Dal grande Martimort una piccola citazione.

Bibbia, Liturgia, Storia: così recita il “sottotitolo” del blog. Da uno dei più grandi liturgisti del secolo scorso, una citazione che motiva l’aver unito questi tre mondi. Anche il titolo dato alla raccolta di Conferenze offerte dall’allora direttore del Centre du Pastorale Liturgique di Parigi è assai significativo…

…l’on ne peut pas avancer dans la connaissance de la Liturgie sans faire en meme temps un progrès dans la connaissance du monde biblique.

Non si può avanzare nella conoscenza della liturgia, senza fare allo stesso tempo un progresso nella conoscenza del mondo biblico.

A.-G. Martimort, La liturgie. Actualisation célébrée du dessein de Dieu (Session doctrinale Montmagny 5-13 Juillet 1956), Commission de Etudes Religieuses, Paris 1956, 43.

Non cuiuscumque reformationis cupidi, nec novationis malo pruritu accensi…

Qualche tempo fa, avevamo cominciato a presentare qualche cenno a particolari figure di rilievo nell’opera di riforma liturgica avviata dal Concilio Vaticano II. Quella eccezionale stagione della vita della Chiesa è, in effetti, assai interessante e molto ancora si dovrà studiare: tanto infatti rimane non del tutto chiarito o addirittura sconosciuto ai più. A una lettura ideologica conviene perpetuare visioni superficiali e non approfondite di come effettivamente andarono le cose. Chi invece affronta senza pregiudizi la fatica di addentrarsi nei documenti e nelle vicende personali dei testimoni, non mancherà di occasioni di stupore riconoscente, nel constatare che, insieme alle consuete piccolezze degli attori umani, in quella storia vi fu qualcosa di più della volontà di uomini. Questo non significa che non vi siano stati Padri audaci, che con mitezza intrepida e fermo rispetto, favorirono l’avanzamento delle istanze di riforma che furono suggellate dall’approvazione pressoché unanime della Costituzione liturgica. Pensiamo, tuttavia, che il fatto che si dimostrò più convincente l’intervento di un semplice vescovo della periferia – si direbbe oggi -, proveniente da una piccola e davvero periferica diocesi della Francia, rispetto all’autorevole presa di posizione del Prefetto della Congregazione dell’allora Sant’Uffizio, risulta davvero sorprendente.

Vediamo subito, anche se dobbiamo fare una piccola introduzione. Uno dei passaggi “difficili” dell’iter dei lavori conciliari fu il passaggio dello schema preparatorio della Sacrosanctum Concilium dalla Commissione Preparatoria De Liturgia alle mani di ciascuno dei Padri Conciliari. Il testo, che pure era stato approvato in toto dalla Commissione Centrale, dopo averne recepito gli emendamenti, arrivò ai Padri, qualche tempo prima dell’avvio dei lavori Sinodali, modificato in alcuni passaggi e, soprattutto, privato delle “declarationes”, ossia dei testi che accompagnavano i singoli vota, i numeri, del testo, esplicitando meglio quanto in maniera succinta e generica veniva riassunto nei paragrafi dello schema ufficiale, con esemplificazioni, spiegazioni e indicazioni interpretative. Alcuni numeri, privati delle declarationes, apparivano effettivamente troppo generici o inconcludenti. Questo inconveniente causò intoppi e tensioni nelle discussioni in aula. Un esempio di quanto detto può essere il numero sulla riforma dell’Ordo Missae, allora il numero 37. Il testo presentato ai Padri recitava solamente: «Ordo Missae ita recognoscatur, sive in generali dispositione sive in singulis partibus, ut clarius percipiatur et actuosam participationem fidelium faciliore reddat». Si può comprendere la difficoltà di alcuni di fronte alla laconicità del testo. E la pericolosità di una sostanziale ambiguità di un testo, che per non urtare nessuno alla fine produceva solo confusione.

Mentre si discuteva intorno al capitolo II dello schema, quello in cui appunto era collocato il n. 37, il 5 novembre 1962, nella XII Congregatio generalis, prese la parola mons. Jenny, già a noi conosciuto per l’intervento in seno alla plenaria della Commissione preparatoria[1]. Con semplicità, unita a franchezza, centrò il problema intorno a questo paragrafo, insieme alle difficoltà che si andavano palesando in modo polemico, denunciando la mancata diffusione della rispettiva declaratio, che ne avrebbe precisato la portata, smentendo i preventivi indugi e le pregiudiziali resistenze, che già alcuni Padri avevano manifestato. Offriamo una nostra traduzione dal latino, riportando alla fine anche il testo latino, per un possibile confronto. In prossimi post ritorneremo su alcuni spunti offerti dal testo di Jenny. Per oggi sia sufficiente la lettura: il commento verrà; ciascuno, comunque, potrà già fare le sue osservazioni.

 Vogliate scusarmi se dirò qualcosa intorno al n. 37 «Sia rivisto l’Ordo Missae». Questo numero è di grande rilevanza nel capitolo II. Alcuni Padri chiedono: «Perché e in che modo si debba rivedere l’Ordo Missae?[2]». Senza dubbio dobbiamo sapere più chiaramente di quanto precisamente si tratti qui. Vogliare ascoltare, Venerabili Padri, la risposta. Se di questo numero 37 le parole sono poco chiare, ciò è accaduto dopo la sopressione della «declaratio», che era stata preparata dalla Commissione De Liturgia, assolutamente necessaria per capire l’intenzione di codesta revisione. Non smaniosi di qualsivoglia riforma, né eccitati da un cattivo prurito di innovazione (Non cuiuscumque reformationis cupidi, nec novationis malo pruritu accensi), non per accorciare la Messa né per appesantirla, quanto piuttosto ispirati dallo zelo per la gloria di Dio e dall’amore per la santissima Messa, nella commissione preparatoria Pastori insieme ad esperti, e alcuni illustri, si sono dati da fare con tutte le forze.

Poi continua, prendendo spunto dalla declaratio, che lui certamente conosceva, essendo stato membro della Commissione preparatoria.

 Infatti, l’odierno Ordo Missae, che si formò nel decorso dei secoli, è certamente da ritenere. Tuttavia pare che ci siano qua e là alcune cose da emendare, con l’aiuto di studi compiuti sia intorno all’origine sia intorno allo sviluppo dei singoli riti, affinché la natura e il significato di ciascuna parte sia posto in più chiara luce, e pure perché sia resa più facile la partecipazione dei fedeli e così il Padre Nostro e Signore, dal popolo santo, per Gesù Cristo sia meglio conosciuto, amato e adorato. E quindi, prima che possiamo avere la declaratio integra davanti agli occhi, ora sia sufficiente, Venerabili Padri, – ma è necessario – che di quella riassumiamo brevemente i punti di più grande importanza. e così possiamo essere messi chiaramente edotti sui principi per la riforma della Messa.

