Nel caso dei formulari della Messa (eucologia) della prima domenica di Avvento, si deve riconoscere la validità di alcune critiche mosse alla traduzione italiana da L. Bianchi, Liturgia. Memoria o istruzioni per l’uso?, Casale Monferrato 2002. Il suo studio, critico nei confronti della riforma liturgica, appare talvolta esageratamente polemico e puntiglioso, tuttavia alcune osservazioni colgono nel segno. “Verbi che indicano uno stato o una semplice azione naturale (‘guardare’, ‘riconoscere’, ‘permanere’, ‘seguire’) sono talvolta tradotti con espressioni indicanti ‘tensione’, ‘ricerca’, ‘sforzo’. Numerosi sono gli accenni all’impegnarsi e alla ‘coerenza di vita’, termini non presenti, peraltro, nel testo latino. Questo fenomeno è diffuso in maniera pressoché uniforme soprattutto nelle orazioni…, ed è specchio di una mentalità più presa da una preoccupazione sociale, attivistica o moralistica che semplicemente aperta al riconoscimento di una fatto accaduto (mentre ‘riconoscere’ ed ‘aderire’ indicano una naturale posizione del cuore e sono azioni in rapporto con una persona, ‘impegno’ e ‘coerenza’ danno normalmente, a chi ascolta, l’idea di uno sforzo e di azioni in rapporto ad un ideale non immediatamente concreto)” (25). La preghiera dopo la comunione, dicevamo, è un buon esempio di questa sbavatura, ancora più evidente nella prima versione italiana del 1970. Vediamo:
Testo tipico:
Prosint nobis, quaesumus, Domine, frequentata mysteria
quibus nos, inter praetereuntia ambulantes,
iam nunc istituis amare caelestia et inhaerere mansuris.
Trad. Messale 1970: In questo mondo che passa ci sostenga, Signore, il sacramento che abbiamo celebrato e ci insegni sin d’ora ad amare le cose del cielo e a cercare i valori perenni. (Valori!!??)
Trad. Messale 1983: La partecipazione a questo sacramento, che a noi pellegrini sulla terra rivela il senso cristiano della vita (?!), ci sostenga, Signore, nel nostro cammino e ci guidi ai beni eterni.
Possibile traduzione più letterale: Ci giovino, Signore, ti preghiamo, i misteri che abbiamo celebrato, con i quali ci prepari fin d’ora, mentre camminiamo tra cose che passano, ad amare le realtà celesti e ad aderire a quelle che restano.
L’odierna preghiera è una riformulazione di due formulari del Sacramentario Veronense:
1053: Prosint nobis, Domine, frequentata mysteria, quae nos a cupiditatibus terrena expediant, et instituant amare caelestia.
173: Da nobis, Domine, non terrena sapere, sed amare caelestia, et inter praetereuntia constitutos iam nunc inhaerere mansuris.
Mentre il primo formulario (1053) è collocato in una sezione piuttosto generica – anche se è interessante leggerlo contestualmente alle altre preghiere (forse ci torneremo in un prossimo post) – il secondo (173) è incastonato nelle preghiere per l’Ascensione del Signore. Il contesto di quest’ultimo, pertanto, fornisce dati importanti per una corretta interpretazione e traduzioni dei sintagmi in questione.
Bianchi, giustamente, stigmatizza la resa italiana: “La frase inhaerere mansuris (letteralmente ‘rimanere attaccato a ciò che è perenne’) è tradotta con ‘cercare i valori perenni (traduz. Mess. 1970, ndr) e con ‘ci guidi ai beni eterni’. Il verbo inhaerere esprime però un concetto di stato (‘rimanere attaccato’, ‘permanere’), non di moto (‘cercare’ e simili)” (26).
In effetti, quel ‘rimanere attaccato’, ‘aderire’, nel contesto originale della fonte ha una sfumatura tutta particolare, che riecheggia una marcata cristologia, tipica di san Leone Magno. In un formulario precedente, il n. 170, si parla sì di “intentio” – tensione, sforzo, attenzione, sforzo, e quindi forse ricerca – , ma è ben chiaro che è Cristo l’oggetto: “là si diriga l’intentio dei tuoi figli, dove nel tuo Unigenito è con te la nostra sostanza”. Alle cose che rimangono, che permangono fra le vicende passeggere e volubili, si può rimanere attaccati, perché un mirabile commercio ha definitivamente unito l’uomo fragile e mutevole alla natura divina, e l’umanità, in Cristo, già è entrata nel cielo (…ut illuc filiorum tuorum dirigatur intentio, quo in tuo Unigenito tecum est nostra substantia).
Che il Messale romano abbia ripreso questo formulario dell’Ascensione e lo abbia riferito alla prima domenica di Avvento non è fuori luogo, visto il carattere escatologico della prima parte di questo tempo liturgico. In effetti, sempre nella sezione del Veronense cui si è appena accennato, nel formulario 171, si trova anche l’espressione ‘secundo adventu’.
