Esegesi liturgica ? (!)

In un saggio sulla liturgia, risalente a pochi anni fa, di un professore in un ateneo pontificio romano, insieme a molte cose interessanti e del tutto condivisibili, troviamo alcune argomentazioni che lasciano un pochino perplessi.

Oltre ad alcuni esemplificazioni forse un tantino esageratamente drastiche [si può, ad es., argomentare contro l’accezione negativa di “rubricismo” portando come conseguenza di tale discredito le “messe inculturate in base ai cibi nazionali: celebrate con wurstel e birra, o con riso e saké, o persino con hot dog e coca-cola, anziché con pane e vino”? E’ davvero così diffuso questo genere di abusi? Si possono attribuire tutti alla riforma liturgica post-conciliare?] ci pare non del tutto coerente usare la Parola di Dio a supporto di tesi prestabilite. Ammesso che tali tesi siano in se stesse corrette, stupisce la libertà con cui si prendono brani della Scrittura come testi probanti di simili ragionamenti. Oltretutto classificando questo tipo di operazione con la qualifica di “esegesi liturgica”!

L’autore sta parlando di “stupore eucaristico”, riprendendo testi magisteriali, ai quali va tutto il nostro ossequio e assenso, di Giovanni Paolo II (Ecclesia de Eucaristia) e testi dell’allora Cardinale Ratzinger, assolutamente condivisibili (espressi in contributi eterogenei, editi poi in un unico volume: la nota di riferimento non è quindi del tutto precisa): “Un parroco non è uno showman, e la liturgia non è un varietà televisivo. Se la caverà altrettanto male, qualora vorrà essere una specie di circolo ricreativo”. L’argomentazione quindi prosegue: “la liturgia eucaristica non deve emozionare, deve stupire, il che è ben diverso”. E infine, il punto topico: “Recuperare il senso del mistero, vale a dire il senso della presenza di Cristo nella liturgia, in modo particolare quella eucaristica, è il grande compito di questo nostro tempo e direi che urgentissima è la formazione dei futuri sacerdoti su questo punto. Io vorrei proporre un’esegesi liturgica di una brano dell’Antico Testamento, che credo ci possa aiutare a capire il senso del mistero della presenza. Ecco il brano biblico..”: segue la citazione di 1Re 19,11-14: la teofania al profeta Elia sull’Horeb. L’autore continua: “Vorrei far notare qui i grandi segni cosmici (vento fortissimo, terremoto e fuoco – forse un fulmine?): il Signore non è in nessuno di questi, mentre si presenta in un vento sottilissimo, un mormorio di vento leggero, come il sussurro di una bocca che parli a bassa voce. Magari possiamo fare un’esegesi liturgica, dicendo che il mistero divino non si trova lì dove ci sono grandi luci colorate, forte rumori di tamburi, o una celebrazione gridata. Magari si incontra la presenza del mistero di Dio molto meglio nel sussurro di una voce che celebra degnamente all’altare. Ma so che questa esegesi può essere un po’ arbitraria”. In che senso l’autore riconosce il limite di questa sua esegesi liturgica? “perché esiste anche un esempio opposto: quando nel Nuovo Testamento lo Spirito Santo si manifesta proprio con un vento gagliardo agli apostoli (cfr. At 2,1-4). Infatti non cito il testo del Primo Libro dei Re con valore probante, ma solo come una suggestione”.

L’autore riconosce quindi la difficoltà di derivare dal testo biblico citato un appoggio alla sua tesi riguardante del mistero della liturgia, che pare abbia a che fare con la sacralità di una lingua non comprensibile e con il silenzio o il mormorio di preghiere mormorate segretamente [più avanti nel saggio si dirà: “il canone – e la liturgia in generale – non sono annuncio e catechesi. La liturgia della parola è annuncio (le letture) e catechesi (l’omelia) e perciò deve essere chiaramente udibile. Le preghiere invece sono parole rivolte a Dio, e perciò non è necessario che siano sempre e in tutti i casi percettibili all’orecchio”!]

Neanche noi possiamo addentrarci con competenza nel campo dell’esegesi.

Ci rimane evidente, tuttavia, che quella proposta dall’autore non sia esegesi, né, a maggior ragione, esegesi liturgica. Forse esegesi liturgica significa, dopo aver compreso ciò che il testo biblico dice in sé, studiare come la liturgia lo legge (in quali contesti?), lo interpreta, lo usa e lo attualizza.

Fra l’altro, il testo citato dall’autore è monco di un’ultima parte – della quale la prima pare un’introduzione: lo scopo di quella manifestazione particolare del divino è che Elia abbia consapevolezza che nonostante la sua missione di profeta paia, apparentemente, un fallimento, in verità i piani di Dio non falliscono: Egli si è conservato un resto, ed Elia dovrà continuare il suo ministero – benché volesse restituire a Dio perfino la vita –: “Su ritorna sui tuoi passi verso il deserto di Damasco; giunto là, ungerai Cazaèl come re su Aram. Poi ungerai…” (1 Re 19,15ss).

E così Elia, il grande profeta, la cui parola “bruciava come fiaccola” (Sir 48,1), che pensava di essere rimasto solo al mondo ad amare Dio, deve correggere il suo zelo un po’ ingenuo. Tale zelo, diciamo così un po’ “inquisitore”, dovrà di nuovo essere temperato anche ai nostri giorni? Apprezziamo la sensibilità liturgica di tanti e siamo anche noi turbati da scempiaggini che talora vediamo, in termini di abusi e fraintendimenti della riforma liturgica; allo stesso tempo pensiamo sia saggio temperare lo zelo, perché talora un eccesso di zelo non è tanto peggiore degli errori che si vorrebbero stigmatizzare.

A tal proposito, è molto bello terminare questa breve nota citando un antico inno dell’ufficiatura liturgica bizantina, per il giorno della festa del profeta. L’inno risale a Romano il Melode e l’ufficiatura attuale ne riprende il proemio e la prima strofa. Di tale composizione – questa sì e a maggior titolo esegesi liturgica – se ne riportano alcune strofe finali, in cui il dialogo immaginario fra Elia e Cristo Signore giunge ad una soluzione inaspettata:

“Molto tempo era già trascorso, quando Elia conobbe la cattiveria degli uomini e meditò di dare un castigo ancora più duro. A tale vista, il Misericordioso rispose al profeta: ‘Conosco lo zelo che pratichi nel bene e so la tua buona volontà. Ma io compatisco i peccatori, quando vengono puniti oltre misura. Tu, al contrario, provi irritazione, ti senti immune da rimprovero e non riesci a rassegnarti. Io non posso rassegnarmi se anche uno soltanto sia perduto, perché sono l’unico Amico degli uomini’.

In seguito, quando rilevò l’umore acre di lui nei confronti degli uomini, il Signore fece propria la sorte di quelli e allontanò Elia dalla terra che essi abitavano, dicendo: ‘Allontanati, amico, dalla terra degli uomini; io stesso, incarnandomi, scenderò presso di loro nella mia misericordia. Tu lascia la terra e sali quassù, dal momento che non riesci a tollerare gli errori degli uomini. Ma io, che sono nel cielo, vivrò tra i peccatori e li salverò dai loro errori, io, l’unico Amico degli uomini’.