1. Le preghiere ai piedi dell’altare siano in certa misura diminuite.

2. Siano distinte in modo più chiaro le due parte della Messa: vale a dire la Liturgia della Parola e la Liturgia Eucaristica; la qual cosa sarà ottenuta differenziando il luogo di ciascuna: il luogo per l’Eucaristia è l’altare; per la Liturgia della parola, versus populum: la sede e gli amboni.

3. Nella Messa si facciano assai meno frequenti i segni di croce, i baci all’altare, le genuflessioni e cose simili.

4. Il rito dell’Offertorio sia disposto in modo tale che appaia maggiormente la partecipazione del popolo. Le preghiere del sacerdote, che hanno un sapore di pietà piuttosto privata e individuale, siano riviste; l’orazione sulle offerte sia detta a voce chiara.

5. Nel Canone della Messa, le preghiere principali, perlomeno la dossologia siano pronunciate ad alta voce così che il popolo possa acclamare Amen, che dovrebbe essere solo alla fine.

6. La frazione dell’Ostia e la Pace siano meglio disposte.

7. La formula per la comunione sia più breve: “Corpus Christi”, con la risposta “Amen”.

8. La messa sia conclusa con la benedizione del sacerdote e la formula di congedo.

9. La messa solenne con il diacono sia resa prassi ordinaria.

10. La messa Pontificale sia celebrata con un rito più semplice.

Questi sono i punti principali. Poiché la Messa, specialmente quella domenicale, arreca al popolo di Dio così tanto per una maggiore lode di Dio, per alimentare la fede, per salvare le anime, occorre che quel Sacrificio della Messa riveli manifestamente a tutti i fedeli lo splendore ed equilibrio nelle sue parti, l’unità nelle sue molteplicità, nei suoi momenti la via di ascesa al Padre. Tale è la speranza di molti nella riforma dell’Ordo Missae.

E così consegno l’emendazione scritta al’Ecc.mo Signor segretario, perché renda più chiaro il numero 37. Ho detto.[3]

 

 Veniam mihi dare velitis ut aliqua dicam de n. 37: «Ordo Missae recognoscatur». Hic numerus maximi est momenti in cap. II. Aliqui ex Patribus interrogant: cur et quomodo recognoscendus Ordo Missae? Profecto clarius scire debemus de quanta re hic praecise agatur. Responsionem audire velitis, venerabiles Patres. Si obscura verba sunt huius n. 37, hoc accidit post «declarationem» suppressam, quam paraverat commissio de Liturgia, necessariam omnino ad mentem istius recognitionis intelligendam. Non cuiuscumque reformationis cupidi, nec novationis malo pruritu accensi, non ad contrahendam Missam neque gravandam, sed potius gloriae Domini zelo ac sanctissimae Missae amore inspirati, in commissione preparatoria, pastores una cum peritis, et quidem illustribus, enixe adlaborarunt. Hodiernus enim Ordo Missae qui decursu saeculorum succrevit certe retinendus est. Nonnulla tamen passim emendanda videtur, ope studiorum quae peracta sunt sive circa originem sive circa evolutionem singulorum rituum, ita ut cuiusque partis natura et significatio in clariore luce ponatur, nec non fidelium participatio [actuosa] facilior reddatur et ideo Pater noster et Dominus melius a populo sancto per Iesum Christum cognoscatur, ametur et adoretur. Et ideo, antequam declarationem ipsam integram prae oculis habeamus, nunc sufficit, Patres venerabiles, sed necessarium est, ut illius puncta maioris momenti breviter complectamur ac ita de principiis pro reformanda Missa clare doceamur:

1. Preces ad gradus altaris aliquatenus minuendae.

2. Clarius distinguendae duae partes Missae: Liturgia nempe verbi et Eucharistica; quod obtineretur cuiusque locum separando: pro Eucharistia locus est altare; pro Liturgia verbi, versus populum: sedes et ambones.

3. Rariores in Missa fiant cruce signationes, altaris oscula, genuflexiones et alia huiusmodi.

4. Ritus Offertorii ita describatur ut populi participatio magis appareat. Orationes sacerdotis, quae potius privatam vel singularem pietatem sapiunt, recognoscendae; oratio super oblata clara voce dicenda.

5. In Canone Missae, preces praecipue, saltem doxologia finalis, elata voce dicantur ita ut populus clamare valeat: Amen, quod in fine tantum exstare deberet.

6. Fractio hostiae et Pax melius ordinentur.

7. Formula ad Communionem brevior sit: “Corpus Christi”, cum responso “Amen”.

8. Missa compleatur benediction sacerdotis et formua dimissionis.

9. Missa solemnis cum diacono in ordinaria praxi restituatur.

10. Missa Pontificalis simpliciori ritu celebretur.

Illa sunt puncta principaliora.

Cum Missa, praesertim dominicalis, populo Dei tantum afferat ad laudem Domini mariorem, ad fidem nutriendam, ad animas salvandas, oportet ut illud Missae Sacrificium, in suis partibus splendorem et aequilibrium, in suis varietatibus unitatem, in suis momentis viam ascensionis ad Patrem omnibus fidelibus manifeste demonstret. Talis est multorum spes in recognoscendo Ordine Missae. Itaque emendationem scriptam trado exc.mo Domino secretario, quae clariorem reddat n. 37. Dixi.


[2] Anche se non vi è nessun riferimento esplicito, confrontando i testi, si può con tutta sicurezza ritenere che Jenny intendesse in certo modo rispondere all’intervento del Card. Ottaviani, che polemicamente chiuse la porta ad ogni istanza di riforma. Ritorneremo su questo discorso.

[3] Acta Synodalia, Volumen I (Periodus prima), pars II (Congr. gen. X-XVIII), Città del Vaticano 1970, 121-122.

“chi chiama sta per salvare…”

C’è una bellissima espressione di sant’Ambrogio che si può associare alla lettura biblica assegnata a questo giorno, mercoledì della prima settimana del Tempo Ordinario (Anno II), dal ciclo biennale delle letture biblico-patristiche per l’Ufficio delle Letture.

Era la pagina della Genesi in cui viene narrato il peccato originale, il primo peccato che soggiace ai singoli e puntuali peccati di ogni uomo. Il brano proposto si chiudeva con la cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden, alla cui custodia sono posti cherubini con spade fiammeggianti.

Se da una parte è facilmente riscontrabile che la “dinamica” del peccato è sempre analoga e in ogni genere di tentazione si cela sempre il dubbio primordiale riguardo all’amore di Dio (cf. CCC 2119), è vero anche che quanto si narra riguardo alla “risposta” di Dio ha caratteri anch’essi tipici. Come nei nostri singoli e, ahinoi, ripetuti peccati non vi è nulla di nuovo – potremmo dire nulla di “originale” -, altrettanto continua è l’opera di Dio, a riparazione e a restaurazione della comunione paradisiaca.

