiste sulla trasformazione del pane nel corpo di Cristo e del vino nel suo sangue, la transustanziazione, la cui importanza è evidentemente decisiva, in quanto, senza di essa, non ci sarebbe il sacramento.

Non si pensa pero a sottolineare un`altra trasformazione, non meno straordinaria e in un certo senso più importante per la nostra vita spirituale: la trasformazione di una morte da condannato in strumento di comunione e di alleanza; la trasformazione del sangue criminalmente versato dai nemici in sangue di alleanza; la trasformazione di un evento di rottura in mezzo di comunione.

Questa trasformazione è veramente straordinaria.

3. Per l’AT la morte era rottura radicale e definitiva, con gli uomini e con Dio. Non la possiamo più intendere così proprio perché Gesù l’ha trasformata nell’ultima cena. Sperimentiamo tuttavia ancora che la morte non unisce le persone, ma spezza i legami umani. Non è più possibile comunicare con il morto, a nulla serve parlargli, non si può avere nessun contatto personale reciproco. Questo provoca tristezza e dolore. Sappiamo però nella fede che i legami spirituali rimangono.

Nell’AT invece la rottura era percepita come completa, perché la morte provocava anche la rottura delle relazioni con Dio. Questo era il suo aspetto pin tremendo per gli Ebrei religiosi: la morte come castigo del peccato, come ultima conseguenza del peccato, estremo grado di rottura tra la persona umana e Dio. Quando nell’AT pensavano alla morte, pensavano a questa rottura tremenda. Ad esempio il re Ezechia colpito da una malattia mortale esclama: “Non vedrò più il Signore sulla terra dei viventi”. Il Signore si vede sulla terra dei viventi, non nello Sceol dei morti. “Non vedrò più nessuno tra gli abitanti di questo mondo” (Is 38,11). Nell’AT si percepiva un contrasto completo e una incompatibilità assoluta tra il Dio vivente e l’uomo morto e non si riteneva possibile nessuna relazione positiva tra loro.

Nel salmo 88, ad esempio l’orante si rivolge a Dio con queste parole: “Già vado tra chi scende nella fossa, mi sento uomo finito, relegato tra i morti, come gli uccisi che giacciono nel sepolcro e che tu più non ricordi, dalla tua mano recisi per sempre” (Sal 88,5-6). Dio non ha nessun ricordo dei morti, c’è una rottura completa. In altri salmi leggiamo queste espressioni: “Nel regno della morte nessuno ti invoca, nell’abisso chi ti rende grazie?”; “I morti non lodano il Signore né quelli che scendono al silenzio” (Sal 1 16, 17). Secondo la concezione dell’AT i morti vanno a finire nello Sceol, cioé un luogo sotterraneo dove vivono una vita da larve, una vita indegna dell’uomo e naturalmente ancora di più indegna di Dio. Sono dimenticati da Dio. Non ci può essere nessun contatto tra il Dio della vita e la corruzione della morte. Questo duplice aspetto di rottura provocata dalla morte diventava ancora più tragico quando si trattava della morte di un condannato. La morte di una persona cara

causa negli altri dolore e afflizione, si vorrebbe che non fosse morta; invece il condannato é rigettato dalla società che non lo vuole più e lo condanna a morte proprio per rompere con lui in modo definitivo. Nel popolo eletto la condanna veniva fatta secondo la legge di Dio, quindi il condannato era considerato maledetto da Dio. Tale doveva essere la situazione tragica di Gesù, il quale è stato respinto dalle autorità del suo popolo e perciò San Paolo non esita a dire che “Cristo è diventato maledizione” (Gal 3,13), perché è stato crocifisso e si legge nella Scrittura: “Maledetto chi pende dal legno”. E’ proprio questa situazione di rottura completa che Gesù deve affrontare. Egli l’assume e ne fa l’occasione di un amore estremo, ne fa uno strumento di comunione con Dio e con i fratelli, un mezzo per fondare l’alleanza.

Circostanze più contrarie alla fondazione di un’alleanza non si potevano immaginare. Gesù sa che é tradito, egli prevede che sarà abbandonato da tutti i discepoli, rinnegato da Pietro, accusato falsamente, condannato ingiustamente, schernito, ucciso… e proprio questi eventi crudeli e ingiusti egli li anticipa nel momento dell’ultima cena e li trasforma in dono di amore e di offerta di alleanza. Il suo sacerdozio consiste in questo.

Se ci pensassimo bene, questa realtà dovrebbe lasciarci profondamente stupefatti. Non ci rendiamo più abbastanza conto della straordinaria trasformazione operata da Gesù in quel momento e della generosità di cuore con cui egli ha concepito ed attuato tale trasformazione.

Non ci rendiamo più conto del dinamismo di amore vittorioso che riceviamo in noi quando celebriamo l’Eucaristia e facciamo la comunione; un dinamismo che ci dovrebbe rendere facile la vittoria su tutti gli ostacoli all’amore e darci la forza di trasformare gli ostacoli in occasioni di progresso nell’amore. (Continua)

A. Vanhoye, Cristo sommo sacerdote della nuova alleanza, Treviso 2002, 77-82.


[1] J. Ratzinger, Opera Omnia, 11. Teologia della Liturgia. La fondazione sacramentale dell’esistenza cristiana, Città del Vaticano 2010.