Se, come ho detto, profeta, non ti è possibile la convivenza con gli erranti, vieni qui, abita nel regno dei miei amici, dove non vi è posto per il peccato. Sarò io a scendere, perché posso prendere sulle mie spalle e riportare all’ovile la pecora smarrita, e gridare a quanti inciampano: Accorrete tutti, peccatori, venite a me e quietatevi, io non sono venuto per punire quanti ho creato, ma per strappare il peccatore all’empietà, io, unico Amico degli uomini”: (Romano il Melode, Inni: ed. G. Gharib, Roma 1981, 137-138.

Il saggio in questione era: M. Gagliardi, La liturgia fonte di vita. Prospettive teologiche, Verona 2009, 141-146.

“..per favorire la riforma..”: un dettato conciliare forse lasciato in penombra?

In questi giorni non ho potuto aggiornare il blog come avrei voluto. Sto lavorando parecchio per scrivere alcune note sulle fasi pre-redazionali della Costituzione liturgica, e non non rimane tempo per altro. Sono costretto a riprendere quanto ho scritto qualche anno fa, che rimane però attuale…

Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, fra le norme generali che avrebbero dovuto guidare la riforma e l’incremento della stessa liturgia, affermava un principio assai chiaro:

«Massima è l’importanza della sacra Scrittura nella celebrazione liturgica. Da essa infatti vengono tratte le letture da spiegare nell’omelia e i salmi da cantare, del suo afflato e del suo spirito sono permeate le preci, le orazioni e gli inni liturgici, e da essa prendono significato le azioni e i segni. Perciò, per favorire la riforma, il progresso e l’adattamento della sacra liturgia, è necessario che venga promossa quella soave e viva conoscenza della sacra Scrittura, che è attestata dalla venerabile tradizione dei riti sia orientali sia occidentali» (SC 24).

            Se il primo dato di questo numero della SC sembra ormai acquisito, e un pieno recupero dell’importanza della Bibbia nella Liturgia è testimoniato anche dall’estesa produzione teologica a riguardo[1], la seconda indicazione di questo paragrafo della Costituzione non sembra essere stata recepita in modo similmente compiuto e radicato: nelle questioni relative alla riforma della liturgia, sia nel favorire il processo di approfondimento sia nel valutare il lavoro fin qui fatto, raramente ci si sofferma su quello che SC afferma come necessità[2]. A pochi anni dal cinquantenario dell’approvazione della SC, rimane purtroppo lecito e giustificato dubitare dell’effettiva recezione del dettato conciliare: «Non c’è forse da chiedersi se non si sia ancora una volta relegato la Parola nella penombra, invece di metterla al centro di qualunque riforma, progresso e adattamento?»[3].

Un esempio palese ed evidente di tale difficoltà lo si ha nel caso particolare dell’Ordo Paenitentiae, riformato secondo le indicazioni conciliari e pubblicato da Paolo VI nel 1974. Infatti, nel caso di questo sacramento, se da un parte il libro liturgico rinnovato presenta il più ricco e abbondante lezionario biblico di tutti i rituali dei sacramenti della riforma del Vaticano II[4], d’altra parte proprio tale lezionario pare – paradossalmente – il meno usato nelle concrete celebrazioni della penitenza, specialmente nella modalità più diffusa, quella del rito per la riconciliazione di singoli penitenti[5]. Con il nuovo Rituale della penitenza si è dunque ottemperato a quello che il Concilio auspicava, sia nel numero citato sopra, sia in un altro luogo – «In celebrationibus sacris abundantior, varior et aptior lectio sacrae Scripturae instauretur» (SC 35,1) – ma una piena recezione di tali auspici di riforma è ancora lontana dall’essere raggiunta.

in M. Felini, La Parola della riconciliazione. L’ascolto della Parola di Dio nel rituale della penitenza di Paolo VI, Roma 2013, 1-3


[1] Sia sufficiente ora segnalare solo alcuni contributi esemplificativi e rimandare alla bibliografia ivi indicata: cf. A. M. Triacca, «Bibbia e liturgia», in Liturgia, edd. D. Sartore – A. M. Triacca, C. Cibien, Cinisello Balsamo (MI) 2001, 256-283; R. De Zan, «Bibbia e Liturgia», in Scientia Liturgica. Manuale di liturgia I, Introduzione alla liturgia, ed. A. J. Chupungco, Casale Monferrato (AL) 1998, 48-66. Cf. anche T. Federici, «Parola di Dio e liturgia della Chiesa nella Costituzione Sacrosanctum Concilium», N 15 (1979) 684-722.

[2] «Questa affermazione fatta dal Magistero sembra essere in qualche modo lasciata, almeno per quest’ultimo periodo, in penombra. Forse ci sono problemi più urgenti da affrontare, ma è giusto notare come negli ultimi interventi magisteriali riguardanti la riforma il progresso e l’adattamento, non sia mai stato affrontato il problema da questo punto di vista così chiaramente indicato dal Concilio: senza il gusto vivo e saporoso della Scrittura proveniente dai riti delle tradizioni orientali e occidentali non c’è riforma né progresso né adattamento. Sicuramente questa affermazione conciliare non esclude che ci siano altri elementi da tener presente come la dimensione antropologica delle problematiche, ma il fondamento è solo nella Parola»: R. De Zan, «La Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium e i suoi rapporti con la Dei Verbum», Liturgia (CAL) 41 (2007) 10. «Nella Sacrosanctum Concilium la Sacra Scrittura è stata assunta come norma e giudizio per comprendere la liturgia e riformare la sua prassi»: P. Marini, Liturgia e bellezza. Nobilis pulchritudo, Città del Vaticano 2005, 56. Si può dire che sia stato completamente recepito questo dato? Sembrerebbe che ancora non sia stato fatto tutto il possibile, e che si debba costatare che «ancora oggi la Liturgia della Parola è considerata di fatto l’ancilla – nel senso più debole del termine – la serva povera e disprezzata del percorso di riforma della liturgia e nell’itinerario celebrativo»: G. Midili, «La Chiesa proclama la Parola e lo Spirito suscita la preghiera», CeF 95 (2010) 19.

[3] De Zan, «La Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium», 13. Il paragrafo iniziava con altre domande assai interessanti: «La Liturgia sta perdendo in qualche maniera quello slancio che aveva subito dopo il Concilio? Se questo fosse vero, quali potrebbero essere i motivi? Basta affermare che certe scelte di adattamento e inculturazione quanto meno discutibili hanno costretto a interventi chiari del Magistero, frenando in qualche modo lo slancio?».

[4] I numeri 101-201 di OP riportano, fra letture dell’At, salmi responsoriali, letture del Nt e dei Vangeli, 101 brani biblici. A questa vasta gamma di letture da scegliere si possono poi aggiungere altre citazioni esplicite di testi biblici, come testi vari e formule con altre finalità (ad es. in numeri 67-71 presentano testi per invitare i penitenti alla fiducia in Dio). Cf. R. Falsini, «La liturgia della parola nelle celebrazioni sacramentali», RPL 198 (1996) 34.