Questa pagina della Genesi veniva quasi ri-attualizzata negli antichi rituali della penitenza pubblica. Il fedele, responsabile di peccato grave e pubblico, all’inizio della Quaresima veniva “cacciato” dall’assemblea liturgica, proprio come Adamo dal Paradiso. I riferimenti a tale pagina della Scrittura erano esplicitati sia dai testi che dai gesti. Anche se non si può attestare con sicurezza una proclamazione liturgica della Genesi in queste liturgie di inizio della penitenza, sicuramente ad essa venivano fatti ripetuti cenni nelle parole che dovevano ammonire il penitente, e al canto di alcune antifone tratte da Genesi 3 esso era accompagnato, per mano, alla porta della Chiesa.

Questa liturgia di espulsione[1] assume caratteri sempre più amplificati, e quasi mimetici: si impone il cilicio, a ricordo delle tuniche di pelli confezionate per Adamo ed Eva, e la cenere, secondo la terribile parola “polvere tu sei e in polvere tornerai”, ci sono lamenti e sospiri e, una volta usciti dalla Chiesa i penitenti, si chiude la porta da cui sono passati, che non per caso viene chiamata porta di Adamo.

La liturgia della Chiesa, quindi, per qualche tempo ha conservato tutta la drammaticità della pagina della Genesi, modulando su di essa un rito assai solenne e significativo.

Ma la perenne vivezza della Scrittura non è frutto solamente dell’uso liturgico e dell’attualità celebrativa della liturgia che la usa nei suoi testi e nei suoi gesti. Essa è tale perché in essa si rispecchia l’attualità dell’operare di Dio. Alla costante e ripetuta debolezza di Adamo e della sua stirpe si oppone l’ancora più costante forza riconciliatrice di Dio, che sempre di nuovo si mette in cerca dell’uomo.

Un brano di un Inno di Romano il Melode per il Battesimo di Gesù, che abbiamo da pochi giorni celebrato, immagina il Signore alla ricerca di Adamo:

«Dio non ebbe disprezzo per colui che fu spogliato del paradiso a causa di inganno perdendo così la veste che Dio stesso gli aveva intessuta. Di nuovo gli viene incontro, chiamando con la sua santa voce l’irrequieto: “Dove sei, Adamo? Non nasconderti più: ti voglio vedere anche se sei nudo, anche se povero; non provare più vergogna, ora che io stesso mi sono fatto simile a te. […] Vinto dalle mie viscere, io, che sono misericordioso, sono accorso verso la creatura mia porgendo le mani per abbracciarti. Non provare dunque vergogna avanti a me: è per te, nudo, che mi spoglio e ricevo il Battesimo»[2].

La pagina della Scrittura non ha perso nulla della sua efficacia: essa oggi è la modalità con cui di nuovo il Signore cerca l’uomo. Come dice meglio Sant’Ambrogio:

«“Poi udirono – dice la Scrittura – la voce del Signore che passeggiava sul far della sera ” (Gn 3,8). Che cosa significa questo passeggiare di Dio, Lui che è sempre presente in ogni luogo? Ritengo che ci sia appunto come un passeggiare di Dio nel corso degli avvenimenti narrati dalle Scritture divine, nelle quali aleggia quasi la presenza di Dio.[…] Quindi quando un peccatore legge queste Scritture, sente la voce di Dio che passeggia sul far della sera (Quae est ambulatio Dei, qui ubique semper est? Sed puto deambulationem quandam esse Dei per divinarum seriem scripturarum, in quibus Dei quaedam versatur praesentia. […] Ergo cum legit peccator has scripturas, audit vocem Dei quasi ambulantis ad vesperum)».

Questa voce, che provoca tale paura che Adamo vorrebbe sottrarsene, è una voce in cui risuona già il perdono:

«Ma consideriamo che cosa dice: Adamo, dove sei? Ancora vi è una possibilità di salvezza in coloro che ascoltano la Parola di Dio. […] Inoltre il fatto stesso di chiamare è indizio che chi chiama sta per salvare, poiché il Signore appunto chiama coloro di cui ha misericordia (hoc ipsum quod vocat indicium sanaturi est, quia Dominus quos miseratur et vocat)»[3].

La Parola, che scuote Adamo e che corregge e ripara l’ordine della creazione, è una parola dura, ma è una parola di Amore.

Per dirla con un sapiente titolo di uno studio esegetico che contiamo di presentare in prossimi post, «Quelli che amo io li accuso»[4].


[1] Si veda, ad esempio, il Pontificale Romano-germanico (X sec.), nelle sezioni 71-73: «Hic mittendus est cinis super caput penitentis et dicendum: Memento, homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris [cf. Gen 3,19]. Statimque imponedum cilicium et dicendum: Convertere cor tuum et humilia animam tuam in cinere et cilicio. Cor enim contritum et humiliatum Deus non despicit [cf. Sal 51(50),19]. Sequitur oratio […] Post hanc eiciendus est ab sanctae ecclesiae propter peccatum tuum sicut Adam primus homo eiectus est a paradiso propter transgressionem suam. Sequitur responsum: In sudore vultus tui vesceris pane tuo, dixit dominus ad Adam, cum operatus fueris terram, non dabit fructus suos, sed spinas et tribulos germinabit tibi [cf. Gen 3,18-19]. Versus. Pro eo quod obedisti voci uxoris tuae plus quam meae, maledicta terra in opere tuo [cf. Gen 3,17]. Non dabit».

[2] Romano il Melode, Inno XVIII,2-3.

[3] Ambrogio, Il Paradiso terrestre, 14,68.70.

[4] M. Cucca – B. Rossi – S.M. Sessa, “Quelli che amo io li accuso”. Il rîb come chiave di lettura unitaria della Scrittura. Alcuni esempi, Assisi 2012.

perenne vitalidad de la tradicion…

Riportiamo un paragrafo della benevola recensione al nostro studio La Parola della Riconciliazione, apparsa sulla rivista Phase 53(2013) 691-692:

A lo largo de estas páginas descubrimos cómo la perenne vitalidad da la tradición, converge con las adquisiciones modernas de la ciencas teológicas en el renovado Ritual de la Penitencia. Se trata, por tanto, de un estudio imprescindibile para quien desee conocer la esencia del actual Ritual. (692)

Battesimo del Signore, Salmo 28. Dai “sette tuoni” alla sua antifona liturgica: “Vox Domini super aquas, Deus maiestatis intonuit”

Domenica 12 gennaio, Festa del Battesimo del Signore, ultimo giorno del tempo di Natale.

Con questa celebrazione si chiude un tempo liturgico assai particolare, per tanti versi. Su questo blog ci siamo soffermati ad evidenziarne alcuni aspetti che, seppure forse secondari, non sono affatto insignificanti, ossia la speciale ufficiatura e ancor più nel dettaglio il modo unico con cui sono distribuiti i salmi durante le ferie e le feste di questi giorni, ormai passati. Delle tante considerazioni possibili, si era cercato di mostrare semplicemente il rispetto per la tradizione che, in questo settore della riforma liturgica, i periti incaricati mostrarono di avere, nonostante la struttura generale come i contenuti delle singole Ore subirono notevoli cambiamenti rispetto al precedente Breviarium Romanum.

