In un saggio sulla liturgia, risalente a pochi anni fa, di un professore in un ateneo pontificio romano, insieme a molte cose interessanti e del tutto condivisibili, troviamo alcune argomentazioni che lasciano un pochino perplessi.
Oltre ad alcuni esemplificazioni forse un tantino esageratamente drastiche [si può, ad es., argomentare contro l’accezione negativa di “rubricismo” portando come conseguenza di tale discredito le “messe inculturate in base ai cibi nazionali: celebrate con wurstel e birra, o con riso e saké, o persino con hot dog e coca-cola, anziché con pane e vino”? E’ davvero così diffuso questo genere di abusi? Si possono attribuire tutti alla riforma liturgica post-conciliare?] ci pare non del tutto coerente usare la Parola di Dio a supporto di tesi prestabilite. Ammesso che tali tesi siano in se stesse corrette, stupisce la libertà con cui si prendono brani della Scrittura come testi probanti di simili ragionamenti. Oltretutto classificando questo tipo di operazione con la qualifica di “esegesi liturgica”!
L’autore sta parlando di “stupore eucaristico”, riprendendo testi magisteriali, ai quali va tutto il nostro ossequio e assenso, di Giovanni Paolo II (Ecclesia de Eucaristia) e testi dell’allora Cardinale Ratzinger, assolutamente condivisibili (espressi in contributi eterogenei, editi poi in un unico volume: la nota di riferimento non è quindi del tutto precisa): “Un parroco non è uno showman, e la liturgia non è un varietà televisivo. Se la caverà altrettanto male, qualora vorrà essere una specie di circolo ricreativo”. L’argomentazione quindi prosegue: “la liturgia eucaristica non deve emozionare, deve stupire, il che è ben diverso”. E infine, il punto topico: “Recuperare il senso del mistero, vale a dire il senso della presenza di Cristo nella liturgia, in modo particolare quella eucaristica, è il grande compito di questo nostro tempo e direi che urgentissima è la formazione dei futuri sacerdoti su questo punto. Io vorrei proporre un’esegesi liturgica di una brano dell’Antico Testamento, che credo ci possa aiutare a capire il senso del mistero della presenza. Ecco il brano biblico..”: segue la citazione di 1Re 19,11-14: la teofania al profeta Elia sull’Horeb. L’autore continua: “Vorrei far notare qui i grandi segni cosmici (vento fortissimo, terremoto e fuoco – forse un fulmine?): il Signore non è in nessuno di questi, mentre si presenta in un vento sottilissimo, un mormorio di vento leggero, come il sussurro di una bocca che parli a bassa voce. Magari possiamo fare un’esegesi liturgica, dicendo che il mistero divino non si trova lì dove ci sono grandi luci colorate, forte rumori di tamburi, o una celebrazione gridata. Magari si incontra la presenza del mistero di Dio molto meglio nel sussurro di una voce che celebra degnamente all’altare. Ma so che questa esegesi può essere un po’ arbitraria”. In che senso l’autore riconosce il limite di questa sua esegesi liturgica? “perché esiste anche un esempio opposto: quando nel Nuovo Testamento lo Spirito Santo si manifesta proprio con un vento gagliardo agli apostoli (cfr. At 2,1-4). Infatti non cito il testo del Primo Libro dei Re con valore probante, ma solo come una suggestione”.
L’autore riconosce quindi la difficoltà di derivare dal testo biblico citato un appoggio alla sua tesi riguardante del mistero della liturgia, che pare abbia a che fare con la sacralità di una lingua non comprensibile e con il silenzio o il mormorio di preghiere mormorate segretamente [più avanti nel saggio si dirà: “il canone – e la liturgia in generale – non sono annuncio e catechesi. La liturgia della parola è annuncio (le letture) e catechesi (l’omelia) e perciò deve essere chiaramente udibile. Le preghiere invece sono parole rivolte a Dio, e perciò non è necessario che siano sempre e in tutti i casi percettibili all’orecchio”!]