 

[5] Per la situazione dell’Italia, si veda la ricerca promossa dalla Conferenza Episcopale e curata da V. Grolla, «La situazione della liturgia in Italia. Ricerca socio-religiosa», RL 69 (1982) 384-413. In particolare la pagina 402: «Da parte degli “esperti” c’è una duplice convergenza: anzitutto che era necessaria una riflessione teologica e pastorale più coraggiosa capace di rivedere tutto il quadro in cui si colloca il Rito della Riconciliazione e non solo i particolarismi celebrativi, per cui ora si avverte come il rito giaccia su un terreno teologicamente e pastoralmente incompleto con la aggravante di notevoli difficoltà culturali; in secondo luogo che nella prassi il nuovo Rito è stato quasi completamente disatteso (generalizzazione della prima forma, mantenimento della prassi precedente come modo e come luogo, estromissione della parola di Dio, mancato impegno nel far comprendere il nuovo stile della celebrazione, vanificazione della dimensione comunitaria e celebrativa della misericordia di Dio) per cui il Rito situa dei “perdonati” e non dei “convertiti”».

Domenica del fariseo e del pubblicano, in attesa dell’Angelus

Ci sarà la celebrazione per il pellegrinaggio delle Famiglie, nell’Anno della Fede, che forse concentrerà l’attenzione, e le parole, di Papa Francesco, nell’Angelus di questa domenica, XXX del Tempo Ordinario, anno C.

Siamo ugualmente in attesa di ascoltare con quali espressioni commenterà il celebre brano di vangelo. Aspettando le 12.00 di domani, che arriveranno un ora dopo, abbiamo raccolto alcuni pensieri dalla tradizione patristica e liturgica.

Tropari della liturgia bizantina:

* Studiamoci di imitare le virtù del fariseo, e di emulare l’umiltà del pubblicano,

ma detestando, in entrambi, ciò che è male:

tanto la folle temerità quanto la sozzura delle colpe.

* L’ingannatore, quando insidia i giusti, li depreda con sentimenti di vanagloria,

mentre lega i peccatori con i lacci della disperazione:

ma noi che emuliamo il pubblicano, sforziamoci di sottrarci a entrambi questi mali.

* Perfetta via di elevazione hai reso, o Cristo, l’umiltà, annientando te stesso e assumendo forma di servo,

e rifiutando la preghiera vanitosa del fariseo,

ma accogliendo come sacrificio immacolato, nell’alto dei cieli,

il gemito contrito del pubblicano;

perciò anch’io a te grido: Siimi propizio, o Dio, siimi propizio, o Salvatore, esalvami.

(Cantare la gloria del Signore. Preghiere della liturgia bizantina, ed. M. B. Artioli, Magnano (BI) 2007, 297-298.301)

Eucologia romana, dal Sacramentario Veronense

Da nobis, Domine, quaesumus, in te tota mente confidere: quoniam sicut superbis in sua virtute praesumentibus semper obsistis, ita non deseris in tua misericordia gloriantes. (Ve 540)

Concedici, o Signore, ti preghiamo, di confidare in te con tutta la mente: giacché come tu sempre resisti ai superbi che presumono nella loro virtù, così non abbandoni quanti si gloriano nella tua misericordia.

La sapienza di Isacco il Siro, secondo il quale anche i più eccellenti doni di Dio, se non sono accompagnati da qualche tribolazione, “sono una rovina per coloro che li ricevono.. Se Dio ti accorda qualche dono, persuadilo a insegnarti anche come quel dono possa farti progredire nell’umiltà..oppure supplicalo di toglierti quel dono, affinché non divenga la causa della tua rovina. Infatti non tutti sono in grado di custodire una ricchezza, senza procurare un danno a se stessi” (Isacco il Siro, Prima collezione, 58; cit. in A. Louf, L’umiltà, Magnano (BI) 2000, 44)

Benedetta continuità, 2. Oltre la zucca, l’edera e il ricino.

Lunedì 14 ottobre scorso, Papa Francesco ha tenuto la sua omelia nella messa quotidiana coniando un’espressione originale, come spesso capita. Commentando il brano di Luca 11,29-32, si è soffermato nel descrivere la “sindrome di Giona”. Quest’espressione è stata scelta come titolo riassuntivo dell’intera meditazione, nel testo offerto dall’Osservatore Romano e dal sito web della Santa Sede: non sappiamo se questa titolazione è stata scelta volutamente dall’entourage papale, o è stata scelta per l’impatto avuto in chi ha potuto ascoltare l’intera meditazione, o, semplicemente, perchè è un’espressione giornalisticamente accattivante. Comunque, il testo si può trovare a questo indirizzo: http://www.vatican.va/holy_father/francesco/cotidie/2013/it/papa-francesco-cotidie_20131014_sindrome-di-giona_it.html. Quasi 10 anni fa mi era capitato di assistere, nella chiesa della Transpontina, in Roma, ad una meditazione dell’allora cardinale J. Ratzinger sul libro di Giona. E’ davvero soprendente leggere insieme i due testi. Personalmente sono rimasto di stucco, nel constatare una davvero “benedetta” somiglianza di contenuti, pur nell’assai diverso genere letterario (si tratta di un omelia a braccio, nel caso di Papa Francesco e di una lectio divina ben preparata, nel caso del card. Ratzinger) e nelle modalità espressive tipiche e caratteristiche delle persone in questione. L’atteggiamento che Papa Francesco chiama “sindrome di Giona”, da Ratzinger viene descritto in questi termini: ” il rischio ‘dell’egoismo della salvezza’, il rischio di guardare ..dall’alto in basso e considerarci automaticamente giusti”. Anche per il card. Ratzinger la verità e l’autenticità della fede sta nell’equilibrio delicato fra giustizia e misericordia: “Crediamo veramente? Non soltanto in teoria, ma in modo tale che la fede diventi fondamento della nostra vita, in modo tale che lasciamo la nostra vita nelle mani di Dio? E rimanere in Dio significa rimanere nella sua bontà: questo è il nocciolo del credere. Non temere la sua bontà – non temere che egli potrebbe essere troppo buono con gli altri cosicché la mia fede non avrebbe valore; rimanere nella sua bontà, averne parte: questo è il segno della fede. Noi cadiamo sempre nella tentazione del fratello maggiore o dell’operaio della prima ora: crediamo che la fede abbia valore solo se gli altri hanno di meno. Ma pensiamo che sia più bello vivere nell’infedeltà e nella sua apparenza di verità piuttosto che stare nella casa del Padre? La fede è per noi un peso che continuiamo a portare ma di cui in fondo vorremmo sbarazzarci o riconosciamo che la libertà apparente della infedeltà lascia vuota la vita, riconosciamo che è bello stare con Dio? Noi crediamo davvero solo se troviamo gioia in Dio e nella compagnia con lui e se, in forza di questa gioia, vogliamo trasmettere la sua bontà”. Come si vede, anche Ratzinger non è affatto tenero verso pseudo-credenti che non vogliono, come invece deve essere, convertirsi ogni giorno, perchè nella loro autosufficienza pensano di avere già la loro giustizia, ottenuta una volta per tutte in base alle loro opere. La meditazione di Ratzinger presenta altri aspetti, assai interessanti e tutti da assaporare ( il testo: http://papabenedettoxvitesti.blogspot.it/2009/08/il-libro-di-giona-e-la-sua-prosecuzione_07.html ). Riflettevamo all’inizio sul titolo assegnato alla meditazione di Papa Francesco; che sintetizzare una meditazione ricca e spumeggiante sia cosa difficile lo mostra anche il titoletto assegnato al testo di Ratzinger da chi lo ha riprodotto (e gli siamo assai grati) sul web: “Il libro di Giona e la sua prosecuzione neotestamentaria è la più decisa negazione del relativismo e dell’indifferenza che si possa immaginare”. Le interpretazioni patristiche della figura di Giona sono assai numerose: sarebbe interessantissimo riprodurne citazioni e immagini. Significative anche le allusioni liturgiche alle vicende narrate in questo piccolo libro biblico. Sappiamo, ad esempio, che a Milano questo libro era letto il giovedì della settimana santa, giorno della riconciliazione dei peccatori. Ambrogio vede in quel libro una profezia di ciò che, grazie al sacrificio di Cristo, diventava attuale nella liturgia di quel giorno; in una lettera alla sorella, sulle vicende della settimana santa del 386, il santo vescovo scrive: “Il giorno seguente fu letto, secondo la consuetudine, il libro di Giona. Finita la lettura cominciai questo discorso: ‘E’ stato letto un libro, fratelli, in cui si preannunzia che i peccatori si convertono a penitenza – prophetatur quod peccatores in poenitentiam revertantur – […] Era il giorno nel quale il Signore si è consegnato per noi, quello in cui nella Chiesa si condona la penitenza – in ecclesia poenitentia relaxatur” (Ambrogio, Lettere, 76, 25-26: SAEMO 21/3, 150-152). In altri passi, lo stesso Ambrogio vede nella vicenda di Giona un’allusione al battesimo. Ma non possiamo, per ora, proseguire. Volevamo solamente far gustare un aspetto della sorprendente continuità della predicazione occasionale di due uomini che la provvidenza di Dio ci ha benevolmente donati come Pontefici. Un “minuscolo” invito a lasciar perdere polemiche sterili e tentativi di opposizione faziosa e poco edificante. Per finire, una curiosità legata alle vicende del libro di Giona, per mostrare come polemiche e tensioni non siano una novità, purtroppo. La nuova traduzione della Bibbia curata da Girolamo (la Vulgata! il latino! la lingua sacra!) non trovò sempre buona ricezione. Da quanto afferma Agostino (Lettera 71, 3,5), ci fu un episodio pittoresco accaduto al vescovo di Ea (Tripolitania): lasciò la traduzione latina fino ad allora in uso, basata sul greco dei LXX, che diceva che la pianta sotto la cui ombra Giona si ristorò era una zucca, per accogliere quella più curata, e basata sull’originale ebraico, di Girolamo, secondo la quale si trattava invece di un’edera. Ebbene, in quella chiesa si rischiò uno scisma e l’emorragia di fedeli, perchè si passava da una zucca all’edera. E noi oggi, invece, sappiamo che trattavasi di pianta di ricino!!