Abbiamo riportato, pur in modo frammentario, alcuni esempi per dar modo di apprezzare quanto lo speciale gruppo di studio (il Coetus III del Consilium ad exsequendam Constitutionem de sacra Liturgia) diede prova di equilibrio, ottemperando alle indicazioni del Concilio e dei Padri (Vescovi) membri del Consilium stesso e valorizzando il meglio della tradizione liturgica. Nel caso particolarissimo delle Feste del tempo di Natale, nell’alterazione il cursus normale e ciclicamente ripetuto in 4 settimane della distribuzione del salmi, risalta uno dei principi tradizionali della preghiera cristiana: la rilettura in senso cristologico di tutto il Salterio. Proviamo a spiegarlo con l’esempio di oggi. L’Ufficiatura di questa domenica è del tutto particolare: ai primi e ai secondi Vespri sono usati gli stessi salmi dell’Epifania, pur con antifone proprie. Alle Lodi si usano i salmi della Domenica della prima settimana; all’Ora media quelli della seconda settimana; all’Ufficio delle letture, invece, vi sono salmi propri.

Sembrerebbe un artificio del tutto eterogeneo e incomprensibile, opera di rubricisti tecnici, più matematici che teologi. Può essere: nel leggere le numerose tabelle preparate dai periti del gruppo di studio, con cui faticosamente tentavano pian piano di incastrare salmi, secondo i diversi criteri, secondo la diversa lunghezza, secondo le diverse opzioni, etc., alla fine gira un po’ la testa, come probabilmente sarà capitato anche a quei poveri periti.

Ma in questa “sistemazione” di versetti e di salmi traspare anche qualcosa di molto più profondo. Come esprimere il contenuto ricchissimo del mistero celebrato nel Battesimo del Signore? La liturgia delle Ore lo fa con note proprie, e alcune di esse sono proprio la scelta dei salmi. I salmi della prima domenica dicono che questa festa ha un legame particolarissimo con il mistero pasquale, ma pure che questo mistero della vita di Cristo è ancora legato alla sua manifestazione, alla sua epifania (cf. l’antifona al Magn. della solennità dell’Epifania: “Tre prodigi celebriamo in questo giorno santo: oggi la stella ha guidato i magi al presepio, oggi l’acqua è cambiata in vino alle nozze, oggi Cristo è battezzato da Giovanni nel Giordano per la nostra salvezza, alleluia”). Ma c’è qualcosa di proprio in questa Festa? Eccome! Allora, dal cuore della tradizione interpretativa dei padri e della liturgia, la liturgia delle Ore estrae il Salmo 28(29) e ne fa un testo privilegiato per la preghiera e per la meditazione sul mistero di questo giorno. Il fatto che anche nel lezionario della Messa, come salmo responsoriale, sia assegnato questo stesso salmo ci convince che questo sia il Salmo proprio di questa festa, presente, fra l’altro, anche nelle ufficiature bizantine nella celebrazione dello stesso mistero.

Già[1] abbiamo riprodotto alcune brevi sezioni dello Schema 244 (De Breviario, 59), approntato dal Coetus III in una fase del lavoro di riforma di questo libro liturgico. Anche oggi riportiamo la sezione relativa alla festa del Battesimo del Signore, in cui si giustifica la proposta avanzata dai periti. Più avanti nello schema vi è un primo elenco di tituli psalmorum, in cui si assegnano a ciascun salmo due brevi note, una secondo il senso letterale, l’altra secondo il “senso cristiano”, con una valutazione di quest’ultima. Nella legenda previa a questo elenco viene spiegato il segno “+” che accompagna il titolo del salmo 28: Interpretatio fundatur in optima traditione Ecclesiae

Dominica I. p. Ep. in Baptismate Domini

30) I. Vesperae ut in die 6 Ianuarii

31) Officium lectionis

Ps 94 etiam hac die occorri in invitatorio. Qua de causa non inseritur in corpus psalmodiae.

Ps 28 Vox Patris super aquam Ioardinis in Baptismate Christi.

Ps 45 In traditione assignatur propter v. 5: “Fluminis impetus…” intelligendum de baptismate Christi.

Ps 65 loquitur de transitu per mare et flumen, quod in sensu cristiano est typus baptismi.

32) II. Vesperae sicut die 6 Ianuarii.

[…]

De tituli psalmorum

[…]

28. Hymnus: Epiphania Dei in tempestati bus

+ De baptismo Christi in Iordane.[2]

Infine riportiamo una catechesi, sul salmo 28, di Papa Giovanni Paolo II. Non ci era nota questa particolare denominazione del salmo “dei sette tuoni”, anche se l’antifona, sottolineando il versetto 3, qualcosa ci doveva pur suggerire!

GIOVANNI PAOLO II, UDIENZA GENERALE Mercoledì 13 giugno 2001

 1. Alcuni studiosi considerano il Salmo 28 che abbiamo appena sentito recitare come uno dei testi più antichi del Salterio. Potente è l’immagine che lo sostiene nel suo svolgersi poetico e orante: siamo, infatti, di fronte al dispiegarsi progressivo di una tempesta. Essa è scandita nell’originale ebraico da un vocabolo, qol, che significa contemporaneamente “voce” e “tuono”. Perciò alcuni commentatori intitolano il nostro testo “il Salmo dei sette tuoni”,dal numero di volte in cui risuona in esso quel vocabolo. In effetti si può dire che il Salmista concepisce il tuono come un simbolo della voce divina che, col suo mistero trascendente e irraggiungibile, irrompe nella realtà creata fino a sconvolgerla ed impaurirla, ma che nel suo intimo significato è parola di pace e di armonia. Il pensiero va qui al capitolo 12 del IV Vangelo, ove la voce che risponde a Gesù dal cielo viene percepita dalla folla come un tuono (cfr Gv 12,28-29).

Proponendo il Salmo 28 per la preghiera delle Lodi, la Liturgia delle Ore ci invita ad assumere un atteggiamento di profonda e fiduciosa adorazione della Maestà divina.

2. Due sono i momenti e i luoghi nei quali il cantore biblico ci conduce. Al centro (vv. 3-9) c’è la rappresentazione della tempesta che si scatena a partire dalla “immensità delle acque” del Mediterraneo. Le acque marine, agli occhi dell’uomo della Bibbia, incarnano il caos che attenta alla bellezza e allo splendore della creazione, fino a corroderla, distruggerla e abbatterla. Si ha, quindi, nell’osservazione della tempesta che infuria, la scoperta dell’immensa potenza di Dio. L’orante vede l’uragano spostarsi verso il nord e piombare sulla terraferma. I cedri altissimi del monte Libano e del monte Sirion, chiamato altre volte Hermon, sono schiantati dalle folgori e sembrano balzare sotto i tuoni come animali impauriti. Gli scoppi si fanno vicini, attraversano tutta la Terra Santa e scendono fino a sud, nelle steppe desertiche di Kades.