I beni eterni, possiamo dire, non sono entità astratte, idee o valori morali, ma si riferiscono alla Persona di Cristo. “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù – quae sursum sunt quaerite – dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra – quae sursum sunt sapite, non quae super terram” (Col 3,1-2). O, come proclama la seconda lettura della messa, “Rivestitevi del Signore Gesù e non lasciatevi prendere dai desideri della carne (lett. non ponete attenzione ai desideri della carne)” (Rom 13,14).
E questa realtà non è vissuta solamente in modo pedagogico o moraleggiante, la liturgia non è solo didattica o istruzione, ma comunicazione di grazia effettiva. L’originale latino ‘instituis’ (instituo, ěre) significa sì istruire, ammaestrare, educare, ma come significato particolare di un più immediato senso di preparare, disporre, cominciare, intraprendere. O, ancora, piantare, porre dentro.
La partecipazione alla celebrazione eucaristica è certamente fonte di meditazione e momento di riflessione e di re-impostazione della vita, come lo è d’altronde il tempo di Avvento; ma non si tratta di un pensiero riflessivo autonomo o prodotto solamente dall’uomo. Esso è proiettato, spinto, indotto dalla grazia operante nei santi misteri. Siamo invitati a prepararci al secondo Avvento di Cristo, proprio perché il primo si è compiuto storicamente nell’Incarnazione e si è rinnovato sacramentalmente nell’Eucaristia, e con esso nella fede si è comunicato.
P.S. Può essere utile vedere come traducono alcuni altri messali:
– Father, may our communion teach us to love heaven. May its promise and hope guide our way on earth.
– Fais fructifier en nous, Seigneur, l’eucharistie qui nous a rassemblés: c’est par elle que tu forms dès maintenant, à traves la vie de ce monde, l’amour dont nous t’aimerons éternellement.
– Aproveite-nos, ó Deus, a partipaçao nos vossos mistérios. Fazei que eles nos ajudem a amar desde agora o que é do céu, caminhando entre as coisas que passam, abraçar ad que não passam.
Cosa dire? Innanzitutto la prima cosa che da sottolineare è che non vorrei assolutamente che in questo blog si creasse un clima di polemica sterile e infruttuoso e, ancora più da evitare, irriverente e offensivo. Quello che dirò, quindi, non vuole assolutamente mancare di rispetto verso la persona.
Detto questo, anche dopo aver letto l’articolo di I. Biffi segnalato dal Gagliardi (si può trovare qui: http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/commenti/2011/161q01b1.html ) non si riesce a capire il nesso logico che lega la citazione del passo biblico con le considerazioni che la seguono: “magari si incontra la presenza del mistero di Dio molto meglio nel sussurro di una voce che celebra degnamente all’altare”. Che si diano celebrazioni in cui ci siano “grandi luci colorate”, “forti rumori di tamburi”, così come ci siano “celebrazioni gridate” è assolutamente disdicevole e da correggere, qualora si verificassero tali abusi.
Ma cosa intende affermare l’autore? Che significa questa associazione fra la teofania ad Elia e il sussurro di una voce che celebra degnamente all’altare? Quand’è che il sacerdote sussurra all’altare? L’autore non lo dice esplicitamente, ma credo che, considerato il senso generale del saggio, qui ci si riferisca alla preghiera del Canone recitata a bassa voce. E che ne si voglia insinuare una maggiore consonanza con l’essenza della liturgia.
Che si possa leggere una pagina della Scrittura in senso allegorico nessuno lo nega. Ma si ribadisce lo stupore per un’operazione curiosa: chiamare esegesi liturgica tale processo interpretativo. Sarebbe interessante, qui adesso non lo si può fare, studiare la dinamica che ha portato a silenziare il celebrante all’altare. Ci può essere un influsso di 1Re 19,11-14 su questa evoluzione? L’autore afferma che “Simile esegesi liturgica è sempre stata operata ed ha avuto un influsso enorme sui riti”. Si può dimostrare l’associazione fra la teofania ad Elia e il silenzio all’altare? Portare ad appoggio di questa tesi l’articolo di I. Biffi non pare un’operazione efficace, perchè lì non si parla di ritualità della celebrazion eucaristica, ma di considerazioni a carattere più spirituale: “se Dio si rivela in questo vento lieve, vuol dire che ‘egli non si trova nello spirito della superbia, o nell’agitazione dell’impazienza, o nel fuoco della cupidigia o della concupiscenza carnale, bensì nella quiete di una coscienza serena’.”
Per finire, viene in mente quanto afferma S. Giustino, nella sua descrizione della celebrazione eucaristica: “Allora colui che presiede formula la preghiera di lode e di ringraziamento con tutto il fervore – quantum potest / totis viribus – e il popolo acclama: Amen!” (Prima Apologia, 66-67). Non stride un pò questa descrizione con il “sussurro di una voce che celebra degnamente all’altare”?