Le “frequentazioni” della vedova..

Il brano evangelico di questa domenica (Luca 18,1-8) ci presenta una donna, vedova, che si trova necessitata di chiedere giustizia. Luca dice che la donna, per nulla scoraggiata dalla malvagità del giudice, «andava da lui». Dalla prospettiva del giudice, la stessa azione viene letta in altro modo, e induce finalmente l’attenzione e la soluzione del caso: «perché non venga continuamente a importunarmi».

L’andare insistentemente della vedova, immagine parabolica dell’andare insistentemente nella preghiera, potrebbe essere rivisto, in altri termini, nella preghiera dopo la comunione.

Il testo latino dice: «Fac nos, quaesumus, Domine, caelestium rerum frequentatione proficere, ut et temporalibus beneficiis adiuvemur, et erudiamur aeternis», tradotto dal Messale italiano in questo modo: «O Signore, questa celebrazione eucaristica, che ci hai fatto pregustare le realtà del cielo, ci ottenga i tuoi benefici nella vita presente e ci confermi nella speranza dei beni futuri».

I traduttori hanno scelto «celebrazione» per rendere il termine «frequentatione». In effetti, l’etimologia di celebrazione, in latino ha a che fare con qualcosa che è frequentato, affollato, visitato spesso (da cui poi il significato traslato di solennità, maestosità, glorificazione). Dal punto di vista concettuale, quindi, nulla da eccepire. Una più aderente traduzione forse sarebbe stata più intrigante: «questa celebrazione» sottolinea maggiormente il fatto puntuale e concreto della presenza all’azione liturgica che si sta ormai concludendo, «frequentazione» – tradotto con «ripetuta partecipazione» avrebbe permesso un legame interessante con il testo evangelico. Di cui tuttavia rimane un eco, a prescindere dalle scelte dei curatori dell’edizione italiana del messale. La partecipazione all’assemblea liturgica domenicale è una modalità con cui alimentare la preghiera costante del cristiano. Partecipazione ripetuta che produce una grazia attuale, e non solamente una conferma nella speranza. Nell’ultima parte della preghiera, ci pare, la traduzione, invece, non è del tutto corretta: «ci confermi nella speranza dei beni futuri» rende il latino «et erudiamur aeternis». L’italiano sceglie una parafrasi, il latino «erudiri» è più semplice e immediato: istruire, rendere edotti, più letteralmente rendere meno rozzi, meno inesperti. E’ certamente vero che la postcommunio ha spesso una prospettiva escatologica, ma qui la preghiera, nell’originale latino, fa riferimento all’acquisizione di una scienza, un’esperienza: la frequentazione ha un esito, produce una realtà che, pur rimanendo certamente aperta all’escatologia e al compimento, è precisata, perché dei beni futuri se ne riceve scienza, se ne diventa istruiti.

P.S. La fonte della preghiera è un testo del Sacramentario Veronense, il formulario n. 982: «Gaudeat, Domine, quaesumus, populus tua semper benedictione confisus, et caelestium rerum frequentazione proficiat; ut et temporalibus beneficiis adiuvetur et erudiatur aeternis».

Dopo p. Bevilacqua, Mons. Jenny: appunti dei protagonisti.

Nell’ultimo post abbiamo mostrato cenni del pensiero del relatore della prima sottocommissione preparatoria alla Costituzione liturgica, il padre Giulio Bevilacqua.

Ora aggiungiamo un tassello nella conoscenza dei testi e dei testimoni di quel momento così importante. Abbiamo scovato un volumetto, quasi un tascabile, assai prezioso. La data di edizione è il 1963: si direbbe oggi un “instant book”, perché si tratta della traduzione in francese della Sacrosanctum Concilium, approvata il 4 dicembre del 1963, appunto. La semplice traduzione è però impreziosita da un’introduzione autorevole, scritta da Monsignor H. Jenny, uno dei membri – forse il più attivo – della prima sottocommissione. Si deve a lui la scelta di premettere, all’analisi delle specifiche questioni, un’introduzione generale di carattere più teologico. Abbiamo visto alcune foto dell’adunanza plenaria del 1960, abbiamo visto uno schema della disposizione in aula (allora la commissione si riuniva nella sede della Congregazione dei Riti), ci immaginiamo p. Bugnini che dopo avere concluso la discussione sul programma di lavoro delle 12 sottocommissioni, in base alle 12 questioni predisposte e ritoccate in quella seduta, chiede se vi sia chi voglia aggiungere qualche osservazione: non possiamo sentire la voce di mons. Jenny, ma crediamo che sia stato quello un momento cruciale: un vescovo residenziale, francese, di 56 anni, prende la parola e dice in sostanza che manca l’essenziale.