3. Dopo questo quadro di forte movimento e tensione siamo invitati a contemplare, per contrasto, un’altra scena che è raffigurata in apertura e alla fine del Salmo (vv.1-2 e 9b-11). Allo sgomento e alla paura si contrappone ora la glorificazione adorante di Dio nel tempio di Sion.

C’è quasi un canale di comunicazione che unisce il santuario di Gerusalemme e il santuario celeste: in entrambi questi ambiti sacri c’è pace e s’innalza la lode alla gloria divina. Al rumore assordante dei tuoni subentra l’armonia del canto liturgico, al terrore si sostituisce la certezza della protezione divina. Dio ora appare “assiso sulla tempesta” come “re per sempre” (v. 10), cioè come il Signore e il Sovrano supremo di tutta la creazione.

4. Di fronte a questi due quadri antitetici l’orante è invitato a compiere una duplice esperienza. Innanzitutto egli deve scoprire che il mistero di Dio, espresso nel simbolo della tempesta, non può essere catturato e dominato dall’uomo. Come canta il profeta Isaia, il Signore, simile a folgore o a tempesta, irrompe nella storia seminando panico nei confronti dei perversi e degli oppressori. Sotto l’intervento del suo giudizio, gli avversari superbi sono sradicati come alberi colpiti da un uragano o come cedri frantumati dalle saette divine (cfr Is 14,7-8).

In questa luce è evidenziato ciò che un pensatore moderno (Rudolph Otto) ha qualificato come il tremendum di Dio, cioè la sua trascendenza ineffabile e la sua presenza di giudice giusto nella storia dell’umanità. Questa vanamente si illude di opporsi alla sua sovrana potenza. Anche Maria esalterà nel Magnificat questo aspetto dell’agire di Dio: “Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni” (Lc 1,51-52a).

5. Il Salmo ci presenta, però, un altro aspetto del volto di Dio, quello che si scopre nell’intimità della preghiera e nella celebrazione della liturgia. È, secondo il pensatore menzionato, il fascinosum di Dio, cioè il fascino che emana dalla sua grazia, il mistero dell’amore che si effonde sul fedele, la sicurezza serena della benedizione riservata al giusto. Perfino davanti al caos del male, alle tempeste della storia, e alla stessa collera della giustizia divina, l’orante si sente in pace, avvolto dal manto di protezione che la Provvidenza offre a chi loda Dio e segue le sue vie. Attraverso la preghiera si conosce che il vero desiderio del Signore consiste nel donare pace.

Nel tempio è risanata la nostra inquietudine e cancellato il nostro terrore; noi partecipiamo alla liturgia celeste con tutti “i figli di Dio”, angeli e santi. E sulla tempesta, simile al diluvio distruttore della malvagità umana, s’inarca allora l’arcobaleno della benedizione divina, che ricorda “l’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra” (Gn 9,16).

È questo soprattutto il messaggio che emerge nella rilettura “cristiana” del Salmo. Se i sette ‘tuoni’ del nostro Salmo rappresentano la voce di Dio nel cosmo, l’espressione più alta di questa voce è quella con cui il Padre, nella teofania del Battesimo di Gesù, ha rivelato l’identità più profonda di lui quale “Figlio prediletto” (Mc 1,11 e par.). Scrive san Basilio: “Forse, e più misticamente, ‘la voce del Signore sulle acque’ echeggiò quando venne una voce dall’alto al battesimo di Gesù e disse: Questi è il Figlio mio diletto. Allora infatti il Signore aleggiava su molte acque, santificandole con il battesimo. Il Dio della gloria tuonò dall’alto con l’alta voce della sua testimonianza…E puoi anche intendere per ‘tuono’ quel mutamento che, dopo il battesimo, si compie attraverso la grande ‘voce’ del Vangelo” (Omelie sui Salmi: PG 30,359).


[2] Consilium ad exsequendam Constitutionem de sacra Liturgia, Coetus a studiis III (De psalmis distribuendis), Schema 244 (De Breviario 59) (20/09/1967), 7.19.

“Historia de la salvacion en acto…”: un contributo dalla Spagna.

Con il gentile consenso dell’autore, offriamo una nostra traduzione italiana di un paragrafo tratto dall’articolo di Félix Maria Arocena Solano , apparso sulla rivista spagnola Phase 53(2013) 483-493. In un numero della rivista dedicato alla commemorazione dei 50 anni della Costituzione conciliare sulla liturgia, nel suo contributo l’autore descrive i sei altiora principia contenuti in Sacrosanctum Concilium e che costituiscono le basi di una teologia liturgica. Essi sono: il mistero pasquale come centro della celebrazione liturgica, la manifestazione della storia della salvezza nella liturgia, riti e parole come elementi costitutivi del culto, l’importanza della Parola di Dio nella celebrazione, le caratteristiche dell’assemblea liturgica e la dimensione escatologica della liturgia.

Per la chiarezza dell’esposizione e per l’affinità con lo spirito di questo blog, particolarmente interessante è il paragrafo secondo. Tutto l’articolo sarebbe da ritenere, ma non possiamo riprodurlo nella sua integralità.

2. Storia della salvezza in atto. La Costituzione, per descrivere la natura della liturgia, non è partita dalla nozione di culto, come era consuetudine farsi comunemente e come lo aveva fatto lo stesso Pio XII nella Mediator Dei. La Sacrosanctum Concilium fissò il suo punto di partenza nella nozione di historia salutis. Autori come L Beauduin (†1960), O. Casel (†1948), R. Guardini (†1968) e C. Vagaggini (†1999) già avevano messo in relazione la liturgia con la storia della salvezza. Il Concilio lo fece con decisione, come risulta dalla lettura congiunta dei paragrafi 5 e 6 della Sacrosanctum Concilium. Dopo aver descritto la storia della salvezza, centrata nel mistero pasquale, fa una presentazione della liturgia come attualizzazione sacramentale di questa stessa storia. Esiste, quindi, un nesso logico fra questi 2 paragrafi: la storia della salvezza, descritta nel primo, è il contenuto attuale della liturgia. La liturgia, conseguentemente, è parte della storia della salvezza; è una parte essenziale dell’opera della redenzione; è un momento della storia della salvezza; la liturgia è storia della salvezza in atto.

Secondo questa prospettiva, la liturgia non è solo e primariamente il culto che l’uomo tributa a Dio; giacché, in questo caso, sarebbe solamente un’azione umana, esercizio della virtù di religione. La liturgia è principalmente azione di Dio, azione salvifica e divina, sulla linea di quelle “opere prodigiose” che Dio ha compiuto lungo il tempo delle promesse e che culminarono nel mistero pasquale di suo Figlio. Si è passati da una nozione razionale – statica ed essenziali sta – ad una concezione storica e dinamica della liturgia. Così, la liturgia, come evento salvifico, presenta la medesima configurazione che possiedono tutti gli avvenimenti della historia salutis: proposta di salvezza da parte di Dio e accettazione da parte degli uomini. Questa focalizzazione della liturgia permette inoltre di scoprire in essa un doppio versante: discendente (catabatico), di santificazione dell’uomo da parte di Dio, e ascendente (anabatico), di lode di Dio da parte dell’uomo. Questa bipolarità è essenziale agli eventi di salvezza e, pertanto, anche alla liturgia.

