Fra le tante pagine del Vangelo, non è una fra quelle di più facile comprensione e attualizzazione la parabola di Luca 16, 19-31, la storia del ricco “epulone” e del povero Lazzaro.
Non intendiamo, perché non sappiamo farlo, offrire un’esegesi completa e precisa del testo.
Ci piace fare un aggancio, forse azzardato, fra un versetto evangelico – fra l’altro abbastanza misterioso – e un dato liturgico non tanto conosciuto.
Per svariati secoli, la liturgia della penitenza e della riconciliazione ha conosciuto una drammatizzazione progressiva, soprattutto nel caso della penitenza “pubblica”. Normalmente all’inizio della Quaresima, i pubblici peccatori, ossia i cristiani caduti in peccati noti e particolarmente gravi, venivano espulsi dalla comunione eucaristica, e tutto ciò era espresso anche fisicamente con l’espulsione dalla Chiesa. Sia sufficiente questo breve cenno per presentare un manoscritto della chiesa di Besançon, pubblicato da E. Martène nei suoi De antiquis ecclesiae ritibus, fra i testi relativi alla penitenza, come Ordo XIII. Il testo risale all’XI secolo.
Lo schema rituale è analogo a quello di altri Ordines, e che poi sarà consacrato dal Pontificale Romanum.
Il mercoledì delle ceneri, dopo che i penitenti sono stati esaminati ed è stata loro comminata la penitenza in base alle loro colpe, all’ora sesta il vescovo comincia una spiegazione della particolare liturgia: dall’ambone dichiara quali siano i penitenti da espellere, invitando tutti i presenti a pregare per loro. Segue l’imposizione della cenere, richiamo non solo remoto a quel “Ricordati che sei polvere e in polvere tornerai”, perché mentre vengono fatti uscire processionalmente dalla chiesa, un’antifona canta “con il sudore del tuo volto…”; prima che venga chiusa la porta della chiesa, il vescovo, ai penitenti ormai fatti uscire, il vescovo dice: “Ecco siete espulsi oggi dal seno della madre Chiesa a causa dei vostri peccati, come il primo Adamo è stato espulso dal Paradiso a causa della sua trasgressione”, e chiude la porta. Fin qui il rito comune.
Il manoscritto in questione aggiunge un’ulteriore ritualità: dopo un breve istante, la porta viene riaperta, e il vescovo fa notare “quanta distanza ci sia fra i buoni, che con Dio e con i santi rimangono nella chiesa, e i colpevoli che per la loro malvagità dovranno essere gettati nel supplizio eterno, se non si saranno corretti per mezzo della penitenza”. [Et parvo intervallo facto, iterum aperiat ostium, ostendens eis quanta distantia sit inter bonos, qui cum Deo et sanctis eius remanent in ecclesia, et reos qui pro sua nequitia cum diabolo proiiciendi sunt in supplicium aeternum, nisi se per poenitentiam correxerint.]
Il grande “abisso” – così viene tradotta in italiano l’enigmatica parola greca “chasma” – in latino “chaos magnum firmatum est”, diventava forse visibile nella liturgia della penitenza pubblica? Ma pur essendo grande la distanza, finché si può fare penitenza, quell’abisso che separa il mondo del peccato e la santità di Dio può essere colmato dall’accoglienza sincera della gratuita misericordia divina, accoglienza che non esclude, anzi la significa, un esercizio penitenziale serio e drammatico, come era quello ai cui i penitenti venivano sottoposti.
Quello che abbiamo proposto è solamente un legame ipotetico, basato sulla sorprendente libertà e maestria con cui i nostri padri leggevano ed erano capaci di “ridire” la Scrittura, in linguaggi disparati e con accenti anche drammatici. Siamo pronti a ricrederci come a ricevere conferme.
Bibliografia:
E. Martène, De antiquis Ecclesiae Ritibus libri, I, Hildesheim 1967.
A. Nocent, “La pénitence dans les ‘Ordines’ locaux transcrits dans le ‘De antiquis ecclesiae ritibus’ d’Edmond Martène”, in Paschale Mysterium. Studi in onore dell’abate Prof. Salvatore Marsili (1919-1983), ed. G. Farnedi, Roma 1986, 115-138.
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