Ebbene, è davvero sorprendente, nella sua semplicità, come lui stesso narra gli eventi di quel giorno, nell’introduzione storica e teologica di cui parlavamo poco sopra: «Dalla prima Sessione plenaria (12-15 novembre) sono costituite dodici sottocommissione che si dividono il programma, così come si presenta sommariamente dopo una breve rassegna delle risposte di tutti i vescovi del mondo all’inchiesta preliminare. Una tredicesima sottocommissione è decisa per lo studio del “mistero della liturgia”: il suo lavoro porterà alla stesura dei primi paragrafi che dominano l’insieme dei capitoli seguenti e che forniscono la linea direttrice di tutte le riforme particolari».

Forse saremo inguaribilmente romantici e ingenui, ma non ci pare il racconto di un rivoluzionario che rivendica a sé il ruolo di innovatore; al contrario nell’asciuttezza della descrizione del momento traspare il senso di una continuità lineare e di un progresso naturale.

Il testo di Jenny continua con altre note storiche, conosciute, per cui non ci soffermiamo, per poi passare a tratteggiare schematicamente i grandi temi dottrinali della riforma. E’ interessante riportarne l’elenco, insieme a poche righe di temi che ci paiono intimamente legati all’ambito del nostro blog.

«Les grands thèmes doctrinaux de la réforme.

1. L’adoration du Père. […]

2. La présence du Seigneur Jésus. […]

3. L’économie du salut. C’est l’enchaînement des faits qui nous ont sauvés; c’est l’appel d’Abraham, le passage de la mer Rouge, la Loi du Sinaï, la préparation messianique de l’Ancien Testament; puis l’incarnation, la prédication, la mort et la résurrection du Christ, son ascension, la Pentecôte, la fondation de l’Eglise, jusqu’au retour glorieux annoncé pour la fin des temps. La liturgie, c’est l’économie du salut qui se prolonge par les faites rituels et sacramentels, C’est Jésus qui passe au milieu des siens et continue son œuvre rédemptrice. Elle a donc une dimension qu’on pourrait qualifier d’historique; elle actualise le salut dans tous les temps et tous les lieux (art. 5-6). D’où l’importance de l’année chrétienne et de ses étapes, l’institution du dimanche, jour du Christ ressuscité et le mystère sacrè de la messe qui ‘annoce la mort du Seigneur, jusq’à ce qu’il vienne’ (art. 47,102).

4. Le mystère pascal. […]

5. La Bible et la Parole de Dieu. Ce que Jésus a dit durant les jours de sa vie mortelle, il li proclame à nouveau par les textes de la liturgie sacrée. La lecture des saintes Ecritures, la prière des psaumes forment le tissu essentiel du culte divin. Il ne suffit pas d’entendre le récit des événements sauveurs, il faut écouter la parole qui est dite, répondre à l’appel, suivre la voix du pasteur, chanter la louange, dire le fiat de l’obéissance, du sacrifice, de l’adhésion spirituelle à la volonté d’un Dieu aimant qui veut sauver tous les hommes. Aussi la Constitution insiste-t-elle sur l’éducation biblique, la catéchèse, l’homélie à partir des textes scripturaires (art. 24,35,51-52).

6. L’Eglise en prière et en assemblée. […]

7. Le pueple de Dieu autor de l’évêque. […]

8. Liturgie intérieure et vitale. […]

9. Liturgie pastorale […]»

 

Da questi principi dottrinali scauriscono, secondo Jenny, alcune indicazioni più concrete, in vista della riforma della liturgia. Ne riportiamo solamente alcune:

«Principales prises de position

1. le relief apporté a l’évènement. On veut dire par là que la liturgie ne se meut pas dans l’abstrait, ni les généralités morales, ni les dévotions sentimentales. Elle nous engage dans les faits qu’elle célèbre par des fêtes, en des ‘jours’ qui sont des dates: Hodie: aujourd’hui, dit la liturgie, Jésus et né, le Christ est ressuscité, l’Esprit a été envoyé..

2. Le mystère pascale. […]

3. La lecture de la Bible et l’annonce de la Parole. A la messe, à l’Office divin, seront revisés les cycles de lectures scripturaires. Dans la célébration, la table de la Parole est inséparable de la table eucharistique. L’homélie, que est une présentation du mystère, à partir du texte sacré, dans le climat de l’année liturgique, sera une obligation aux messes du dimanche.

[…]»

Come si vede, Jenny mette al primo punto dottrinale l’adorazione, tema assai caro a Papa Benedetto XVI; per il resto, dalle focalizzazioni delle questioni, anche Jenny, come Bevilacqua, pare assolutamente in linea con la tradizione, pur facendosi propositore di un pensiero liturgico più biblico e teologico.

Cf. Concile Œcuménique Vatican II, Constitution de la Sainte Liturgie, Introduction par Mgr. Henri Jenny, Paris 1963.

 

 

P.S. Abbiamo scoperto che su P. Bevilacqua è stata fatta una tesi di Laurea, di cui è stato pubblicato un estratto: C. Boldini, “La liturgia infaticabile espressione dell’uomo”. La celebrazione liturgica nel pensiero e nell’azione pastorale del cardinale Giulio Bevilacqua (1881-1965), Estratto della tesi per il conseguimento del Dottorato in Teologia con specializzazione liturgico-pastorale, Padova 2011. http://www.ist-liturgiapastorale.net/dottorati/c-boldini E’ ricca di particolari interessanti anche la nota di A.-G. Martimort, «Le père Giulio Bevilacqua et la réforme liturgique conciliaire», in Id., Mirabile laudis canticum. Mélanges liturgiques, Roma 1991, 351-357.

Uno dei nostri lettori ha commentato il post, accennando ad una conoscenza diretta di P. Bevilacqua. A lui abbiamo chiesto di scrivere una nota personale. Potrà essere interessante. Approfitto, ringraziando quanti mi stanno incoraggiando nel continuare questo “minuscolo” blog. Se qualcuno avesse conoscenza di studi o materiale su mons. Jenny, vi prego di farmelo presente.

A presto.

M.F:

Pontificia Commissio Praeparatoria De Liturgia, Subcommissio I….

Abbiamo già accennato all’importanza, nella fase di preparazione della Costituzione liturgica, della prima Sottocommissione, ossia di quel gruppo che cominciò a delineare l’impianto e le prime bozze readazionali di quello che sarebbe diventato il primo capitolo della Sacrosanctum Concilium.

cf. https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2013/09/11/12-novembre-1960-quellultimo-intervento-che-cambio-tutto/

anche: https://sacramentumfuturi.wordpress.com/2013/09/23/rivoluzionari/

A riguardo della composizione della sottocommisione, si può dire che era assai qualificata per qualità e per ambito: fra di essi vi erano studiosi importanti (quali Martimort e Jungmann, Onativia) ma anche pastori (il vescovo ausiliare di Cambrai, mons. Jenny e p. G. Bevilacqua, poi diventato Cardinale) e un abate, p. Cannizzaro. Ad alcuni di loro, storicamente, si deve il fatto che oltre ad esaminare questioni più “pratiche”, la Commissione Preparatoria si adoperò per redigere un capitolo più teologico, che fungesse da introduzione e da inquadramento generale per le questioni più concrete di studio e di riforma. Per quegli anni fu una vera novità, che alterò lo schema originario delle questioni assegnate alle Commissioni. Si deve ricordare, tuttavia, che alle singole Commissioni era riconosciuta la libertà di aggiungere altre questioni a quelle loro assegnate dalla Commissione Centrale. Novità dunque, ma non eccesso rivoluzionario o di rottura. Si era ben consci della questione e della delicatezza della materia. Dai documenti, dalle carte, e dalla storia che se ne può ricostruire, non si ha – almeno questa è la mia personale impressione – la percezione di uomini che consideravano se stessi rivoluzionari o artefici a tavolino di una nuova liturgia, a cui finalmente era stato assegnato il compito di pronunciare sentenze definitive. L’impressione è di trovarsi davanti a uomini di fede, fedeli alla Chiesa, equilibrati nella ferma asserzione della verità e pronti, comunque, a rimanere soggetti all’Autorità.