Inoltre, non dobbiamo dimenticare che la salvezza avviene in modo sacramentale. In effetti, nella storia della salvezza, in ciascuna delle sue tappe, “tutto quanto accade, accade in forma di sacramento” (Origene, Omelie sulla Genesi 9,1: in sacramentum fiunt omnia quae fiunt). Questo recupero della sacra mentalità della storia della salvezza rappresenta un punto importante verso la teologia della liturgia. Tutte le realtà relative all’economia della salvezza, in tutte le sue fasi storiche, presentano questa struttura simbolico-sacramentale, e quando osserviamo da questa dimensione, la historia salutis appare come una realtà omogenea. Percepire questa natura sacramentale della storia della salvezza è un passo decisivo per una profonda comprensione di ciò che sono i sacramenti della Chiesa: ecco come l’ambito rituale si integra in modo organico nel fondamento stesso della divina rivelazione e della fede. (486-487)

I salmi dell’Epifania: di tesori si tratta!

Abbiamo già avuto qualche occasione di gettare uno sguardo ai lavori del gruppo di studio che curò la nuova distribuzione dei Salmi nella Liturgia delle Ore riformata dopo il Vaticano II. Continuiamo con queste brevissime incursioni, assai parziali e allo stesso tempo, crediamo, interessanti, nei lavori del Consilium. Non solo per un’erudizione storica (si può, fra l’altro, mostrare come non sia affatto vero, almeno non si può dirlo sempre e genericamente, che si volle creare ex nihilo una nuova liturgia, spazzando via qualsiasi dato precedente) o per tecnicismo, ma perché siamo convinti che tali approfondimenti possano contribuire sia ad una recitazione meno routinaria del salterio (mero compimento del “pensum”) sia ad una sempre più profonda approssimazione al senso pieno della Scrittura e della Liturgia stessa, che nasce da una preghiera non solo materiale ma anche contemplativa. Conoscere le motivazioni e il senso della presenza di quei particolari salmi nelle Ore dell’Ufficio può contribuire a tale scopo.

Vediamo, dunque: anche per la Solennità dell’Epifania si adottò un criterio di scelta di alcuni salmi del tutto particolari – ossia si interrompe la distribuzione classica strutturata in quattro settimane – , salmi che per contenuto, genere letterario e attestazione nella tradizione venivano considerati più adatti. La relazione presentata dai periti, presentata nel precedente post [ https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2013/12/27/la-distribuzione-dei-salmi-nellufficiatura-dellottava-di-natale-la-tradizione-rielaborata-senza-perdere-nulla/ ] riporta la proposta dettagliata anche per la tale festività. Eccola:

Epiphania Domini

I. Vesperae

Ps 116, qui invitat “omnes gentes” ad laudandum Dominum.

Ps 134, Laudat Dominum, “quia magnus est prae omnibus diis” gentium.

1 Tim 3,16 de apparitione Domini.

Officium lectionis

Sollemnitas Epiphania quodammodo est festum Christi regis. Qua de causa eliguntur psalmi sequentes: (Ps 94 in invitatorio)

Ps 71 occurrens in Introitu et Offertorio Missae. De magis intelliguntur vv. 10-11: “Reges Tharsis et insulae..” et v. 15: “Vivet et dabunt ei de auro Arabiae”. Cf. etiam lectionem Missae Is 60,1-6.

Ps 95 agit de Deo rege et vv. 8b-9a intelliguntur de Magis: “Tollite hostias…”

Ps 96 Ps. de Deo rege interpretatur de Christo rege v. 6. “Adnuntiaverunt caeli.. et viderunt omnes populi gloriam eius” memorat stellam Magorum.

II. Vesperae

Ps 109 hodie specialiter aptus est, quia est psalmus de rege (Messia)

Ps 111 propter v. 4: “Exortum est in tenebris lumen rectis corde”

Apoc 15,3-4 propter verba: “Omnes gentes venient et adorabunt…”

Alcune note:

– Notiamo che nella stesura definitiva del salterio attuale, per i primi Vespri venne poi omesso il Sal 116 proposto dallo schema, e si scelse di pregare il Sal 134(135) diviso in due sezioni.

– A proposito del Salmo 71(72), oltre a quanto viene annotato nello schema, possiamo aggiungere che l’antifona d’Introito del 23 dicembre univa il versetto 17 con la profezia di Isaia: “Nascetur nobis parvolus, et vocabitur Deus, Fortis; in ipso benedicentur omnes tribus terrae”. E’ del tutto tradizionale per questa Solennità.

– A proposito del Salmo 95 (96), l’antifona: “Adorate Dominum in aula sancta eius” si riferisce al v. 8, secondo la versione della Volgata: “Tollite ostia, et introite in atria eius: adorate Dominum in atrio sancto eius”. L’italiano traduce nell’antifona: “Adorate il Signore nel suo tempio santo”, mentre la versione del salmo viene resa “Portate offerte ed entrate nei suoi atri, prostratevi al Signore in sacri ornamenti”.

– Per l’Ora Media sono stati scelti dei salmi fra quelli che una tradizione costante aveva assegnato all’Ufficio vigilare dell’Epifania: vi ritroviamo i Sal 46(47), 85(86) e 97(98). Possiamo ipotizzare il il criterio di scelta di tali salmi – al di là di singoli versetti – nel loro comune tema della chiamata delle genti alla conoscenza e alla lode del Dio vero, di cui si celebra la rivelazione universale. E’ da ricordare che per Leone Magno (cf. la lettura patristica del giorno) l’adorazione dei Magi è la festa delle nostre primizie e l’inizio della vocazione dei popoli pagani (cf. anche il Sermone XIII, Sull’Epifania 2,4: “Riconosciamo dunque, carissimi, nei Magi adoratori di Cristo le primizie della nostra vocazione e della nostra fede, e con l’animo ricolmo di gioia celebriamo gli inizi della nostra beata speranza. Perché da allora ebbe inizio il nostro ingresso nell’eredità eterna, da allora ci furono svelati i misteri della Scrittura che parlano di Cristo, e la verità che i Giudei nella loro cecità non accolsero, diffuse la sua luce su tutti i popoli – Agnoscamus ergo dilectissimi, in magis adoratoribus Christi vocationis nostrae fideique primitiae, et exultantibus animis beatae spei initia celebremus. Exinde enim in aeternam haereditatem coepimus introire, exinde nobis Christum eloquenti Scripturarum arcana patuerunt, et veritas quam Iudaeorum obcaecatio non recepit, omnibus nationibus suum lumen invexit”).