Neanche noi possiamo addentrarci con competenza nel campo dell’esegesi.
Ci rimane evidente, tuttavia, che quella proposta dall’autore non sia esegesi, né, a maggior ragione, esegesi liturgica. Forse esegesi liturgica significa, dopo aver compreso ciò che il testo biblico dice in sé, studiare come la liturgia lo legge (in quali contesti?), lo interpreta, lo usa e lo attualizza.
Fra l’altro, il testo citato dall’autore è monco di un’ultima parte – della quale la prima pare un’introduzione: lo scopo di quella manifestazione particolare del divino è che Elia abbia consapevolezza che nonostante la sua missione di profeta paia, apparentemente, un fallimento, in verità i piani di Dio non falliscono: Egli si è conservato un resto, ed Elia dovrà continuare il suo ministero – benché volesse restituire a Dio perfino la vita –: “Su ritorna sui tuoi passi verso il deserto di Damasco; giunto là, ungerai Cazaèl come re su Aram. Poi ungerai…” (1 Re 19,15ss).
E così Elia, il grande profeta, la cui parola “bruciava come fiaccola” (Sir 48,1), che pensava di essere rimasto solo al mondo ad amare Dio, deve correggere il suo zelo un po’ ingenuo. Tale zelo, diciamo così un po’ “inquisitore”, dovrà di nuovo essere temperato anche ai nostri giorni? Apprezziamo la sensibilità liturgica di tanti e siamo anche noi turbati da scempiaggini che talora vediamo, in termini di abusi e fraintendimenti della riforma liturgica; allo stesso tempo pensiamo sia saggio temperare lo zelo, perché talora un eccesso di zelo non è tanto peggiore degli errori che si vorrebbero stigmatizzare.
A tal proposito, è molto bello terminare questa breve nota citando un antico inno dell’ufficiatura liturgica bizantina, per il giorno della festa del profeta. L’inno risale a Romano il Melode e l’ufficiatura attuale ne riprende il proemio e la prima strofa. Di tale composizione – questa sì e a maggior titolo esegesi liturgica – se ne riportano alcune strofe finali, in cui il dialogo immaginario fra Elia e Cristo Signore giunge ad una soluzione inaspettata:
“Molto tempo era già trascorso, quando Elia conobbe la cattiveria degli uomini e meditò di dare un castigo ancora più duro. A tale vista, il Misericordioso rispose al profeta: ‘Conosco lo zelo che pratichi nel bene e so la tua buona volontà. Ma io compatisco i peccatori, quando vengono puniti oltre misura. Tu, al contrario, provi irritazione, ti senti immune da rimprovero e non riesci a rassegnarti. Io non posso rassegnarmi se anche uno soltanto sia perduto, perché sono l’unico Amico degli uomini’.
In seguito, quando rilevò l’umore acre di lui nei confronti degli uomini, il Signore fece propria la sorte di quelli e allontanò Elia dalla terra che essi abitavano, dicendo: ‘Allontanati, amico, dalla terra degli uomini; io stesso, incarnandomi, scenderò presso di loro nella mia misericordia. Tu lascia la terra e sali quassù, dal momento che non riesci a tollerare gli errori degli uomini. Ma io, che sono nel cielo, vivrò tra i peccatori e li salverò dai loro errori, io, l’unico Amico degli uomini’.
‘Se, come ho detto, profeta, non ti è possibile la convivenza con gli erranti, vieni qui, abita nel regno dei miei amici, dove non vi è posto per il peccato. Sarò io a scendere, perché posso prendere sulle mie spalle e riportare all’ovile la pecora smarrita, e gridare a quanti inciampano: Accorrete tutti, peccatori, venite a me e quietatevi, io non sono venuto per punire quanti ho creato, ma per strappare il peccatore all’empietà, io, unico Amico degli uomini”: (Romano il Melode, Inni: ed. G. Gharib, Roma 1981, 137-138.
Il saggio in questione era: M. Gagliardi, La liturgia fonte di vita. Prospettive teologiche, Verona 2009, 141-146.