Nell’apprestarsi a redigere la relazione loro affidata, uno dei membri della Sottocommissione così scriveva, fra il dicembre 1960 e il febbraio 1961:

«Adnotationes et Schemata a p. Bevilacqua proposita

I. ALTIORA PRINCIPIA EXPONENTUR DE MOMENTO SACRAE LITURGIAE IN VITA ECCLESIAE

I. Ogni riforma della Sacra Liturgia, per riuscire veramente ricostruttrice, deve partire da alcuni principi:

a) essenziali: cioè costitutivi del suo primo nucleo centrale.

b) sicuri: cioè fondati sulla parola di Dio, la tradizione, il magistero ecclesiastico.

c) organici: cioè atti a ricondurre l’ingente massa dei particolari rituali al senso e sotto la direzione del tutto liturgico.

d) semplici ed evidenti: perché solo la semplicità e l’evidenza spingono a tradurre in vita vissuta il pensiero.

II. Alla luce di tali principi, potrà apparire nitidamente:

a) la rigorosa connessione di tra liturgia e verità, realtà, virtualità del Cristianesimo stesso, per cui ogni sostanziale deformazione liturgica finisce per risolversi in deformazione dogmatica.

b) ciò che nella liturgia è essenziale ed accessorio, quindi riformabile e non riformabile.

c) ciò che è logico sviluppo e progresso vitale liturgico e ciò che ne è deviazione, superstruttura di epoche, di gruppi, di singoli.

d) ciò che costituisce il volto autentico della liturgia da ciò che ne fu deformazione disgregatrice (liturgia considerata come immobilismo – letteralismo rubricistico – archeologia –fasto cortigiano – dissociazione del soggettivo dall’oggettivo)»: Archivio Segreto Vaticano, Conc. Vat. II, busta 1357.

Alcune note.

La prima, di carattere filologico: Bevilacqua parla di “virtualità” del cristianesimo non nel senso inteso ai nostri giorni, attinente alla realtà virtuale, quanto nel senso più etimologico di potenzialità.

La seconda: a quanto pare si era ben consci della delicatezza dell’opera cui ci si accingeva; sapevano che toccare la liturgia era toccare una realtà organica e complessa con ricadute in ogni ambito della vita della chiesa (“ogni sostanziale deformazione liturgica finisce per risolversi in deformazione dogmatica”).

In attesa di poter documentare con più dovizia di particolari il lavoro della Sottocommissione, ci pareva interessante offrire questo piccolo spaccato “metodologico”, per ribadire la nostra impressione. Non erano uomini, come talvolta li si dipinge, assillati da pruriti di novità, artigiani di esperimenti sconsiderati! Paiono uomini colti e saggi, osservatori prudenti e coraggiosi investigatori.

Uomini, come tutti, certamente fallibili. Come chi scrive. Ma animati, così pare, da un sincero desiderio di servire la Chiesa e il bene dei fedeli.

AT, NT, Cosmo: un “succo” di liturgia

Natura, Cosmo, Scrittura Sacra, tutto la liturgia accoglie, trascende, ridice: è davvero impressionante la capacità che la sapienza della Chiesa ha nel leggere e attualizzare le grazie che Dio ha seminato nella storia. Un esempio curioso, siamo oggi davvero in anticipo rispetto al tempo liturgico giusto, sono le Antifone maggiori per i Vespri della novena di Natale, antifone che, secondo Guéranger, contengono tutto il succo della liturgia dell’Avvento.

Non possiamo fermarci sulla storia della loro formazione e sull’attribuzione di queste perle [cf. M. Righetti, Manuale di storia liturgica, II, L’anno Liturgico, Milano 1969, 63 (ed. anastatica 1998); anche V. Noè, I grandi annunzi dell’Avvento, Città del Vaticano 2000]. Le varie ipotesi, e la varietà nell’uso e nel numero, se da una parte ci lasciano incerti, dall’altra ci confermano nella gratitudine alla Madre Chiesa e alla sua tradizione per la sua multiforme ricchezza: alle radici di questi tesori non ci sono solo nomi di grandi uomini (Gregorio Magno? Alcuino?), ma monasteri, comunità, consuetudini locali, pietà popolare. Un’ispirazione condivisa, che accoglie e valorizza i doni e i carismi di tutti, secondo le rispettive capacità.

Una di queste antifone prendiamo come esempio, una delle sette. C’è un particolare curioso, forse casuale o accidentale: ma la liturgia fa questi scherzi sorprendenti.

Mi riferisco al fatto che quest’antifona è assegnata al giorno 21 dicembre: il giorno in cui assolutamente minime, nell’emisfero boreale, sono le ore di luce, rispetto a tutto il corso dell’anno. Ebbene quando più fitte e durature sono le tenebre, la liturgia canta a Cristo “Oriente”! La Scrittura, il tempo liturgico, ma anche il cosmo tutto ci aiuta ad invocare il Signore con un grido pieno di fede, imbevuta di Parola di Dio, e di lirismo, per nulla astratto.

 O Oriens, splendor lucis aeternae, et sol iustitiae: veni, et illumina sedentes in tenebris, et umbra mortis.

O astro che sorgi, splendore di luce eterna, e sole di giustizia: vieni ed illumina coloro che siedono nelle tenebre, e nell’ombra della morte.

 Ecco alcuni dei tanti possibili passi della Scrittura a cui l’antifona allude:

Sal 110 (109),3: A te il principato nel giorno della tua potenza tra santi splendori; dal seno dell’aurora, come rugiada, io ti ho generato;

2 Sam 23,3-4: Chi governa gli uomini con giustizia, chi governa con timore di Dio, è come luce di un mattino quando sorge il sole, mattino senza nubi, che fa scintillare dopo la pioggia i germogli della terra;

Is 9,1: Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse; 42,6: ..ti ho formato e ti ho stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri e dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre; 60,19: Il sole non sarà più la tua luce di giorno, né ti illuminerà più lo splendore della luna. Ma il Signore sarà per te luce eterna, il tuo Dio sarà il tuo splendore.

Mi 7,8: Se sono caduta, mi rialzerò; se siedo nelle tenebre il Signore sarà la mia luce.

Zc 6,12: Ecco un uomo che si chiama germoglio… Vulgata: ecce vir Oriens nomen eius.

Zc 14,7: In quel giorno non vi sarà né luce né freddo né gelo: sarà un unico giorno, il Signore lo conosce; non ci sarà né giorno né notte, e verso sera risplenderà la luce.