– Nello Schema si afferma un certo legame dell’Epifania con la regalità di Cristo (“Sollemnitas Epiphania quodammodo est festum Christi regis”). In effetti, il salmo 71 sarà assegnato anche alla Domenica di Cristo Re dell’Universo, all’Ufficio delle Letture. Un’altra occorrenza ci aiuta a precisare, poi, il senso di tale regalità: il Sal 95, lo si trova anche nella Festa dell’Esaltazione della Croce, con un antifona particolare: “O crux benedicta, quae sola fuisti digna portare Regem caelorum et Dominum”.

Vocazione dei Gentili, Regalità Universale, Annuncio della Croce (non dimentichiamo la mirra portata in dono dai Magi!). Tutti questi temi si intrecciano, e si illuminano a vicenda! Che ricchezza straordinaria! E tutto questo, semplicemente a partire dai salmi e dalla loro rilettura patristica e liturgica. Non è poi così tanto povera, dunque, la liturgia nella forma ordinaria, da sentire la necessità di ricorrere a tutti i costi alla forma straodinaria!

Infine, lasciamo la parola a una catechesi di Giovanni Paolo II, che in una delle sue catechesi del mercoledì commentò il salmo 95(96) e alla straordinaria meditazione offerta da Benedetto XVI alle centinaia di migliaia di giovani, che a Colonia, presso le reliquie dei santi Magi, accorsero da tutto il mondo.

4. Ma eccoci al secondo quadro, quello che si apre con la proclamazione della regalità del Signore (cfr vv. 10-13). Ora a cantare è l’universo, anche nei suoi elementi più misteriosi e oscuri, come il mare secondo l’antica concezione biblica: «Gioiscano i cieli, esulti la terra, frema il mare e quanto racchiude; esultino i campi e quanto contengono, si rallegrino gli alberi della foresta davanti al Signore che viene, perché viene a giudicare la terra» (vv. 11-13). Come dirà san Paolo, anche la natura, insieme con l’uomo, «attende con impazienza… di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,19.21). E a questo punto vorremmo lasciare spazio alla rilettura cristiana di questo Salmo compiuta dai Padri della Chiesa, che in esso hanno visto una prefigurazione dell’Incarnazione e della Crocifissione, segno della paradossale regalità di Cristo. 5. Così, all’inizio del discorso pronunciato a Costantinopoli nel Natale del 379 o del 380, san Gregorio di Nazianzo riprende alcune espressioni del Salmo 95: «Cristo nasce: glorificatelo! Cristo scende dal cielo: andategli incontro! Cristo è sulla terra: levatevi! “Cantate al Signore, tutta la terra” (v. 1), e, per riunire insieme i due concetti, “si rallegrino i cieli ed esulti la terra” (v. 11) a causa di colui che è celeste ma poi è divenuto terrestre» (Omelie sulla natività, Discorso 38, 1, Roma 1983, p. 44). In tal modo il mistero della regalità divina si manifesta nell’Incarnazione. Anzi, colui che regna «diventando terrestre», regna precisamente nell’umiliazione sulla Croce. È significativo che molti antichi leggessero il v. 10 di questo Salmo con una suggestiva integrazione cristologica: «Il Signore regnò dal legno». Per questo già la Lettera di Barnaba insegnava che «il regno di Gesù è sul legno» (VIII, 5: I Padri Apostolici, Roma 1984, p. 198) e il martire san Giustino, citando quasi integralmente il Salmo nella sua Prima Apologia, concludeva invitando tutti i popoli a gioire perché «il Signore regnò dal legno» della Croce (Gli apologeti greci, Roma 1986, p. 121). In questo terreno è fiorito l’inno del poeta cristiano Venanzio Fortunato, Vexilla regis, in cui si esalta Cristo che regna dall’alto della Croce, trono di amore e non di dominio: Regnavit a ligno Deus. Gesù, infatti, già durante la sua esistenza terrena aveva ammonito: «Chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,43-45).

Giovanni Paolo II, Catechesi del Mercoledì (18/09/2002)

Il nuovo Re, davanti al quale si erano prostrati in adorazione, si differenziava molto dalla loro attesa. Così dovevano imparare che Dio è diverso da come noi di solito lo immaginiamo. Qui cominciò il loro cammino interiore. Cominciò nello stesso momento in cui si prostrarono davanti a questo bambino e lo riconobbero come il Re promesso. Ma questi gesti gioiosi essi dovevano ancora raggiungerli interiormente.

Dovevano cambiare la loro idea sul potere, su Dio e sull’uomo e, facendo questo, dovevano anche cambiare se stessi. Ora vedevano: il potere di Dio è diverso dal potere dei potenti del mondo. Il modo di agire di Dio è diverso da come noi lo immaginiamo e da come vorremmo imporlo anche a Lui. Dio in questo mondo non entra in concorrenza con le forme terrene del potere. Non contrappone le sue divisioni ad altre divisioni. A Gesù, nell’Orto degli ulivi, Dio non manda dodici legioni di angeli per aiutarlo (cfr Mt 26, 53). Egli contrappone al potere rumoroso e prepotente di questo mondo il potere inerme dell’amore, che sulla Croce – e poi sempre di nuovo nel corso della storia – soccombe, e tuttavia costituisce la cosa nuova, divina che poi si oppone all’ingiustizia e instaura il Regno di Dio. Dio è diverso – è questo che ora riconoscono. E ciò significa che ora essi stessi devono diventare diversi, devono imparare lo stile di Dio.

Erano venuti per mettersi a servizio di questo Re, per modellare la loro regalità sulla sua. Era questo il significato del loro gesto di ossequio, della loro adorazione. Di essa facevano parte anche i regali – oro, incenso e mirra – doni che si offrivano a un Re ritenuto divino. L’adorazione ha un contenuto e comporta anche un dono. Volendo con il gesto dell’adorazione riconoscere questo bambino come il loro Re al cui servizio intendevano mettere il proprio potere e le proprie possibilità, gli uomini provenienti dall’Oriente seguivano senz’altro la traccia giusta. Servendo e seguendo Lui, volevano insieme con Lui servire la causa della giustizia e del bene nel mondo. E in questo avevano ragione. Ora però imparano che ciò non può essere realizzato semplicemente per mezzo di comandi e dall’alto di un trono. Ora imparano che devono donare se stessi – un dono minore di questo non basta per questo Re. Ora imparano che la loro vita deve conformarsi a questo modo divino di esercitare il potere, a questo modo d’essere di Dio stesso. Devono diventare uomini della verità, del diritto, della bontà, del perdono, della misericordia. Non domanderanno più: Questo a che cosa mi serve? Dovranno invece domandare: Con che cosa servo io la presenza di Dio nel mondo? Devono imparare a perdere se stessi e proprio così a trovare se stessi. Andando via da Gerusalemme, devono rimanere sulle orme del vero Re, al seguito di Gesù.