Continuità “benedetta”, e “pia”.

Qualche tempo fa avevamo giocato un pochino con le parole e con associazioni improvvisate. Oggi possiamo aggiungere un tassello ai post precedentemente pubblicati, sulla possibilità di rintracciare un dinasmismo neanche troppo sotto traccia nel magistero recente dei pontefici che si sono succeduti sulla sede di Pietro. Il tema era l’importanza della Parola di Dio nella liturgia, che dal Concilio Vaticano II è stata sempre di più affermata – forse ancora non abbastanza -da altri documenti magisteriali, senza disconoscere la particolarissima presenza reale del Signore Gesù nel sacramento dell’eucaristia. I post precedenti erano questi:

https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2013/10/04/forza-riconciliatrice-della-parola-di-dio-la-verbum-domini-e-protestante/

https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2013/10/03/benedetta-continuita-dallimitazione-di-cristo-alla-verbum-domini/

Andando un pochino più indietro, si può trovare, di nuovo, il tema delle due mense – Parola ed Eucaristia – nell’importante relazione che il rettore del Pontificio Istituto Biblico, il card. A. Bea, tenne al Congresso Internazionale di Liturgia pastorale (Assisi 1956): un biblista che parlava a liturgisti, sul valore della Parola di Dio nella liturgia. Allora pareva inaudito. Eppure, Bea descrive una sorprendente continuità. Ecco alcuni brani:

Benchè la S. Scrittura non si possa chiamare, come si è voluto dire, “sacramento” nel senso tecnico della parola, non si può neanche semplicemente chiamare una “sacramentale”, come se producesse i suoi effetti soltanto “ex opere operantis Ecclesiae”, in virtù della dignità e potente intercessione della Chiesa, ma alle stesse parole della S. Scrittura, lette e percepite con la dovuta disposizione, è inerente una luce e una forza che supera la luce e la forza delle parole puramente umane, anche dei più eloquenti oratori, e dà loro una autorità e una virtù del tutto singolare e unica. “Per evangelica dicta deleantur nostra delicta”, ci fa dire al Chiesa dopo la lettura del s. Vangelo. […] L’imitazione di Cristo parla in un testo ben conosciuto di due mense poste di qua e di là nel tesoro di Santa Chiesa: l’una, la mensa del sacro altare, su cui sta il pane santificato, cioè il prezioso Corpo di Cristo, l’altra, la mensa della divina legge la quale contiene la santa dottrina, insegna la vera fede e ci conduce per via sicura fin dentro il velo dov’è il “sancta sanctorum”. E’ il grande scopo della Riforma liturgica di rendere sempre più accessibili ai fedeli queste due mense dateci da Dio stesso. Questo era lo scopo del santo Pontefice che si era scelto il programma: “Instaurare omnia in Christo”. San Pio X, con coraggiosa iniziativa, ha dato ai fedeli una nuova abbondanza il pane eucaristico, posto sull’una delle due mense del Santuario. Quanto egli aveva progettato circa il prezioso dono posto sull’altra mensa, il pane santo della Parola di Dio, non gli è stato consentito di eseguire pienamente. Condurre a felice termine anche questo secondo compito, egli l’ha dovuto lasciare ai suoi successori sulla Cattedra di Pietro, eredi delle sue idee e dei suoi ideali. Ma due micidiali guerre, gli sconvolgimenti politici e sociali che ne erano le tristi conseguenze, le innumerevoli miserie e angosce di ogni genere che richiedevano il paterno intervento dei Sommi Pontefici: tutto ciò ha potuto ritardare l’attuazione del grandioso programma di S. Pio X, ma non ha potuto estinguere la fiamma da lui accesa. Oggi il nostro S. Padre Pio XII gl. r. ha preso con forte energia nelle sue auguste mani l’esecuzione del sacro testamento lasciatogli dal suo santo Predecessore, e con avveduta premura il Pontefice si adopera ad addurre il popolo fedele anche alla seconda mensa preparatagli dal Signore: la mensa della Parola di Dio. San Pio X, frattanto salito all’onore degli altari e con ciò entrato nelle file dei grandi intercessori nostri presso il trono di Dio, assista il suo augusto successore anche in questo importante compito di ridare al popolo cristiano tutto il valore della Parola di Dio perché la liturgia diventi di nuovo, come lo era la tempo dei gloriosi martiri, anche nei nostri agitati giorni, la luce, la forza, la consolazione delle anime.

A. Bea, «Il valore pastorale della Parola di Dio nella sacra liturgia», in La restaurazione liturgica nell’opera di Pio XII. Atti del primo congresso internazionale di Liturgia pastorale – Assisi Roma 18-22 settembre 1956, Centro di Azione liturgica, Genova 1957, 104.106-107.

 

P.S. La “coraggiosa iniziativa” di Pio X si riferisce ai due documenti papali – Sacra Tridentina Synodus (1905) e Quam singularis (1910) – con i quali si auspicava e permetteva la comunione frequente e quotidiana e la prima comunione dei bambini intorno ai sette anni.