Mal 3,20: sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia.

Lc 1,79: ci visiterà un sole che sorge dall’alto, per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte.

Eb 1,3: Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza…Vulgata: qui cum sit splendor gloriae..

Alcuni riferimenti in internet:

“The extraordinary thing about today’s O Antiphon is that in 5 short lines –3 of invocation and 2 of petition– there are six biblical sources! There is, I think, no better example of how the liturgy is woven from the very fibers of the Word”: http://vultus.stblogs.org/index.php/2012/12/o-oriens/

Per ascoltare la melodia dell’Antifona: http://www.cantualeantonianum.com/2008/12/antifone-maggiori-5-o-radix-iesse-21.html

Cf. anche T. J. Knoblach, «The “O” Antiphons», in Ephemerides Liturgicae 106 81992) 177-204.

Il complesso delle sette antifone maggiori è stato riorganizzato in un unico cantico da un’anonimo del XII sec, ed è diventato un canto più popolare: il Veni Veni, Emmanuel [cf. ad es. D. Rezza, Inni natalizi del medioevo latino, Città del Vaticano 2001, 198-199]. La strofa corrispondente all’antifona del 21 dicembre sarebbe questo: Veni, Veni o Oriens, solare nos adveniens, noctis depelle nebulas, dirasque mortis tenebras.

 

Non possiamo non ricordare, in conclusione, Sacrosanctum Concilium 24: “Massima è l’importanza della sacra Scrittura nella celebrazione liturgica. Da essa infatti vengono tratte le letture da spiegare nell’omelia e i salmi da cantare, del suo afflato e del suo spirito sono permeate le preci, le orazioni e gli inni liturgici, e da essa prendono significato le azioni e i segni. Perciò, per favorire la riforma, il progresso e l’adattamento della sacra liturgia, è necessario che venga promossa quella soave e viva conoscenza della sacra Scrittura, che è attestata dalla venerabile tradizione dei riti sia orientali sia occidentali”.

“Cristologia liturgica”: monofisiti vs nestoriani, altroché conservatori vs riformatori.

Uno dei portati del pensiero liturgico di J. Ratzinger – comunque la si pensi, se ne deve tenere conto – è l’avere ri-agganciato in modo inequivocabile  la liturgia alla cristologia. Non paia grossolana questa sintesi, non posso fermarmi ora a mostrarne la fondatezza (della sintesi stringata) e la genialità (del dato di Ratzinger, l’aver colto il legame strettissimo fra cristologia e liturgia). Sia sufficiente una sola citazione:

Negli anni del movimento liturgico così come all’inizio della riforma liturgica voluta dal Concilio potè sembrare a molti che la preoccupazione per una forma corretta della liturgia fosse una questione di pura prassi, una ricerca della forma di Messa più adeguata e accessibile agli uomini del nostro tempo. Nel frattempo si è visto sempre più chiaramente che nella liturgia si tratta della nostra comprensione di Dio e del mondo, del nostro rapporto a Cristo, alla Chiesa e a noi stessi. […] Solo uno stretto collegamento con la cristologia può permettere uno sviluppo fruttuoso della teologia e della prassi liturgica”. J. Ratzinger, Cantate al Signore un canto nuovo, Milano 1996, 10.

Questa piccola nota voleva solamente introdurre le considerazioni di un altro autore. Lo studio da cui sono tratte ha i suoi anni, ma le osservazioni sono quanto mai attuali. L’autore gode di una stima e di un’autorità indiscussa e generalizzata, direi: alcuni lo stimano per alcune sue osservazioni critiche a particolari aspetti della riforma liturgica post-conciliare; nello studio di cui stiamo per citare brani introduttivi, l’autore affronta la questione del rapporto fra religione naturale e liturgia cristiana, quindi una ricerca di taglio più “antropologico” che storico-liturgica, e questo approccio piace a studiosi di tutt’altra scuola rispetto a quelli che lo apprezzano come critico della riforma. Comunque, a noi pare assai interessante e utile riportare le considerazioni che aprono la sua ricerca, e notare collegamenti assai illuminanti.

“C’è da osservare che nostra comprensione del cristianesimo, della religione cristiana in tutta la realtà dei suoi riti e delle sue formule, è perennemente insidiata dai medesimi errori che in passato hanno dato luogo alle grandi eresie cristologiche. […] L’antichità ha conosciuto due grandi tipi di eresie riguardanti l’incarnazione. Nel monofisismo si è talmente messo l’accento sulla divinità da arrivare ad assorbire, a negare l’umanità del Salvatore. Nel nestorianesimo, al contrario, è stato così fortemente rivendicata l’autenticità di questa umanità da arrivare a misconoscere, a praticamente negare che essa fu l’umanità di una persona divina. Le eresie di Eutiche e di Nestorio risalgono a un passato lontano più di dieci secoli. Ma le tendenze di spirito che vi si mettono in luce appartengono a tutti i tempi. […] Lo sforzo di rinnovamento nella vita liturgica della Chiesa ne porta le tracce.