Benedetto XVI, Discorso nella Veglia di preghiera sulla Spianata di Marienfeld (20/08/2005)

“Lex et prophetia veritas facta est”: declinazioni varie, ma un unico principio. Da riscoprire, di nuovo.

“La legge e la profezia si sono fatte verità”[1]: così Leone Magno, in uno dei suoi sermoni sul Natale, declinava il rapporto fra Antico Testamento e Nuovo, non tanto e non solo per argomentare teologicamente sul valore e sull’interpretazione della sacra Scrittura, ma per aprire ai suoi fedeli la via per una piena partecipazione ai misteri celebrati nella liturgia del Natale.

E’ interessante ritrovare lo stessa contenuto – che del resto è essenziale sia ad una corretta ermeneutica biblica sia ad una profonda ed interiore vita liturgica – in ambiti e linguaggi diversi: offriamo alcune strofe di un Inno sul Natale di sant’Efrem e, a seguire, una riflessione di Benedetto XVI sui vangeli dell’infanzia. Il lirismo poetico tipico delle liturgie delle antiche Chiese d’Oriente e la riflessione pacata e profonda del teologo Joseph Ratzinger convergono, da diverse impostazioni e metodologie, nel condurci al quel soave senso della Scrittura, che il Concilio ha inteso promuovere, come principio di vera riforma liturgica (SC 24). Ma su quest’ultimo punto occorrerà ritornare con più completezza in un altro momento. Per ora gustiamoci questi brani:

 «Questo giorno ha fatto gioire, Signore,

i re, i sacerdoti e i profeti,

poiché in esso si compirono le loro parole.

                                                                       Gloria a Te, figlio del nostro creatore.

La vergine infatti ha partorito

l’Emmanuele a Betlemme.

La parola proferita da Isaia

è divenuta oggi realtà.

Là è nato colui

che nel Libro enumera i popoli (Sal 87,5-6).

Del salmo cantato da Davide

c’è oggi il compimento.

La parola pronunciata da Michea

oggi avviene davvero,

poiché il Pastore è uscito da Efrata

e il suo scettro pasce le anime.

Ecco una stella da Giacobbe,

è sorto un capo da Israele.

Della profezia proferita da Balaam

c’è oggi la spiegazione.

E’ scesa la luce celata,

e si è levata la sua bellezza da un corpo.

Il Levante di cui si dice in Zaccaria

brilla oggi a Betlemme.

Si è levata la luce del regno

in Efrata, città dei re.

Delle benedizione pronunciata da Giacobbe

c’è oggi il compimento.

Oggi è nato un bimbo,

il suo nome è Meraviglia.

E’ proprio una meraviglia di Dio

che si sia manifestato come un bambino.

E’ salito come una radice davanti a lui,

radice della terra assetata.

Ciò che fu detto celatamente

è avvenuto oggi manifestamente.

Sia confuso il popolo che tiene

per veritieri i profeti:

se non fosse venuto il nostro Salvatore

le loro parole sarebbero ritenute menzognere.

Benedetto il Vero venuto

dal Padre di verità.

Ha compiuto le parole dei veridici [profeti]

che si adempirono nella loro verità.

Dal tuo forziere estrarremo, mio Signore,

dai tesori delle tue Scritture,

i nomi degli antichi giusti che attesero di vedere la tua venuta.

[…]

Chi mi porterà al termine della conta

di [tutti] i giusti che attesero il Figlio,

il cui numero non può essere limitato

dalla nostra debole bocca?

Chi saprebbe glorificare

il Figlio di verità che si levò per noi,

lui che i giusti bramavano

vedere nelle loro generazioni?

[…]

E’ lo Spirito santo che in loro,

quietamente contemplando per loro

li spingeva a vedere, grazie a lui,

il salvatore che essi bramavano»[2]

 

«In Matteo, come anche in Luca, gli avvenimenti dell’infanzia di Gesù sono collegati molto strettamente, anche se in modo diverso, con parole dell’Antico Testamento. Matteo giustifica ogni volta per il lettore i nessi con corrispondenti citazioni veterotestamentarie. Luca parla degli eventi con parole dell’Antico Testamento; […] Qui si racconta una storia che spiega la Scrittura e, inversamente, ciò che la Scrittura, in molti luoghi, ha voluto dire, diventa visibile solo ora, per mezzo di questa nuova storia. E’ una narrazione che nasce totalmente dalla Parola e, tuttavia, è proprio essa a dare alla Parola quel suo pieno significato che prima non era ancora riconoscibile. La storia qui raccontata non è semplicemente un’illustrazione delle antiche parole, bensì la realtà che le parole attendevano. Questa, nelle sole parole, non era riconoscibile, ma le parole raggiungono il loro pieno significato mediante l’evento in cui esse diventano realtà. […] Matteo e Luca – ciascuno nella maniera propria – volevano non tanto raccontare delle “storie”, bensì scrivere storia, storia reale, avvenuta, certamente storia interpretata e compresa in base alla Parola di Dio. Questo significa anche che non c’era intenzione di raccontare in modo completo, ma di annotare ciò che, alla luce della Parola e per la comunità nascente della fede, appariva importante. I racconti dell’infanzia sono storia interpretata e, a partire dall’interpretazione, scritta e condensata. Tra la parola interpretativa di Dio e la storia interpretata c’è un reciproco rapporto: la Parola di Dio insegna che gli eventi contengono “storia della salvezza” che riguarda tutti. Gli eventi stessi, però, dischiudono da parte loro la Parola di Dio e fanno ora riconoscere la realtà concreta che si cela nei singoli testi. […] La storiografia del cristianesimo delle origini consiste proprio anche nell’assegnare il loro protagonista a queste parole “in attesa”. Da questa correlazione tra la parola “in attesa” e il riconoscimento del suo protagonista finalmente apparso, si è sviluppata l’esegesi tipicamente cristiana, che è nuova eppure rimane totalmente fedele all’originaria parola della Scrittura. […] tutto ciò che qui viene detto e avviene è pervaso da parole della Scrittura, così come abbiamo rilevato poc’anzi. Soltanto mediante i nuovi eventi le parole acquistano il loro senso pieno e, viceversa, gli eventi posseggono un significato permanente, perché nascono dalla Parola, sono Parola adempiuta»[3].


[1] La frase completa è: “Si è compiuto alla fine dei secoli ciò che era stabilito prima dei tempi eterni, e alla presenza delle realtà, scomparendo ormai il valore delle figure, la legge e la profezia si sono fatte verità (Impletum est in fine saeculorum quod erat ante tempora aeterna dispositum, et sub praesentia rerum signis cessantibus figurarum, lex et prophetia veritas facta est).

[2] Efrem il Siro, Inni sulla Natività e sull’Epifania, Introduzione, traduzione e note di I. De Francesco, Milano 2003.

[3] J. Ratzinger Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù, Milano – Città del Vaticano 2012, 23-27.