Ai monofisiti bisogna riavvicinare certi cattolici conservatori, “integristi”, per i quali nelle istituzioni ecclesiastiche, e specialmente nella liturgia, tutto sembra ugualmente sacro, e quindi immutabile. Questa tendenza, ordinariamente collegata a ciò che si chiama la mentalità rubricistica, ci porta a vedere nel culto cristiano un qualcosa dato in blocco dall’alto. Tale quale ce la dà l’autorità della Chiesa, assimilata essa stessa puramente e semplicemente all’autorità di Dio, la liturgia cattolica dovrebbe essere considerata completamente divina. Pertanto si vorrebbe che essa sfuggisse in qualche modo all’umanità. Cercare di comprenderne storicamente lo sviluppo sarebbe, per costoro, un diminuirla e un prepararsi ad alterarla; promuovervi effettivamente certe trasformazioni o adattamenti equivarrebbe a misconoscerne l’istituzione divina, l’autorità soprannaturale che hanno presieduto alla sua organizzazione. […] In simili condizioni, non c’è da stupirsi che con l’attaccamento rigido al latino vada di pari passo una volontà di conservare nello svolgimento dei riti un che di ieratico, di misterioso, sino a renderli inaccessibili ai fedeli. Sempre in latino, si reputerà necessaria la recita a bassa voce di certe preghiere, e specialmente di quelle più essenziali. Si farà feroce opposizione a tutto ciò che potrebbe mettere in evidenza ciò che di comune esiste tra i riti sacri e le azioni puramente umane: il dare all’altare la sua forma primitiva di mensa susciterà scandalo, e così pure tutto quello che mostra che la mensa è un banchetto. […] In una parola, tutto quello che rende viva la liturgia, tutto quello che mira a farne partecipe il popolo, sarà considerato come una profanazione: quasi che la liturgia non resti sacra se non quando sia sottratta all’umanità comune, immune da ogni contatto con questa. […] ..di fronte alla tendenza monofisita e in reazione contro di essa, si pone in luce la tendenza che possiamo chiamare nestoriana: cioè la tendenza a talmente insistere sull’umanità – e l’umanità comune – del cristianesimo che la sua specificità, nello stesso tempo che la sua divinità, rischia di scomparire. […] C’è tuttavia un’altra forma di nestorianesimo liturgico che oggi vediamo all’opera e che non è meno gravemente erroneo del precedente. Essa reagisce contro la confusione pura e semplice del sacro cristiano con il sacro naturale. Ma reagisce male: volendo anch’essa affermare l’umanità del cristianesimo, ma guardandosi dal confonderlo per questo con le altre religioni, pretende mostrarci nel cristianesimo una religione radicalmente nuova, precisamente perché essa rigetterebbe ogni sacralità, nel senso corrente, precristiano, dell’espressione. […] Incessantemente, con un solo movimento, dovremmo ritrovare nella messa la cena primitiva, e per questo, rigettato qualsiasi arcaismo e qualsiasi ieratismo, rifarne un banchetto il possibilmente simile ai banchetti fraterni degli uomini di oggi. Pertanto le letture bibliche e il loro commento, con le preghiere che le accompagnano, dovrebbero svolgersi così da rievocare più che sia possibile un trattenimento amichevole attorno alla mensa familiare, in cui il padre di famiglia espone ai suoi le proprie intenzioni, i propri progetti per la loro vita in comune, dato che la celebrazione, e in particolare la comunione, assume le forme oggi abituali a un banchetto di festa. […] In questa visione delle cose, arriviamo proprio agli antipodi di quello che avevamo indicato come la visione di tendenza monofisita. Nel primo caso, la messa non poteva restare la messa, senza che tutto in essa fosse differente dalla vita comune, radicalmente separato da questa: bisognava che l’altare non comparisse come una mensa, la comunione come un banchetto e che non vi si utilizzasse neppure la lingua comune. Qui, al contrario, tutto deve rammentare il banchetto, i trattenimenti profani. […] I liturgisti ultraconservatori, del tipo che abbiamo chiamato “integrista”, vogliono giustamente mantenere tale trascendenza e l’autorità sovrana di quest’unica personalità del Salvatore. Ma col volere per questo che la liturgia diventi inumana essi si ingannano. I nostri liturgisti riformatori e innovatori vogliono per reazione salvare l’umanità della liturgia e di tutta la religione cristiana, in nome del Vangelo: e hanno ragione in questo disegno. Tuttavia a loro volta s’ingannano anch’essi, al pari di quelli, nella misura in cui ritengono che salvare l’umanità significhi lasciarla tale e quale, cancellarvi persino qualsiasi distinzione fra sacro e profano“: Luis Bouyer, Il rito e l’uomo. Sacralità naturale e liturgia, Brescia 1964, 13-19.

Servi inutiles sumus. Divagazioni liturgiche…

Non possiamo, perché non ne siamo capaci, addentrarci con proprietà in analisi esegetiche sul valore della traduzione che anche l’ultima versione della CEI ha scelto per questa espressione – siamo servi inutili. Il testo è questo, con questo pertanto ci si deve confrontare. Però ci sorprende, ancora una volta, come il contesto eucologico che circonderà, in questa domenica, la proclamazione di questo vangelo, apra prospettive interessanti. Vediamo, forse sono solo divagazioni. Oppure no?

Colletta. Omnipotens sempiterne Deus, qui abundatia pietatis tuae et merita supplicum excedis et vota, effunde super nos misericordiam tuam, ut dimittas quae conscientia metuit, et adicias quod oratio non praesumit.

Traduzione più letterale. Dio onnipotente et eterno, che con la sovrabbondanza della tua clemenza oltrepassi i meriti e i desideri di quanti ti supplicano, effondi su di noi la tua misericordia, così da rimettere ciò che la coscienza teme ed aggiungere ciò che la preghiera non osa chiedere.

Versione Messale CEI. O, Dio fonte di ogni bene che esaudisci le preghiere del tuo popolo al di là di ogni desiderio e di ogni merito, effondi su di noi la tua misericordia: perdona ciò che la coscienza teme e aggiungi ciò che la preghiera non osa sperare.

Si parla di meriti che però non corrispondono alla sovrabbondanza della clemenza, che eccede rispetto a quanto invece sarebbe giusto e meritato; si parla di aggiunta rispetto a quanto si ha timore persino di chiedere. Da una parte, dunque, c’è una professata impossibilità nel pretendere, nel presumere, vantando crediti, per ricevere; dall’altra, una munificenza assolutamente non retributiva. Con Dio non si possono fare conti, non si potrà mai millantare credito. Sono abolite le categorie quantitative (aumenta la nostra fede, daccene di più…. se aveste fede quanto un granello di senape…). Dio ci pone in un altro ordine, quello della gratuità, appunto, che è sovrabbondante, generosa, sorprendente, inaspettata, non dovuta.

I servi che faranno quanto gli è stato ordinato, dovranno dire: “Siamo servi inutili“. Cosa significa? Inutile…. in-utile…Nei nostri tempi, in cui ogni giorno i notiziari ci dilettano sull’andamento della borsa, con gli indicatori economici… il termine “inutile” risuona con sfumature nuove… non dà utili, non fruttica, non produce “utile”. “Utile” significa anche “guadagno”, “profitto”, “rendita”… “Inutile” potrebbe voler intendere, allora, ciò che non profitta, ciò che non dà guadagno, ciò che non avanza. In effetti, l’altra occorrenza, nell’orginale greco del Nuovo Testamento, del termine usato in Lc 17,10 è Matteo 25,30 (“E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre..”): il contesto parla di talenti, di guadagno, di banchieri! Il servo inutile è inutile proprio perchè non ha affidato il denaro del padrone ai banchieri e così, ritornato, il padrone non ha potuto ritirare il suo denaro con gli interessi!!

Forse stiamo fantasticando troppo e occorre tornare alla serietà di analisi di biblisti (cf. ad es.: http://www.gliscritti.it/approf/papers/servi.htm ), tuttavia il contesto offerto dall’eucologia era troppo invitante per non pensare ad una lettura simile. Gesù chiede ai suoi discepoli di servirlo senza aspettarsi ricompense straordinarie, chiede di servire senza aspettarsi “utili” e tornaconti, senza fare calcoli. Non può valere un simile ragionamento: “Dunque, ho arato tutto il giorno, ho pascolato il gregge…adesso tornato a casa del padrone, sicuramente lui mi farà accomodare alla sua mensa…., ne ho diritto, me lo sono meritato….”! No! Ricordiamo l’altra parabola, quella degli operai mandati nella vigna a diverse ore: quelli che avevano lavorato tutto il giorno pensavano di guadagnare di più, calcolavano…pensavano di meritare di più.. e invece: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono” (Mt 20,13-15). Lui è buono! La preghiera di colletta ce lo annuncia e ce lo ricorda facendoci pregare, per questo possiamo dire anche noi “siamo servi inutili”! Non ci interessa fare calcoli, perchè comunque Dio ci darà sovrabbondantemente anche quello che non osiamo nemmeno sperare.

P.S.

E’ interessante anche la Post Communio. Concede nobis, omnipotens Deus, ut de perceptis sacramentis inebriemur atque pascamur, quatenus in id quod sumimus transeamus.

Traduzione più letterale: Concedici, Dio onnipotente, di essere inebriati e nutriti dai sacramenti che abbiamo ricevuto, così da divenire ciò che riceviamo.

Versione Messale CEI. La comunione a questo sacramento sazi la nostra fame e sete di te, o Padre, e ci trasformi nel Cristo tuo Figlio.